Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19957 del 21/09/2010

Cassazione civile sez. trib., 21/09/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 21/09/2010), n.19957

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – rel. Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12738/2006 proposto da:

M.D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI MONTI

PARIOLI 48, presso lo studio dell’avvocato MARINI GIUSEPPE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato TOSI LORIS, giusta

delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 5/2005 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA,

depositata il 08/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. CARLO PARMEGGIANI;

udito per il ricorrente l’Avvocato MARINI RENATO per delega Avv.

MARINI GIUSEPPE, che si riporta al ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per l’accoglimento del 1^ e 2^

motivo.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato in data 7-12-2001 l’Agenzia delle Entrate di San Donà di Piave, avuto esito negativo il contraddittorio instaurato con il contribuente, notificava a M.D., ingegnere, avviso di accertamento con il quale determinava maggiori compensi per attività professionale svolta nel 1996, a fini IRPEF e SSNN, sulla base dei parametri di cui ai D.P.C.M. del 29 gennaio 1996, e successive modificazioni. 11 contribuente impugnava l’avviso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Venezia, sostenendo che esercitava in via principale attività di lavoro dipendente come insegnante, per cui la attività libero – professionale aveva rilievo marginale, con conseguente inapplicabilità dei parametri e comunque infondatezza dell’accertamento nel merito.

La Commissione accoglieva il ricorso.

Appellava la Agenzia e la Commissione Tributaria Regionale del Veneto, con sentenza n. 5/14/05, in data 24-2-2005, depositata l’8-3-2005, accoglieva il gravame, confermando l’operato dell’Ufficio.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, con cinque motivi.

La Agenzia resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Premesso che il metodo di accertamento del reddito tramite parametri si applica esclusivamente alla attività di impresa e professionale, e non alla attività di lavoro dipendente, e che esso contribuente esercitava sia la attività di insegnante (lavoro dipendente) che la professione di ingegnare, sostiene che la Commissione, asserendo che “il tempo dedicato dal contribuente al lavoro autonomo – invero sconosciuto – non incide direttamente nella determinazione dei ricavi, nè il contemporaneo esercizio di due attività può costituire da solo motivo sufficiente per disattendere le conclusioni della Amministrazione finanziaria” aveva espresso una motivazione insufficiente e contraddittoria.

Osserva infatti che colui che esercita una doppia attività è impossibilitato a dedicare alla attività professionale un tempo equivalente a quello di chi la esercita in via esclusiva; per cui il dato tratto dai parametri è in ogni caso inattendibile, è la Commissione avrebbe dovuto tenere conto del rilievo negativo inevitabile conseguente al contemporaneo esercizio di attività dipendente.

Con il secondo motivo, deduce violazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 181, 184 e 186, e dei D.P.C.M. in data 29-1-1996 e 27-3-1997, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene che nella legge istitutiva il Ministero della Finanze era stato delegato ad elaborare parametri che consentissero di determinare presuntivamente ricavi e compensi “fondatamente attribuibili ai contribuenti in base alle caratteristiche ed alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta” e che tale disposizione deve essere letta nel senso che in sede di applicazione dei parametri deve tenersi conto del tempo impiegato in una contemporanea attività di lavoro dipendente, come prescritto da circolare della Amministrazione finanziaria nel 2001.

Ne consegue, ad avviso del ricorrente che la Commissione, negando valore a tale ultimo dato, è incorsa in violazione di legge.

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione della L. n. 400 del 1988, art. 17, commi 2 e 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto i D.P.C.M. del 1996 e del 1997 devono intendersi come regolamenti di attuazione della legge, quindi fonte di normazione secondaria di competenza ministeriale, in forza della classificazione operata dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 10124 del 1994, e pertanto ai sensi della L. n. 400 del 1988, art. 17, devono essere emessi previo parere del Consiglio di Stato.

Poichè tale parere non era stato nè richiesto nè dato, i decreti istitutivi dei parametri sono illegittimi e devono essere disapplicati dal Giudice Tributario ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7.

