Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19931 del 23/09/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/09/2020, (ud. 13/12/2019, dep. 23/09/2020), n.19931

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16066/13 proposto da:

CTM REFRIGERAZIONE INDUSTRIALE S.R.L., in persona del legale

rappresentante p.t., rappresentata e difesa in forza di procura

speciale rilasciata a margine del ricorso dall’Avv. Sebastiano

Stufano e dell’Avv. Massimo Scardigli, elettivamente domiciliata

presso lo studio dell’Avv. Massimo Scardigli in Roma, Viale Angelico

n. 36/B.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici domicilia in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12.

– controricorrente e resistente all’incidentale –

e

T.G., rappresentato e difeso in forza di procura

speciale rilasciata a margine del ricorso dall’Avv. Sebastiano

Stufano e dell’Avv. Massimo Scardigli elettivamente domiciliato

presso lo studio dell’Avv. Massimo Scardigli in Roma, Viale Angelico

n. 36/B.

– ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 147/27/2012, della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata il 20 dicembre 2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13 dicembre 2019 dal Consigliere Dott. Grasso Gianluca.

 

Fatto

RITENUTO

che:

– con separati ricorsi la CTM Refrigerazione Industriale s.r.l. e T.G., socio della CTM per la quota del 51%, hanno impugnato gli avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate, a seguito di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza, ha contestato loro l’indeducibilità di costi registrati relativi a n. 8 fatture di acquisto emesse dalla ditta individuale CMI di F.F., in quanto riconducibili ad operazioni ritenute inesistenti per Euro 226.500,00, accertando, per il periodo di imposta 2004, a carico della società, una maggiore Iva, Irpeg e Irap mentre, a carico del socio, un maggior reddito non dichiarato di Euro 115.515,00 e per l’effetto, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 41-bis una maggiore Irpef per Euro 51.982,00; una maggiore addizionale regionale per Euro 1.617,00, una maggiore addizionale comunale per Euro 185,00, irrogando altresì sanzioni amministrative pecuniarie per complessivi Euro 53.857,00;

– la Commissione tributaria provinciale di Milano ha respinto entrambi i ricorsi;

– la Commissione tributaria regionale della Lombardia, previa riunione del procedimento proposto dalla società con quello instaurato dal T., ha respinto entrambi gli appelli, confermando le decisioni rese dai giudici di prime cure. Secondo l’apprezzamento compiuto, F.F., con cui la società contribuente avrebbe concluso le operazioni commerciali, non disponeva di una struttura idonea a giustificare le operazioni eseguite;

– la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi;

– T.G. ha a sua volta proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi;

– l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso avverso l’impugnazione della società mentre ha depositato un atto di costituzione, ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione, avverso il ricorso incidentale proposto dal T..

Diritto

CONSIDERATO

che:

– i primi cinque motivi del ricorso della CTM Refrigerazione Industriale s.r.l. e del T. sono coincidenti;

– con il primo motivo di entrambi i ricorsi si contesta un vizio di motivazione omessa o insufficiente circa un fatto controverso e

decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La contribuente deduce che la Commissione tributaria regionale non abbia offerto alcuna ragionata spiegazione dei motivi per i quali gli 4. elementi addotti dall’Ufficio dovrebbero considerarsi singolarmente e nel loro complesso rilevanti e/o attendibili e dunque idonei a fornire prova in via presuntiva dell’inesistenza delle operazioni contestate. A tal fine riproduce integralmente la documentazione da cui si desume che il F., pur dichiarato fallito, era autorizzato, giusto provvedimento del giudice fallimentare, a svolgere la propria attività. Si richiama inoltre la documentazione riguardante le fatture emesse dalla società nei confronti della committente e le ricevute per ciascuna commessa rilasciate dal F.. Parte ricorrente evidenzia, inoltre, che quella del F. era un’attività di prestatore d’opera che non necessitava di alcuna “struttura aziendale”, come rappresentato nell’atto di appello. La società rappresenta di essere un’azienda che effettua la progettazione, la costruzione, il montaggio, il collaudo e la messa in funzione di impianti “chiavi in mano” per la refrigerazione industriale e che nell’ambito delle commesse ricevute, oltre ad utilizzare proprio personale, si avvale di operatori esterni, cioè di tecnici specializzati che forniscono esclusivamente la propria opera, come il F., che avrebbe svolto la propria attività in proprio senza l’ausilio di ulteriore personale dipendente, come emergerebbe dalle stesse dichiarazioni rese dal F. alla Guardia di Finanza. Alcuna valutazione sarebbe stata inoltre fornita in merito al contenuto generico della parte descrittiva delle fatture;

