Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19954 del 13/07/2021

Cassazione civile sez. I, 13/07/2021, (ud. 19/05/2021, dep. 13/07/2021), n.19954

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 271/2017 proposto da:

055 Communication S.r.l., in Liquidazione, in persona del liquidatore

pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via D. Chelini n. 5,

presso lo studio dell’avvocato Nucci Francesco, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati Bisegna Antonio, Gaeta Alessandro,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Senza Filtro S.n.c., in persona dei legali rappresentanti pro

tempore, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria

Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa

dall’avvocato Cavallini Matteo, Andreoni Niccolò, giusta procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 959/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 17/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/05/2021 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 17 giugno 2016, la Corte d’appello di Firenze ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale della stessa città, la quale aveva, a sua volta, disatteso le domande proposte dall’agenzia pubblicitaria 055 Communication s.r.l. contro la Senza Filtro s.n.c., volte alla condanna alla cessazione dell’attività di concorrenza sleale, consistente nell’avere pubblicato, sul proprio sito internet aziendale, i nomi di numerosi clienti che erano, invece, dell’attrice, oltre al risarcimento del danno.

La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha escluso che nella condotta della Senza Filtro s.n.c. sia ravvisabile una concorrenza sleale c.d. appropriativa o per sottrazione, ai sensi dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, dato che i nomi dei clienti, per i quali aveva avuto rapporti contrattuali l’odierna ricorrente con la sua agenzia pubblicitaria, non configurano un “pregio” della medesima, ma meri elementi storici del livello imprenditoriale raggiunto, onde controparte ha, semmai, posto in essere una mera vanteria o pubblicità menzognera a danno del mercato – come “ottenibile con molti altri argomenti magari vantandosi di avere strutture inesistenti, sedi prestigiose, tecnologie mirabolanti” – e non del singolo concorrente, ove non accompagnata da una specifica denigrazione di questi.

Ha aggiunto che, del resto, la condotta di Senza Filtri s.n.c. “trova ampie giustificazioni ulteriori”, atteso che in origine l’attrice aveva operato come Muma s.n.c. di M.C. e F.L.; tale società era stata trasformata nella 055 Communication s.r.l., dopo l’uscita del F. dalla prima, con la quale egli aveva concordato il diritto di inserire nelle proprie referenze i nomi dei clienti in passato seguiti; ne ha concluso che vi fosse la buona fede della Senza Filtri s.n.c. nell’indicazione nel sito di quei clienti, posto che l’instaurazione del rapporto di collaborazione con il F. rendeva veritiera e legittima l’indicazione stessa; che comunque, ricevuta la diffida stragiudiziale, la società aveva “drasticamente depurato” detto elenco.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dalla soccombente, sulla base di cinque motivi.

Resiste l’intimata con controricorso.

Le parti hanno depositando, altresì, le memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi del ricorso vanno come di seguito riassunti:

1) violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, in quanto integra la fattispecie di cui alla norma la condotta di un imprenditore, il quale indichi, contrariamente al vero, come propri, sul sito internet aziendale, i clienti che sono di un altro imprenditore, trattandosi di un atto di concorrenza sleale contrario alla correttezza professionale, atteso che un agente pubblicitario viene qualificato proprio dall’attività svolta per i suoi clienti, quale tipico avviamento e come garanzia del livello qualitativo della sua impresa;

2) violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 3, alla luce del D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 145 e del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, codice del consumo, oltre che delle norme del codice di autodisciplina pubblicitaria, integrando detto comportamento anche la violazione dei principi della correttezza professionale, in quanto indice dell’approfittamento del lavoro altrui e ledendo la pubblicità menzognera non solo il mercato, ma anche l’impresa in concorrenza;

3) violazione o falsa applicazione degli artt. 2267 e 2291 c.c., in quanto non rileva l’argomento, pure speso dalla corte del merito, secondo cui il F. era stato socio della Muma s.n.c., unica titolare del diritto alla diffusione di quell’elenco di clientela, attesa l’alterità soggettiva tra il socio e la società, ancorché di persone; inoltre, la Senza Filtro s.n.c. non poteva ignorare che essa non aveva mai intrattenuto rapporti d’affari con i clienti della lista utilizzata a propria pubblicità imprenditoriale;

4) violazione o falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 2, in quanto, se il F. aveva diritto di utilizzare quella lista clienti, non così la Senza Filtro s.n.c., posto che all’accordo tra i due restava estranea la terza Muma s.n.c., cui il contratto, privo di data certa, non è comunque opponibile;

5) violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 3 e art. 2600 c.c., in quanto, in tema di concorrenza sleale, la colpa si presume e rileva solo ai fini della condanna risarcitoria, onde la corte del merito ha menzionato un elemento soggettivo irrilevante, dovendosi solo indagare se l’atto fosse idoneo a danneggiare l’altrui azienda, ai fini delle altre domande proposte.