Con il quarto motivo di ricorso, deduce contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Commissione aveva implicitamente rigettato la eccezione di illegittimità dei decreti istitutivi dei parametri, ritenendoli applicabili, senza motivare in ordine alla illegittimità dei medesimi ai sensi di quanto esposto nel motivo precedente.

Con il quinto motivo, deduce difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Commissione aveva ritenuto legittimo l’utilizzo dei parametri senza considerare che questi sono in ogni caso inattendibili perchè fondati su medie ottenute con metodo statistico, ed inoltre che occorre fare riferimento in sede di accertamento, non solo ai parametri ma anche alla situazione concreta del contribuente.

L’Ufficio in controricorso sostiene la infondatezza delle argomentazioni esposte dal ricorrente.

Occorre per motivi di priorità logica prendere in considerazione il terzo motivo, che attiene alla legittimità dei parametri della cui applicazione si tratta in causa, per vizi attinenti il procedimento di formazione degli stessi.

Il motivo è infondato.

In primo luogo, i decreti istitutivi dei parametri non hanno natura regolamentare nel senso di disporre in via normativa precetti che disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici in modo innovativo rispetto all’ordinamento giuridico preesistente, diretti ad un numero indeterminato di soggetti, in quanto si limitano a tradurre in termini tecnici e statistici le direttive già in sè esaustive di cui alla legge istitutiva di cui alla L. n. 549 del 1995, art. 3, commi n. 181 e segg., e segnatamente il comma 184, (la cui sufficienza come fonte regolatrice del nuovo strumento di accertamento fiscale è stata espressamente riconosciuta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 105 del 2003); ed inoltre sono diretti non alla generalità dei cittadini ma agli Uffici del Ministero delle Finanze, quali strumenti della attività di accertamento; per cui devono ritenersi come rientranti nel novero degli “atti amministrativi generali” diretti alla cura concreta di interessi pubblici diretti ad una ben precisa categoria di soggetti – nella specie gli Uffici finanziari – (ai sensi di Cass., Sez. Un. n. 10124 del 1994) e pertanto sfuggono alla procedura di cui la L. n. 400 del 1988, art. 17.

La infondatezza dell’assunto del contribuente emerge tuttavia anche a prescindere da considerazioni di carattere sostanziale sulla base della esegesi della legge istitutiva.

Invero, la L. n. 549 del 2005, citata, al comma 186, prevede espressamente che “i parametri di cui al comma 184, sono approvati con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro delle Finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale entro 30 gg dalla data di entrata in vigore della presente legge”.

E’ immediata la osservazione che il tipo di decreto prescelto dal legislatore non rientra in alcuna della tipologie prese in esame dalla citata L. n. 400 del 1988, art. 17, ovvero i regolamenti emessi nella forma di Decreto del Presidente della Repubblica o decreto ministeriale.

Ne consegue che la L. n. 549 del 2005, ha previsto, al fine di determinare i parametri, un particolare tipo di decreto (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) che non richiede per conseguire efficacia altra formalità che la previa proposta del Ministro della Finanze come si evince dal citato comma 184, che ne ha delineato in modo esaustivo l’iter procedimentale.

Poichè quindi la L. n. 549 del 1995, ha lo stesso valore, sul piano delle fonti del diritto della L. n. 400 del 1988, deve concludersi che come legge posteriore ha in ogni caso valore derogatorio della precedente, con la conseguenza della irrilevanza del mancato compimento delle formalità di cui alla L. del 1988, art. 17, (tra cui il previo parere del Consiglio di Stato) che rimane estraneo ed inapplicabile alla fattispecie considerata. Dette considerazioni conducono anche alla reiezione del quarto motivo, fondato sul mancato rilievo da parte della Commissione Regionale della causa di illegittimità dei decreti testè riconosciuta come inesistente. In ordine ai motivi n. 1, 2, 5, fondati sotto diversi profili sulla illegittimità dei D.P.C.M., oltre che su carenze motivazionali, occorre esporre in via preliminare alcune considerazioni in diritto.