– con il terzo motivo di entrambi i ricorsi si deduce un vizio di motivazione contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Secondo quanto prospettato, la motivazione della sentenza appare contraddittoria nella parte in cui richiama, tra gli elementi ritenuti rilevanti a fondare la prova in via presuntiva dell’inesistenza delle operazioni contestate, le dichiarazioni rese dai dipendenti delle ditte committenti e dai dipendenti di CTM nel corso del procedimento penale. Viene ripresa parte della motivazione evidenziando come dalle dichiarazioni riportate emergerebbe la prova non della inesistenza delle operazioni ma dell’esatto contrario, ovvero l’effettività e l’oggettività delle operazioni. E’ del tutto illogico richiamare la dichiarazione secondo cui il sig. F. non ha rispettato le norme di sicurezza, ovvero quella in cui è definito un tecnico tubista, così come quella in cui si afferma che era vincolato agli orari della CTM e infine quella secondo cui ha scaricato il materiale della CTM, circostanze che presuppongono il fatto che F. abbia effettivamente lavorato per conto di CTM per dedurre poi, da tali circostanze, argomenti indiziari a favore della presunzione di inesistenza delle stesse operazioni;

– il primo e il terzo motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono inammissibili;

– in tema di prova presuntiva, è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 18 marzo 2003, n. 3983; Cass. 9 febbraio 2004, n. 2431; Cass. 4 maggio 2005, n. 9225; Cass. 23 gennaio 2006, n. 1216; Cass. 11 ottobre 2006, n. 21745; Cass. 20 dicembre 2006, n. 27284; Cass. 8 marzo 2007, n. 5332; Cass. 7 luglio 2007, n. 15219; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1234);

– il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito a una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere a un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass. 7 gennaio 2014, n. 91; Cass. 28 marzo 2012, n. 5024);

– nel caso di specie, parte ricorrente prospetta una inammissibile rivalutazione dell’apprezzamento degli elementi indiziari compiuto in sede di merito, formulando dei rilievi critici in relazione a ciascuno dei fatti presi in considerazione da parte della Commissione tributaria regionale che, tuttavia, non ha basato il suo giudizio su elementi singolarmente intesi, ma ha effettuato una loro valutazione congiunta e integrata, da cui ha tratto la convinzione che le operazioni contestate fossero del tutto inesistenti. A fronte di tale giudizio complessivo è stata ritenuta inidonea a sovvertire il quadro probatorio la documentazione prodotta in giudizio, comprensiva delle dichiarazioni acquisite agli atti, da cui non è dato di vincere con chiarezza la natura del rapporto intercorso tra le parti, non emergendo sotto il profilo alcuna contraddizione nell’apprezzamento delle dichiarazioni riportate in motivazione, che evidenziano l’assenza di prova in ordine all’esistenza di un contratto che stabilisse le attività che dovevano giustificare la corresponsione di somme rilevanti. L’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di impresa, di per sè, non costituisce un fatto decisivo, poichè da essa non si può trarre il dato dell’effettiva realizzazione delle operazioni oggetto di contestazione, allorquando è stata evidenziata l’assenza di una struttura aziendale idonea a giustificare le operazioni eseguite che richiedono invece la presenza di mezzi e attrezzature notevoli;