2. – In punto di fatto, sostanziale e processuale, dall’esame della sentenza impugnata e degli atti di parte in sede di legittimità emerge che:

– la Muma s.n.c. di M.C. e F.L. svolse campagne pubblicitarie per vari clienti; F.L. il 13 febbraio 2007 cedette la sua quota sociale all’altro socio, il quale, nella veste di amministratore e socio superstite, lo autorizzò, con lo stesso contratto, a svolgere la medesima attività di agenzia pubblicitaria, in deroga agli artt. 2031 e 2557 c.c. (cfr. controricorso, p. 2); la società si trasformò nella 055 Communication s.r.l.; il F., divenuto libero prestatore d’opera, concluse un contratto di collaborazione con la Senza Filtro s.n.c., consentendo ad essa la pubblicazione del famoso elenco di clienti nel sito informatico;

– la ricorrente non riproduce le domande esatte proposte in primo grado, ma la corte del merito le indica come volte: a) alla inibitoria della condotta lamentata e b) al risarcimento del danno, onde tali debbono ritenersi quelle oggetto del giudizio;

– la corte del merito ha negato l’integrazione sia della condotta di concorrenza sleale, sia dell’elemento soggettivo della fattispecie;

– la corte ha accertato, nell’ambito del giudizio di colpevolezza, come, ricevuta la diffida stragiudiziale, l’odierna controricorrente abbia “drasticamente depurato” l’elenco della clientela, senza tuttavia affermare che i nominativi de quibus furono eliminati del tutto, né tale affermazione è svolta nel controricorso dalla Senza Filtro s.n.c., confermandosi così l’esigenza di una interpretazione restrittiva di tale generica espressione della sentenza impugnata.

3. – Ciò posto, il Collegio reputa opportuna la trattazione congiunta dei motivi, i quali, pur invocando differenti fattispecie normative, mirano tuttavia concordemente all’affermazione del principio di diritto, secondo cui integra la fattispecie di cui all’art. 2598 c.c. – riguardato ora sotto il profilo della “appropriazione di pregi” ai sensi del n. 2, ora del comportamento in generale non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda, ai sensi del n. 3 della predetta disposizione – la condotta di un imprenditore il quale indichi sul sito internet aziendale come propri, contrariamente al vero, i clienti che siano invece di un altro imprenditore.

Il ricorso è parzialmente fondato, nei limiti di seguito esposti.

4. – La condotta tipica di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui, ai sensi dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, ricorre – secondo principio già enunciato da questa Corte – quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori (Cass. 7 gennaio 2016, n. 100; Cass. 10 novembre 1994, n. 9387; Cass. 21 novembre 1983, n. 6928; v. pure Cass. 12 ottobre 2018, n. 25607). Da tempo, si è quindi precisato (Cass. 1 marzo 1986, n. 1310) che gli atti di appropriazione di pregi si distinguono dagli atti di confusione, in quanto l’illecito sviamento della clientela da essi causato si realizza non a seguito della confusione di identità tra prodotti od attività di imprese distinte, bensì esclusivamente ingenerando nel pubblico la convinzione che un prodotto od un’impresa abbiano le stesse qualità e pregi di quella concorrente.

Il divieto di appropriazione di pregi posto dall’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, intende impedire non propriamente l’inganno del consumatore in ordine alla qualità del prodotto o di un’impresa, ma, ancor prima, la decettività del riferimento, il quale suggestivamente mutui, da un’esperienza che il consumatore ha fatto con riguardo ad altro prodotto od altra impresa, un risultato positivo, che, invece, il consumatore deve ancora sperimentare per il nuovo prodotto o impresa.

L’imprenditore concorrente “si appropria di pregi” di un’altra impresa, secondo la fattispecie dell’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, in quanto operi, dunque, in una comunicazione destinata a terzi, una c.d. autoattribuzione di qualità, peculiarità o caratteristiche riconosciute all’altrui impresa. In tal modo, invero, egli riferisce a sé, mediante il mezzo pubblicitario, caratteri di prodotti, di servizi o dell’impresa altrui, ma come se si trattasse di prodotti, servizi o caratteri già facenti parte della propria attività d’impresa, così appropriandosi dell’attività di un terzo e cagionando nella potenziale clientela un indebito accreditamento, rispetto ad attività, servizi o prodotti non corrispondenti all’effettiva attività realizzativa svolta fino a quel momento.

5. – In tale nozione certamente rientra la vicenda all’esame.

Pacifico che il “diritto vivente”, compendiato nella massima su riportata, ha inteso in tal modo operare riferimento a ogni indebita appropriazione di qualità altrui, non limitato dunque all’enumerazione meramente esemplificativa ivi operata, occorre osservare ora come l’avere un imprenditore vantato un carnet di clienti con i quali non abbia in passato intrattenuto rapporti professionali, invece in essere con un diverso imprenditore, lasciando però intendere di avere – in particolare, atteso l’oggetto sociale del medesimo – curato per essi le campagne pubblicitarie de quibus, integri la fattispecie della norma predetta, sotto il profilo dell’appropriazione di qualità altrui.

