Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19953 del 23/09/2020

Cassazione civile sez. un., 23/09/2020, (ud. 21/07/2020, dep. 23/09/2020), n.19953

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Cristiana – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12494-2019 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

20, presso lo studio dell’avvocato CESARE PERSICHELLI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati SERGIO LAZZARINI, e

MARIALUANA ERCOLANI;

– ricorrente –

contro

AUTORITA’ DI BACINO LAGHI GARDA E IDRO, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

APPIA NUOVA 96, presso lo studio dell’avvocato PAOLO ROLFO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO BALLERINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 24/2019 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE

PUBBLICHE, depositata l’11/01/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Il sig. F.A., titolare di un esercizio alberghiero in (OMISSIS), ha proposto ricorso, sulla scorta di un unico motivo, per la cassazione della sentenza del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche che, confermando la pronuncia di primo grado del Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche presso la Corte di appello di Milano, lo ha condannato a pagare all’Autorità di Bacino Laghi Garda e Idro un indennizzo per l’occupazione di un’area prossima al lago di Garda, da lui posta in essere, negli anni dal (OMISSIS), con opere funzionali al suddetto esercizio alberghiero.

2. Il Tribunale Superiore delle Acqua Pubbliche ha ritenuto dovuto l’indennizzo dall’Autorità di Bacino sul presupposto della natura demaniale dell’area in questione, per essere la stessa qualificabile come alveo del lago di Garda, in quanto situata a quota compresa tra m. 65,23 s.l.m. e m. 65,43 s.l.m., inferiore alla quota (m. 65,59 s.l.m.) individuata come limite dell’alveo lacuale dallo stesso Tribunale Superiore, in conformità alla sentenza di primo grado; quest’ultima, a propria volta, aveva recepito l’indicazione della quota limite dell’alveo contenuta nel D.M. lavori pubblici n. 1170 del 1948.

3. La controversia si incentra, appunto, sulla determinazione della quota limite dell’alveo del lago di Garda, da individuare nella quota corrispondente al livello altimetrico delle piene ordinarie allo sbocco del lago, in conformità al disposto dell’art. 943 c.c., comma 1 ove si fa riferimento al “terreno che l’acqua copre quando essa è all’altezza dello sbocco del lago… “.

4. Il sig. F., appellando la sentenza di primo grado, aveva chiesto la disapplicazione del suddetto D.M., sostenendo che la quota limite dell’alveo del lago di Garda non sarebbe quella di m. 65,59 s.l.m., bensì quella di m. 65,05 s.l.m., accertata in taluni precedenti del Tribunale Superiore delle Acqua Pubbliche, confermati in sede di legittimità dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

5. Con la sentenza qui impugnata il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha preliminarmente richiamato due pronunce di queste Sezioni Unite: la sentenza 22 giugno 2017 n. 15487 – là dove afferma (pag. 4, penultimo capoverso) che il D.M. n. 1170 del 1948 “in luogo di contravvenire alla norma del codice civile… l’ha applicata, integrando, in virtù di dati tecnici, la nozione di piena ordinaria” – e la sentenza 8 novembre 2016 n. 22647, resa nei confronti dello stesso sig. F., che ha rigettato il ricorso da costui proposto avverso la sentenza del Tribunale Superiore delle Acqua Pubbliche n. 108/14 che anch’essa, a propria volta, aveva individuato la quota limite dell’alveo del lago di Garda in quella di m. 65,59 s.l.m.. Sulla scorta di tali precedenti il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha disatteso l’istanza dell’appellante di disapplicazione del D.M. n. 1170 del 1948 ed ha rigettato l’appello sottolineando come il sig. F. si fosse limitato a “reiterare le mere indimostrate asserzioni di segno contrario già formulate nel giudizio di primo grado, secondo cui non sarebbe mai esistito un alveo con quota originaria di m. 65,59 su livello del mare”.

6. Con l’unico motivo di ricorso il sig. F. lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 943 c.c. e dei principi generali in materia di delimitazione del demanio idrico statale”.