– con il secondo motivo di entrambi i ricorsi si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 41-bis, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La decisione della Commissione tributaria regionale sarebbe viziata da errore di diritto per aver ritenuto le presunzioni utilizzate dall’Ufficio dotate dei requisiti necessari di gravità precisione e concordanza e quindi idonee a sostenere l’inesistenza delle operazioni senza considerare che il ricorrente aveva offerto la prova contraria sulla base della documentazione prodotta (dichiarazione dei terzi committenti e dei dipendenti della società impiegati nelle commesse in cui ha lavorato

il F., autorizzazione del tribunale fallimentare,

documentazione tecnica delle commesse e documentazione da cui si ricavava l’esistenza della collaborazione per ciascuna operazione commerciale: fatture, proposta e accettazione del committente, ordinativo inviato al F. con sottoscrizione e accettazione, fatture emesse dalla società);

– il motivo è infondato;

– in tema di Iva, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova (ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasma”) dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’Iva e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire

reale un’operazione fittizia (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27554;

Cass. 5 luglio 2018, n. 17619; Cass. 18 maggio 2018, n. 12258);

– nel caso di specie, con apprezzamento di merito sottratto al sindacato di questa Corte, la Commissione tributaria regionale ha ritenuto che gli elementi addotti dall’Ufficio fossero sufficienti per ritenere inesistenti le operazioni poste in essere dalla ditta CMI di F.F. nei confronti della CTM (le prestazioni rese dal F. difettano di effettività e certezza, non essendovi prova della natura del rapporto che legava le parti; mancata prova dell’esistenza di un contratto che definiva le attività tali da giustificare la corresponsione di somme rilevanti; assenza di una struttura aziendale idonea a giustificare le prestazioni eseguite; genericità della parte descrittiva del fattura), ritenendo insufficienti le deduzioni di segno contrario acquisite agli atti del giudizio;

– con il quarto motivo di entrambi i ricorsi si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. e art. 207 norme att. e coord. c.p.p., art. 414 c.p.p., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, nonchè art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Parte ricorrente contesta la pronuncia nella parte in cui ha negato qualsivoglia rilevanza agli elementi acquisiti nel corso del procedimento penale. La sentenza risulterebbe errata, avendo la Commissione tributaria regionale escluso a priori la possibilità di una valutazione delle circostanze risultanti dagli atti del procedimento penale e delle conclusioni raggiunte dal giudice penale le quali, pur non facendo stato nel giudizio tributario, debbono tuttavia essere considerate in tale giudizio come elementi rilevanti sul piano pratico, con obbligo della relativa adeguata motivazione;

– con il quinto motivo di entrambi i ricorsi si prospetta una motivazione omessa circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La Commissione tributaria regionale avrebbe omesso di considerare e valutare la rilevanza delle risultanze degli atti e del provvedimento conclusivo del procedimento penale ai fini di prova a favore della ricorrente. Vengono riprodotti, a tal fine, la richiesta di archiviazione e al provvedimento del GIP;

– i motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati;

– secondo il costante insegnamento di questa Corte, il decreto di impromuovibilità dell’azione penale, adottato ai sensi dell’art. 408 c.p.p. e s.s., non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice civile, nel caso concreto dal giudice tributario, dal momento che, a differenza della sentenza, la quale presuppone un processo, il provvedimento di archiviazione ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo a preclusioni di alcun genere (Cass. 8 marzo 2001, n. 3423; Cass. 21 ottobre 2005, n. 20355; Cass. 13 aprile 2007, n. 8888; Cass. 18 aprile 2014, n. 8999; Cass. 19 ottobre 2015, n. 21089);

– in materia di contenzioso tributario, se nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (Cass. 24 novembre 2017, n. 28174; Cass. 28 giugno 2017, n. 16262), alcun rilievo specifico assume di per sè il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale ex art. 408 c.p.p. che non rientra neppure tra i provvedimenti dotati di autorità di cosa giudicata ai sensi dell’art. 654 c.p.p. (v. già Cass. 8 marzo 2001, n. 3423 con riferimento a fattispecie cui si applicava la previgente disciplina di cui alla L. n. 429 del 1982, art. 12);

– nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale ha ritenuto che i costi relativi alle prestazioni di lavoro autonomo rese dal F., alla luce del complesso degli elementi acquisiti al giudizio, ivi comprese le dichiarazioni rese nel corso del procedimento penale (come evidenziato peraltro dagli stessi ricorrenti nell’ambito del terzo motive, ove hanno dedotto la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ha richiamato tali dichiarazioni), difettassero dell’effettività e della certezza necessarie per il riconoscimento della deducibilità dei costi relativi, finendo in tal modo per considerare, alla luce del quadro indiziario emerso, irrilevanti gli esiti del procedimento penale;

– con il sesto motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 167 e 47 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 e 67 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si prospetta, al riguardo, l’erronea applicazione di una doppia imposizione economica, atteso che lo stesso reddito è stato tassato due volte, prima in capo alla società e, successivamente, in capo ai soci, senza applicare nei confronti di questi ultimi la disciplina specifica per la tassazione dei redditi di capitale, finalizzata ad evitare la doppia imposizione economica (con il meccanismo del limite alla base imponibile o della ritenuta a titolo di imposta). L’Agenzia delle entrate con l’awiso di accertamento notificato, pur avendo qualificato il maggior reddito come reddito di capitale non ha affatto applicato la specifica disciplina prevista per la tassazione dei redditi di capitale ai fini delle imposte sui redditi (di cui all’art. 47 del TUIR e al D.P.R. n. 600 del 1972, art. 27), ma si è limitata ad assoggettare lo stesso reddito a tassazione ordinaria. A tal fine, il contribuente ha prodotto nel corso del giudizio le cartelle di pagamento emesse nei confronti della società e nei confronti del socio, così come i pagamenti eseguiti da entrambi. La sentenza impugnata sarebbe errata nella parte in cui ha affermato che la doppia imposizione economica è evitata nel caso di specie in quanto sono diversi “i soggetti e i requisiti posti a base delle due diverse imposizioni” (ai fini Irpef e ai fini Irpeg) considerando il fatto che nell’avviso di accertamento in oggetto non è stata rispettata la specifica disciplina relativa alla tassazione dei redditi di capitale ai fini Irpef;

– con il settimo motivo del ricorso incidentale si denuncia una motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che l’Ufficio, con l’avviso di accertamento notificato al T. per l’anno 2004, pur qualificando il maggior reddito accertato come “reddito di capitale” non ha applicato per tale maggior reddito la disciplina specifica dei redditi di capitale ma ha sottoposto le maggiori somme accertate a tassazione ordinaria. Si evidenzia, al riguardo, che nell’avviso di accertamento viene prima indicato un “reddito di capitali per Euro 115.515” per poi farlo confluire per intero nel reddito complessivo al “rigo RN1 reddito complessivo per Euro 191.151”. Allo stesso modo, la Commissione tributaria regionale avrebbe omesso di considerare il fatto che il contribuente ha prodotto nel corso del giudizio di appello le cartelle emesse nei confronti della società CTM e dei soci per l’anno 2004 con i relativi pagamenti, dimostrando quindi come siano state pagate imposte sullo stesso reddito sia da parte della società CTM, sia da parte del socio T.. Sotto questo aspetto la motivazione sarebbe del tutto insufficiente, omettendo di considerare la mancata applicazione della specifica disciplina dei redditi di capitale ai fini Irpef e il fatto che su uno stesso reddito siano state effettivamente versate le imposte sia da parte della società CTM, sia da parte del socio T.;

– entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati;

– in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’operatività del divieto di doppia imposizione, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto; tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, come quella che si realizza – come nel caso di specie -, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell’Irpeg, quale utile della società, sia ai fini dell’Irpef, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a fondamento delle due diverse imposizioni (Cass. 29 maggio 2018, n. 13503; Cass. 27 settembre 2011, n. 19687);

– le spese seguono la soccombenza e si liquidano come dispositivo a carico della ricorrente principale;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 5.600,00 per onorari, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione civile, il 13 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 23 settembre 2020

 

 

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