Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19958 del 23/09/2020

Cassazione civile sez. I, 23/09/2020, (ud. 03/07/2020, dep. 23/09/2020), n.19958

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21599/2015 proposto da:

Reale Costruzioni S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Tuscolana n. 946,

presso lo studio dell’avvocato Cerbo Fabrizio, rappresentata e

difesa dall’avvocato Di Fruscio Pasquale, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di Boscotrecase, in persona del sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Sicilia n. 50, presso lo

studio dell’avvocato Napolitano Andrea, rappresentato e difeso

dall’avvocato Marone Gherardo, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2610/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 10/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/07/2020 dal cons. Dott. MELONI MARINA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Torre Annunziata con sentenza in data 8/10/2009 respinse la domanda di condanna al pagamento di una somma quale corrispettivo per lavori eseguiti extra contratto, avanzata nei confronti del Comune di Boscotrecase da parte della impresa Reale Costruzioni spa relativo alla fornitura di punti luci aggiuntivi rispetto a quelli previsti nel contratto di appalto stipulato tra le parti, rilevando la mancanza di forma scritta richiesta ad substantiam ed accolse la domanda di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. per la medesima causale.

Su impugnazione della Reale Costruzioni spa e del Comune di Boscotrecase, la Corte di Appello di Napoli a parziale modifica della sentenza di primo grado, rigettò anche la domanda di ingiustificato arricchimento, perchè mancante il riconoscimento dell’utilità dell’opera in relazione ai punti luce aggiuntivi. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione la impresa Reale Costruzioni spa affidato a tre motivi. Il Comune di Boscotrecase resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso la Reale Costruzioni spa denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2043 c.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, perchè la Corte di Appello di Napoli ha escluso un riconoscimento esplicito o implicito di utilità dell’opera per cui è causa sebbene il responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale abbia inviato alla impresa diffida a non rimuovere i punti luce aggiuntivi manifestando così la volontà dell’ente di avvalersi del lavoro extracontrattuale eseguito.

Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione delle regole di nomofilachia di cui alla sentenza a Sezioni Unite 10798 del 26 maggio 2015 secondo la quale “Il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicchè il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto”.

Con il terzo motivo di ricorso la Reale Costruzioni spa denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., art. 97 e 111 Cost. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, nonchè vizio di motivazione perchè la Corte di Appello di Napoli ha ritenuto improponibile ai sensi dell’art. 2042 c.c. la domanda residuale di indebito arricchimento in quanto mancante il riconoscimento dell’utilità dell’opera senza valutare che era stato vietato alla ditta di rimuovere i pali installati a sue spese.

Il primo motivo di ricorso è infondato e deve essere respinto.

Infatti la valutazione in ordine all’utilità dell’opera non solo non può provenire da amministrazioni terze, pur se interessate alla prestazione, ma nemmeno da atti e comportamenti imputabili a qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura dell’ente di esse destinatario (Cass. 18 aprile 2013 n. 9486), essendo necessariamente rimessa solo agli organi rappresentativi di detta amministrazione o a quelli cui è istituzionalmente devoluta la formazione della sua volontà (Cass. 27 luglio 2002, n. 11133; Cass. 17 luglio 2001, n. 9694).

Pertanto nel caso di specie assolutamente irrilevante è la volontà espressa dall’Ufficio Tecnico Comunale in quanto organo del tutto inidoneo a configurare una compiuta manifestazione di volontà dell’ente di avvalersi del lavoro extracontrattuale eseguito.

In ordine ai restanti motivi di ricorso correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto che i contratti con la Pubblica Amministrazione devono essere redatti in forma scritta a pena di nullità e che il contratto mancante della forma scritta non è suscettibile di sanatoria poichè gli atti negoziali della P.A. constano di manifestazioni formali di volontà, non surrogabili con comportamenti concludenti.

E’ pacifica e consolidata sul punto la giurisprudenza di questa Corte, vedi per tutte Sez. 1 -, Ordinanza n. 11190 del 09/05/2018 secondo la quale: “In tema di contratti degli enti pubblici, stante il requisito della forma scritta imposto a pena di nullità per la stipulazione di tali contratti, la volontà degli enti predetti dev’essere desunta esclusivamente dal contenuto dell’atto, interpretato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., non potendosi fare ricorso alle deliberazioni degli organi competenti, le quali, essendo atti estranei al documento contrattuale, assumono rilievo ai soli fini del procedimento di formazione della volontà, attenendo alla fase preparatoria del negozio e risultando pertanto prive di valore interpretativo o ricognitivo delle clausole negoziali, a meno che non siano espressamente richiamate dalle parti; nè può aversi riguardo, per la determinazione della comune intenzione delle parti ex art. 1362 c.c., comma 2, alle deliberazioni adottate da uno degli enti successivamente alla conclusione del contratto ed attinenti alla fase esecutiva del rapporto, in quanto aventi carattere unilaterale.”.

Ciò premesso va osservato che la sentenza impugnata essendo stata pronunciata il 27 maggio 2015 non poteva tener conto di quanto affermato in Sezioni Unite n. 10798 del 26 maggio 2015 richiamata nel secondo motivo di ricorso, donde l’esigenza di integrarne la motivazione, pur confermando la decisione, con le seguenti considerazioni.