7. L’Autorità di Bacino Laghi Garda e Idro ha presentato controricorso.

8. La causa è stata chiamata all’adunanza di camera di consiglio del 17 marzo 2020, in prossimità della quale il ricorrente ha depositato una memoria. In seguito al differimento di ufficio disposto ai sensi del D.L. 8 marzo 2020, n. 11, art. 1, comma 1, (Misure straordinarie ed urgenti per contrastate l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria), la causa è stata nuovamente chiamata all’adunanza di camera di consiglio del 21 luglio 2020, in cui è stata decisa.

9. Nell’unico mezzo di impugnazione il ricorrente preliminarmente richiama le pronunce di queste Sezioni Unite 6 giugno 1994 n. 5491 e 19 dicembre 1994 n. 10908 con cui fu rigettata l’impugnativa erariale avverso pronunce del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche che avevano stabilito il limite di quota dell’alveo naturale del lago di Garda a m. 65,05 s.l.m.. Nel successivo sviluppo dell’argomentazione il sig. F. lamenta che la sentenza qui impugnata avrebbe violato il disposto dell’art. 943 c.c. recependo automaticamente le conclusioni della sentenza di queste Sezioni Unite n. 15487/17, sopra citata, la quale – pur confermando il principio di diritto, enunciato nei precedenti del 1994, che l’estensione dell’alveo deve essere determinata con riferimento alle piene ordinarie allo sbocco del lago – avrebbe tuttavia, a suo dire, travisato le conclusioni a cui detti precedenti erano pervenuti.

10. In particolare il ricorrente sostiene che la ripetuta sentenza di queste Sezioni Unite n. 15487/17, alla quale il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche si è richiamato nel presente giudizio, avrebbe errato nel concludere che allo zero idrometrico, pari a m. 64,08 s.l.m., andasse aggiunto il valore medio raggiunto dalle acque, pari a m. 1,51, così pervenendosi alla quota di m. 65,59 s.l.m. fissata nel D.M. del 1948; tale conclusione, argomenta il sig. F., contrasta frontalmente con l’affermazione che si legge nella menzionata sentenza Cass. SSUU 10908/94, secondo cui al valore dello zero idrometrico di Desenzano va aggiunto “non già il valore medio di 1,51 m, bensì soltanto 0,97, il che dà appunto il valore finale di 65,05 metri s.l.m.”.

11. In sostanza, secondo il ricorrente, la corretta applicazione dell’art. 943 c.c. imporrebbe di individuare la quota limite dell’alveo lacuale aggiungendo allo zero idrometrico il valore di m. 0,97, così da pervenire, in disapplicazione del decreto ministeriale n. 1170 del 1948, alla quota finale di m. 65,05 s.l.m., inferiore a quella dell’area per cui è causa;

con la conseguenza che a tale area non potrebbe riconoscersi natura demaniale.

12. La doglianza non può trovare accoglimento.

12.1. In linea di diritto occorre prendere le mosse dall’affermazione, più volte ribadita da queste Sezioni Unite, che, in tema d’individuazione dei terreni ricompresi nel demanio per la loro contiguità a laghi pubblici, opera, secondo il criterio desumibile dall’art. 943 c.c., il principio per cui l’estensione dell’alveo – suscettibile della detta ricomprensione – deve essere determinata con riferimento al livello delle piene ordinarie allo sbocco del lago, senza che si possa tener conto del perturbamento determinato da cause eccezionali (meteoriche, geosismiche o prodotte dall’opera dell’uomo per esigenze momentanee); in questo senso, si vedano: Cass. SSUU 14 dicembre 1981, n. 6591; Cass. SSUU 6 giugno 1994, n. 5491; Cass. SSUU 19 dicembre 1994, n. 10908; Cass. SSUU 13 novembre 2012, n. 19703; Cass. SSUU 18 maggio 2015, n. 10089; Cass. SSUU 22 giugno 2017, n. 15487; Cass. SSUU 15 novembre 2018, n. 29393.

