Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19932 del 05/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 05/10/2016, (ud. 05/07/2016, dep. 05/10/2016), n.19932

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26259-2013 proposto da:

A.T.M. – AZIENDA TRASPORTI MILANESE S.P.A., P.I. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZA GIUSEPPE MAZZINI 27, presso lo studio

dell’avvocato SALVATORE TRIFIR0′, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIACINTO FAVALLI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA CRESCENZIO 17/A, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO ARACHI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIANALBERICO DE VECCHI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1912/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/05/2013, R.G. N. 1748/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALI per delega verbae GIACINTO FAVALLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 1912/12, depositata il 13 maggio 2013, rigettava l’impugnazione proposta dalla Azienda Trasporti Milanesi ATM, nei confronti di F.L., avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Milano n. 1646/2010.

2. Il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso proposto dal F., assunto dalla ATM il (OMISSIS), con mansioni da ultimo, per ritenuta inidoneità, di ausiliario inquadrato nella IV area professionale, al quale dopo aver ricevuto una lettera di contestazione il 12 ottobre, era stata comunicata la sanzione della destituzione dal servizio, con effetto dal (OMISSIS).

Il Tribunale aveva dichiarato illegittimo il provvedimento di destituzione, condannando la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a risarcire a quest’ultimo il danno pari a 12 mensilità della retribuzione, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed al rimborso delle spese di lite.

3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre la ATM, prospettando tre motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso il lavoratore.

5. La ATM ha depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica, con la quale, in via preliminare, ha dedotto la inammissibilità del controricorso in quanto depositato tardivamente, e ha insistito nell’ accoglimento del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del controricorso. La stessa è fondata e deve essere accolta, in quanto l’originale del controricorso è stato depositato tardivamente.

Ed infatti, come si evince dalla nota in data 17 giugno 2016, a firma del difensore di F.L., di deposito dei seguenti atti: originale controricorso notificato in data 20 dicembre 2013 e ricevuto in data 30 dicembre 2013, con originale cartolina di ricevimento, sino a tal data il controricorso in originale non veniva depositato.

2. Può, dunque, passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

2.1. Occorre precisare che il provvedimento di destituzione era stato adottato a seguito di lettera di contestazione che riguardava l’essere stato trovato in servizio il F., il giorno (OMISSIS), in stato di alterazione etilica, e di avere abbandonato arbitrariamente il posto di lavoro.

2.2. Il Tribunale aveva ritenuto illegittima la sanzione in quanto quello giudicato come il più grave degli addebiti, ossia lo stato di etiliasi, non aveva trovato adeguata conferma testimoniale, a causa della contraddittorietà delle relative dichiarazioni, mentre era stato confermato l’altro addebito, e cioè quello di avere abbandonato il posto di lavoro, per il quale, tuttavia, la sanzione risultava sproporzionata.

2.3. La Corte d’Appello confermava la sentenza del Tribunale in quanto gli indubbi elementi di incertezza nella prova delle circostanze poste a base degli addebiti, in particolare con riguardo allo stato di ebbrezza del F. (che in passato aveva rappresentato un problema dal quale sembrava essere uscito), non consentivano di ritenere assolto l’onere probatorio circa l’esistenza di una causa proporzionata alla sanzione espulsiva adottata.

Ciò sia in relazione al fatto previsto dal citato R.D. n. 148 del 1931, art. 45, comma 2, n. 12, (che prevede la destituzione per chi durante il servizio, in funzioni attinenti la sicurezza dell’esercizio, è trovato in stato di ubriachezza, mentre l’appellato era addetto alla custodia), sia in relazione all’abbandono del posto di lavoro, intervenuto per un tempo limitato, sempre in presenza delle predette mansioni, che, anche nei casi più gravi, come già rilevato dal giudice di primo grado, è punito con sanzioni conservative (artt. 41 e 42 citato D.P.R.).

3. Con il primo motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Espone la ricorrente che, erroneamente, la sentenza di appello ha ritenuto che non sarebbe stata fornita la dimostrazione della sussistenza dei fatti oggetto della contestazione e della conseguente relativa sussunzione degli stessi in una delle fattispecie tipizzate di sanzione espulsiva.

Ed infatti, le prove offerte da essa ricorrente sarebbero state erroneamente valutate, atteso che i testi L. e C. confermavano le dichiarazioni rese nel corso del procedimento disciplinare svoltosi nel (OMISSIS), in particolare quanto all’allontanamento del F. dal luogo di lavoro, per essersi recato sulla porta del bar situato di fronte alla portineria, e sul fatto che il lavoratore emanava un forte odore di alcool.

La prova per testi era stata espletata nel 2010, a oltre 3 anni e mezzo dall’accadimento, con la conseguenza che i ricordi, in detta sede, potevano essere non più nitidi e chiari come nell’immediatezza dei fatti.

Inoltre la Corte d’Appello non aveva considerato il comportamento tenuto dal F. successivamente, atteso che lo stesso, in sede di giustificazione, aveva affermato di avere chiesto il permesso di andare al bar e non avendo ricevuto indicazioni in contrario vi si era recato per bere un caffè. Assume la ricorrente che nessuna persona sobria si azzarderebbe ad abbandonare il posto di lavoro per recarsi al bar esterno presenti due superiori che erano andati a redarguirlo. La certificazione medica prodotta dal F. riguardava solo gli anni (OMISSIS), ma non l’hanno (OMISSIS), e tale circostanza non era stata valutata.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931, art. 45 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Erroneamente, la Corte d’Appello ha ritenuto che non risultava provata l’esistenza di una causa proporzionata alla sanzione espulsiva adottata, sia in relazione al fatto previsto dal citato R.D. n. 148 del 1931, art. 13, comma 1, n. 12 (che prevede la destituzione per chi durante il servizio in funzioni attinenti la sicurezza dell’esercizio è trovato in stato di ubriachezza), atteso che il F. era addetto alla custodia, sia in relazione all’abbandono del posto di lavoro, in quanto avvenuto per un tempo limitato, sempre in presenza delle predette mansioni, che anche nei casi più gravi è punito con sanzione conservative (artt. 41 e 42 del citato R.D.).