Infatti, come esposto, la condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, consiste anche nell’operare vanto a proprio favore con riguardo a caratteristiche dell’impresa, mutuate, però, da quelle di un altro imprenditore, e ciò tutte le volte in cui, secondo la ratio della disposizione, detto vanto abbia l’attitudine di fare indebitamente acquisire meriti non posseduti, realizzando così una concorrenza sleale per appropriazione di pregi (il c.d. agganciamento), che è atto illecito di mero pericolo, ai sensi della norma predetta.

La nozione ivi recepita, in definitiva, è ampia: vi è appropriazione dei pregi di un concorrente quando, in forme pubblicitarie o equivalenti, un imprenditore attribuisca ai propri prodotti o alla propria impresa qualsiasi caratteristica dell’impresa o dei prodotti concorrenti che sia considerata dal mercato come qualità positiva e diventi, quindi, motivo di preferenza e di turbamento della libera scelta del cliente.

Ed invero, nel fatto stesso di pubblicizzare, su internet o su altro mezzo di comunicazione, come propri dati clienti reputati di prestigio o, comunque, significativi della qualità del servizio reso (“pregi”), ma in realtà riferibili ad un concorrente, vantando in tal modo una “storia imprenditoriale” che presuppone, contrariamente al vero, un’attività esercitata senza soluzione di continuità con quella di altra impresa concorrente, risiede il compimento di atti di concorrenza sleale per appropriazione di pregi ex art. 2598 c.c., n. 2.

Ne’ rileva se, nello specifico caso all’esame, la persona fisica, la cui prestazione d’opera aveva in concreto contribuito alla realizzazione delle passate campagne pubblicitarie per un dato numero di clienti, avrebbe per il futuro esplicato tali attività nell’ambito dell’organizzazione imprenditoriale del nuovo soggetto, imputato dell’atto di concorrenza sleale: invero, appunto, ciò sarebbe avvenuto per il futuro, onde l’informazione decettiva ed appropriativa permane.

Altro sarebbe stato, invece, se la nuova società, con la quale detta persona fisica aveva iniziato a collaborare, avesse espressamente chiarito che si trattava di una collaborazione con il soggetto in passato autore di quelle campagne pubblicitarie: perché, allora sì, essa sarebbe rimasta nell’ambito del legittimo esercizio di un proprio diritto, idoneo com’e’ noto, a norma dell’art. 2043 c.c. (non iure), ad escludere l’integrazione della fattispecie della responsabilità aquiliana. Dunque, perché si ravvisi un’attività non integrante un atto di concorrenza sleale per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c., n. 2, dovrebbe trattarsi al più dell’attribuzione generica ai propri prodotti di pregi insussistenti, in quanto ciò potrebbe, solo allora, risolversi in vantaggi per l’operatore scorretto, senza diretto pregiudizio per la concorrenza.

6. – La ricorrente non ha impugnato, specificamente ed ammissibilmente, il capo della sentenza, con il quale è stata affermata l’assenza di colpa in capo alla Senza Filtro s.n.c..

Si tratta di un accertamento di fatto, con il quale – nell’ambito del potere discrezionale ad esso esclusivamente riservato – il giudice del merito ha ritenuto raggiunta la prova della mancanza di colpa nella condotta della Senza Filtro s.n.c. e ciò sulla base di un duplice argomento: da un lato, il rapporto di collaborazione intrapreso con il F., una volta uscito questi dalla compagine societaria della odierna ricorrente, donde l’impressione di avere diritto a quella pubblicità sul sito internet aziendale; dall’altro lato, la pronta riduzione della lista dei clienti, non appena ricevuta la diffida stragiudiziale.

Ne deriva che la domanda risarcitoria ex art. 2600 c.c., è stata, in tal modo, definitivamente respinta, senza che sia possibile al giudice del rinvio su di essa nuovamente pronunciare, in ragione del giudicato interno.

7. – In conclusione, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, perché, dopo nuova valutazione del materiale istruttorio, provveda sulla domanda di inibitoria proposta ed alle altre domande, diverse da quella di risarcimento del danno, tenuto conto del seguente principio di diritto:

“La condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’art. 2598 c.c., comma 1, n. 2, è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l’attitudine di fare indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per c.d. agganciamento, quale atto illecito di mero pericolo: tale situazione si verifica allorché un’agenzia pubblicitaria, con la quale pur abbia iniziato a collaborare un soggetto che aveva realizzato campagne pubblicitarie per un’altra impresa, vanti sul proprio sito internet il carnet di clienti di quest’ultima, lasciando intendere di avere curato essa stessa le precedenti campagne pubblicitarie”.

Ad essa si demanda pure la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2021

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