12.2. Sulla scorta del suddetto principio – del tutto consolidato e neppure messo in discussione nel ricorso qui in esame – la questione del limite dell’alveo lacuale si risolve in un accertamento di fatto avente ad oggetto la quota raggiunta dalle piene ordinarie allo sbocco del lago secondo “dati emergenti da rilevamenti costanti nel tempo, che siano idonei ad identificare la normale capacità del bacino idrografico, al di fuori di perturbamenti provocati da cause eccezionali” (così Cass. SSUU n. 6591/81, cit.); più precisamente, come chiarito in Cass. SSUU n. 15487/17, cit., deve considerarsi “come quota raggiunta dalla piena ordinaria il livello massimo attinto dalle acque in un numero di anni talmente prevalente rispetto a quelli del residuo periodo (all’uopo sufficientemente lungo) preso in considerazione, da rappresentare la norma”.

12.3. Nel presente giudizio il primo giudice ha ritenuto di identificare la suddetta quota in quella – indicata nel D.M. lavori pubblici n. 1170 del 1948 – di m. 65,59 s.l.m. e tale valutazione, confermata in appello dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, costituisce giudizio di fatto, non censurabile in sede di legittimità se non con il mezzo, e nei limiti, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Il ricorrente non censura adeguatamente detto giudizio di fatto, in quanto non lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo da lui dedotto in sede di merito, ma invocando l’autorità di precedenti di queste Sezioni Unite emessi in contesti processuali radicalmente diversi dal presente giudizio – ascrive alla sentenza qui impugnata la violazione dell’art. 934 c.c. sol perchè essa è pervenuta ad un accertamento di fatto difforme da quello cui erano pervenute talune sentenze di merito a suo tempo confermate in sede di legittimità.

12.4. Nel ricorso qui in esame, infatti, il sig. F. enfatizza qualificandola come enunciazione di una regula juris la cui mancata osservanza determinerebbe una violazione dell’art. 934 c.c. l’affermazione della più volte citata sentenza Cass. SSUU 10908/94 secondo cui la quota corretta del limite dell’alveo lacuale sarebbe a m. 65,05 s.l.m.. Tale affermazione, tuttavia, non rappresenta l’enunciazione di una regola di diritto, bensì l’esposizione delle conclusioni cui era arrivato il consulente tecnico nominato nella fase di merito del giudizio definito dalla Cassazione con detta sentenza n. 10908/94; conclusioni che vennero fatto proprie dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e che si poggiavano su un’argomentazione che le Sezioni Unite ritennero immune dal vizio, denunciato con il ricorso per cassazione della difesa erariale, di omessa distinzione tra piene ordinarie e piene straordinarie.

12.5. Va allora evidenziato che – come queste stesse Sezioni Unite hanno avuto modo di sottolineare nella sentenza 15 novembre 2018 n. 29393 (p. 3, pag. 10) – la sentenza Cass. SSUU 10908/94 e le altre analoghe sentenze con le quali questa Corte ha confermato le decisioni del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche che ponevano a m. 65,05 s.l.m. la quota del limite dell’alveo del lago di Garda (Cass. SSUU n. 6591/81, Cass. SSUU n. 5491/94) sono state emesse in sede di impugnazione di sentenze di merito che avevano disapplicato il decreto ministeriale n. 1170 del 1948 sulla base di consulenze tecniche d’ufficio che – in applicazione del principio, desumibile dall’art. 943 c.c., secondo cui l’alveo si estende al terreno coperto dalle acque nelle piene ordinarie – avevano fornito concreti elementi per la diversa determinazione dell’altezza idrometrica delimitante l’alveo naturale del lago. Nel presente giudizio, per contro, il giudizio di fatto operato dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche è nel senso che la quota del limite dell’alveo lacuale va identificato in quella, indicata dal suddetto decreto ministeriale, di m. 65,59 s.l.m. e tale giudizio di fatto non è stato validamente censurato con il mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

13. Il ricorso va quindi, in definitiva, rigettato.

14. Le spese seguono la soccombenza.

15. Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere all’Autorità controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.500, oltre Euro 200 per esborsi e oltre accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite delle Suprema Corte di cassazione, il 21 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2020

 

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