Secondo un orientamento consolidato nel passato, (v, Cass. n. 26458 del 2008, n. 3288 del 2009) l’Ufficio che procedeva ad accertamento della imposta con metodo induttivo, avvalendosi dei parametri previsti dalla L. n. 549 del 1995, art. 3. commi 181 e segg., non doveva apportare alcun elemento ulteriore all’accertamento, in quanto gli elementi considerati nella elaborazione dei parametri stessi e l’applicazione di questi ai dati esposti dal singolo contribuente avevano già i caratteri della presunzione legale, quali richiesti dall’art. 2728 c.c., comma 1, ed erano di per sè idonei a fondare un corrispondente accertamento, restando comunque consentito al contribuente di provare anche con presunzioni, la cui valutazione era rimessa al prudente apprezzamento del giudice, la inapplicabilità dei parametri alla sua posizione reddituale. Recentemente, la Corte a Sezioni Unite (Cass. n. 26635 del 2009) ha attenuato ma non escluso tale interpretazione del sistema, richiedendo a pena di nullità dell’accertamento il previo contraddittorio con il contribuente e la valutazione degli elementi forniti in tale sede da medesimo, con obbligo da parte della Amministrazione, di motivazione dell’eventuale dissenso.

I parametri, in tale ottica, mantengono il loro valore presuntivo, con carattere di presunzione semplice, che deve essere valutata dal giudice in sede contenziosa in concorso con gli altri elementi di prova acquisiti in atti, secondo una valutazione critica non censurabile in sede di legittimità ove logicamente corretta.

Nondimeno, ove il contribuente non ottemperi all’invito della Amministrazione, l’accertamento basato esclusivamente sui parametri è ammissibile, ed anzi il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito.

Poichè è incontroverso che nella fattispecie tale contraddittorio fu offerto, ma rifiutato dal contribuente, la questione della asserita mancata valutazione nei parametri della riduzione del tempo disponibile per l’esercizio della professione in dipendenza di una altra contemporanea e diversa attività è irrilevante ai fini della validità dell’accertamento e la Commissione non ha in alcun modo violato ìa legge istitutiva dei parametri ritenendone la applicabilità nei termini in cui sono stati formati.

Risultano inoltre inammissibili le censure svolte nel quinto motivo in ordine alle scelte del legislatore e della Autorità Amministrativa sulla formazione dei parametri, non sindacabili in questa sede (peraltro carenti di autosufficienza in ordine alla supposte lacune dello strumento parametrico sulla valutazione dei tempi disponibili per l’esercizio della attività professionale).

Per le considerazioni che precedono i motivi nn. 2 e 5, devono essere rigettati.

Anche il primo motivo è infondato.

Rettamente la Commissione ha osservato che il tempo dedicato dal contribuente al lavoro autonomo non incide direttamente sulla determinazione dei ricavi, nè il contemporaneo esercizio di due attività può costituire da solo motivo sufficiente per disattendere la conclusioni della Amministrazione Finanziaria.

Ciò che rileva, infatti, è la prova, a carico del contribuente in forza della inversione di legge del relativo onere, che il tempo impiegato nello svolgimento della attività di lavoro dipendente incida sulla redditività della attività autonoma, non in astratto come intende il ricorrente, ma in concreto, con esposizioni di orari, tempi di esecuzione di ogni singola prestazione, impegno temporale complessivo della occupazione alternativa, impegni professionali rifiutati od impossibili per carenza di tempo disponibile.

In sostanza, la prova di una concreta diminuzione di capacità reddituale della libera professione in forza della duplice attività non è a carico della Amministrazione Finanziaria, ma del contribuente, il quale può adempiere all’onere anche con presunzioni, allegando tuttavia i dati necessari a sostegno dell’assunto.

Tale onere a giudizio della commissione non è stato assolto dal contribuente, il quale ha perfino omesso di esporre il tempo in concreto dedicato alla attività autonoma.

La motivazione è quindi completa, logicamente corretta e pertanto non censurabile in questa sede di legittimità.

Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Le spese di questa fase di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese a favore della Agenzia delle Entrate, che liquida in complessivi Euro 2.200. di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2010

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