In proposito, la ricorrente ha rilevato che, mentre la Corte d’Appello sembrava ipotizzare che le mansioni svolte dal lavoratore (di addetto alla custodia) non consentissero la riconducibilità dell’addebito alla sanzione espulsiva, il F. svolgeva mansioni attinenti alla sicurezza, e la sanzione espulsiva era prevista per coloro che, svolgendo tali compiti, vengono trovati in stato di ubriachezza.

3.1. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi, che pur rubricati come vizi di violazione di legge, attengono specificamente all’accertamento del fatto ed alla valutazione delle prove, di cui chiedono, nella sostanza, un nuovo vaglio, sono inammissibili in ragione della novella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che trova applicazione ratione temporis, nella fattispecie in esame.

Il testo vigente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito, da ultimo, dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, a mente della quale è motivo di ricorso per cassazione un “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, infatti, trova applicazione nella fattispecie in esame, secondo quanto previsto dall’art. 54, comma 3, cit. legge, perchè la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012.

Come affermato dalle Corte a Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 8053 del 2014), la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. n. 8053 del 2014).

La sentenza impugnata è ampiamente motivata, facendo specifico riferimento a tutte le prove testimoniali assunte e agli atti del giudizio.

La Corte d’Appello con congrua e logica motivazione ha affermato che non era stata provata la sussistenza dello stato di ubriachezza (rilevando, altresì che la relativa problematica, sussistente per il passato, sembrava superata) e, d’altro canto, la prospettazione difensiva fondata sulle dichiarazioni rese nel corso del procedimento disciplinart,da L. e C., riportate in ricorso, non censurano adeguatamente tale statuizione, atteso che gli stessi premettevano di non saper valutare se una persona era o meno in stato di ebbrezza.

Nè appare rilevante il richiamo alla mancata produzione di documentazione medica relativa al lavoratore per l’anno (OMISSIS), atteso che come si è detto la Corte d’Appello vagliava la circostanza che lo stato di ebbrezza in passato aveva rappresentato un problema.

La Corte d’Appello, inoltre, ha preso in esame il tempo dell’allontamento, ritenendo che lo stesso era intervenuto per un periodo limitato, circostanza non contraddetta dalle suddette dichiarazioni di L. e C., ed ha escluso che le funzioni di custodia potessero essere assimilate a quelle di sicurezza.

In proposito, va rilevato che la ricorrente indica in modo generico i compiti che avrebbe dovuto svolgere il F. (pag. 21 del ricorso: verifica stato dei materiali in entrata e uscita, controllo del personale interno ed esterno, vigilanza dei veicoli ed automezzi e del patrimonio aziendale, controllo in uscita e rientro del servizio di linea), e che, a proprio avviso, dovevano far ritenere che l’essere addetto alla custodia implicava lo svolgimento di funzioni attinenti alla sicurezza, ma non sostanzia tale affermazione con alcun riferimento alla fonte normativa e negoziale della qualifica professionale del F. e alle relative mansioni specificata mente previste.

Del tutto generico (non venendo riportata la contestazione), è poi il richiamo ad un precedente procedimento disciplinare che avrebbe subito il F..

4. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 nonchè del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, lett. b), e della L.R. Lombardia n. 1 del 2000, art. 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Deduce la ricorrente che nella fattispecie in esame (rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri) non poteva trovare applicazione la L. n. 300 del 1970, art. 18 con la reintegra nel posto di lavoro.

L’intervenuta abrogazione dei Consigli di disciplina disposta dal D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, lett. b), nonchè la previsione della L.R. n. 1 del 2000, art. 3, comma 126, (relativa alla soppressione delle funzioni amministrative svolte dalla Regione concernenti la nomina dei Consigli di disciplina) ha avuto come conseguenza la possibilità di applicare le norme processuali e procedurali di cui alla L. n. 300 del 1970, ma non quanto sancito dall’art. 18 dello stesso con riguardo alle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento.

4.1. Il motivo non è fondato, dovendosi ribadire il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte (cfr. Cass. n. 26115 del 2014, n. 17436 del 2015, n. 16582 del 2015, n. 11547de1 2012) secondo cui, in virtù della forza espansiva di cui sono dotate, le disposizioni contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 18 si applicano a tutte le ipotesi di invalidità del recesso del datore di lavoro, qualora non assoggettate ad una diversa e specifica disciplina e, quindi, anche al licenziamento degli autoferrotranvierì, non essendo a ciò di ostacolo la speciale disciplina della destituzione, di cui al R.D. n. 148 del 1931, art. 45. Nè argomenti in senso diverso possono trarsi dalla disciplina richiamata dal ricorrente.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, in ragione della limitata difesa svolta dal controricorrente che non ha partecipato all’udienza pubblica, ed il cui atto è inammissibile.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 1.500,00 (Euro millecinquecento) per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15%, e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2016

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