Le Sezioni Unite di questa Corte, innovando la materia con il principio dell’arricchimento imposto, dopo aver stabilito che “Il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicchè il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento” hanno poi precisato che: “il riconoscimento da parte della P.A. dell’utilità della prestazione o dell’opera può rilevare non già in funzione di recupero sul piano del diritto di una fattispecie negoziale inesistente, invalida o comunque imperfetta – trattandosi di un elemento estraneo all’istituto – bensì in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell'”imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico. Mentre le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della pubblica amministrazione, che l’espediente giurisprudenziale del riconoscimento dell’utilitas ha inteso perseguire, possono essere adeguatamente coniugate con la piena garanzia del diritto di azione del depauperato, nell’ambito del principio di diritto comune dell’arricchimento imposto, in ragione del quale l’indennizzo non è dovuto se l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo, perchè inconsapevole dell’eventum utilitatis”.

Il principio affermato dalle Sezioni Unite con 10798/2015 è stato recentemente ribadito da questa Corte con sez. 1 -, Sentenza n. 15937 del 27/06/2017 secondo cui “Il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicchè il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso; tuttavia, le esigenze di tutela delle finanze pubbliche e la considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della P.A. trovano adeguata tutela nel principio di diritto comune del cd. arricchimento imposto, potendo, invece, l’Amministrazione eccepire e provare che l’indennizzo non è dovuto laddove l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento ovvero non ha potuto rifiutarlo perchè inconsapevole dell’eventum utilitatis” (vedi anche Sez. 3 -, Ordinanza n. 11209 del 24/04/2019).

Sulla base di tali principi, qui pienamente condivisi, deve concludersi che ormai è stato espunto dal campo di indagine del giudice di merito l’accertamento di quel quid pluris, individuato, dai precedenti orientamenti interpretativi, nella valutazione di utilità dell’opera, cosicchè, come nei rapporti tra privati, dunque, l’unica prova che l’attore deve offrire a fondamento della sua domanda di indennizzo ex art. 2041 c.c. concerne l’impoverimento e l’arricchimento, oltre che l’assenza di giustificazione dello spostamento di ricchezza e di altre azioni esperibili a tutela del diritto, e l’azione per ingiustificato arricchimento dovrà essere accolta tutte le volte in cui il privato dimostri l’esistenza del proprio impoverimento e della locupletazione dell’ente, a prescindere dall’esistenza di un gradimento implicito o esplicito da parte dell’amministrazione, mentre dovrà essere rigettata ove l’ente convenuto dimostri di aver rifiutato o di non aver potuto rifiutare, a cagione dell’imposizione del privato, l’opera conseguente. La prova, pertanto, non concerne più la valutazione di utilitas bensì il giudizio contrario dell’amministrazione e, dunque, trattandosi di prova contraria, incombe sul convenuto (Cass. 7158/2018).

Passando all’esame della fattispecie, l’ipotesi ricorrente è quella di opere aggiuntive eseguite dall’appaltatore in assenza di qualsiasi valida richiesta o autorizzazione. Infatti la stessa impresa ha riconosciuto che le opere erano state realizzate sulla base di “disposizioni verbali di amministratori e funzionari”. In tal caso pertanto l’azione di indebito arricchimento non può essere esperita non tanto per mancanza del requisito, ormai non più necessario del riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte della P.A. (come motiva la Corte di Appello di Napoli) quanto piuttosto per mancanza dei presupposti di residualità e sussidiarietà dell’azione di cui all’art. 2041 c.c., in quanto l’impresa doveva piuttosto esperitile l’azione nei confronti dei funzionari che avevano impartito disposizioni nulle ai sensi del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 convertito, con modificazioni, nella L. n. 144 del 1989, poi riprodotto nel D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, art. 35 ed oggi rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191.

La previsione normativa richiamata ha previsto un innovativo sistema di imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell’amministratore o funzionario degli effetti dell’attività contrattuale dallo stesso condotta in violazione delle regole contabili al fine di scoraggiare erogazioni di pubblico denaro contro legem ed ha adottato lo strumento della responsabilità personale di chi ha disposto la spesa in violazione delle norme sugli impegni di spesa e sulle copertura finanziaria di cui alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 55, comma 5.

La nuova norma, quale applicazione particolare del principio generale di responsabilità dei pubblici funzionari sancito dall’art. 28 Cost. costituisce dunque fonte di obbligazioni dirette tra privato ed organo o pubblico dipendente dovendosi per l’effetto ritenere concessa al primo l’azione nei confronti del secondo per l’adempimento del contratto e restando con ciò esclusa l’esperibilità dell’azione generale di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. in considerazione del suo carattere sussidiario.

A fronte di una responsabilità diretta del funzionario o dell’amministratore verso il fornitore o il prestatore con esclusione di ogni rapporto obbligatorio tra quest’ultimo e l’ente, deve essere esclusa sostanzialmente la possibilità giuridica per il prestatore di beni e servizi o per l’esecutore di lavori di somma urgenza di esperire nei confronti del Comune azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.. per mancanza di residualità e sussidiarietà dell’azione, ben potendo il creditore aggredire direttamente il patrimonio del funzionario o amministratore che ha ordinato la spesa.

Così integrata e corretta la motivazione, la sentenza impugnata non può che essere confermata nel suo dispositivo con rigetto del ricorso e condanna alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente che si liquidano in Euro 5.600,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater ricorrono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima della Corte di Cassazione, il 3 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2020

 

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