Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19911 del 29/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 29/09/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 29/09/2011), n.19911

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21546-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato DI MODICA SERGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO D’ITALIA,

102, presso lo studio dell’avvocato MOSCA GIOVANNI PASQUALE, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 834/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 19/07/2006 R.G.N. 763/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega DI MODICA SERGIO e l’avv.

Mosca Giovanni;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice de lavoro, di Castrovillari, regolarmente notificato, C.A., assunto dalla società Poste Italiane s.p.a. con contratto a tempo determinato dal 27.3.2000 al 24.6.2000 per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”, rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine al contratto in questione di talchè, essendo stata l’assunzione illegittima, il contratto si era convertito in contratto a tempo indeterminato. Chiedeva pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto al predetto rapporto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.

Il Tribunale adito accoglieva la domanda e dichiarava la natura a tempo indeterminato del rapporto in questione condannando la società convenuta al ripristino del rapporto ed al pagamento in favore del ricorrente della retribuzione, con accessori.

Avverso tale sentenza proponeva appello la società Poste Italiane s.p.a lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza in data 15.6/19.7.2006, rigettava il gravame.

In particolare la Corte territoriale rilevava che il contratto in questione era stato stipulato successivamente al 30.4.1998, ossia in periodo non coperto dalla contrattazione autorizzatoria.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Poste Italiane s.p.a. con dieci motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso il lavoratore intimato.

La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di ricorso la società ricorrente lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare rileva che la Corte territoriale aveva omesso di motivare sulle conseguenze scaturanti dal provvedimento del licenziamento disciplinare adottato nei confronti del lavoratore in epoca successiva al ripristino del rapporto di lavoro.

Col secondo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

In particolare rileva che l’intervenuto licenziamento disciplinare del dipendente, non impugnato nel termine di legge, aveva determinato la sopravvenuta cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., in relazione alla domanda, formulata con il ricorso introduttivo, di riammissione nel posto di lavoro.

Col terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c., art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva rigettato l’eccezione concernente l’avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso in relazione al tempo trascorso tra la scadenza del contratto a termine dedotto in giudizio e la manifestazione della volontà del lavoratore di ripristinare la funzionalità di fatto del rapporto, senza adeguatamente specificare le ragioni della statuizione adottata.

Ed invero il rapporto di lavoro a tempo determinato, connotato da illegittimità del termine, poteva, al pari di tutti i contratti, risolversi per mutuo consenso, anche in forza di fatti e comportamenti concludenti; e nel caso di specie la prolungata inerzia de lavoratore, a fronte della unicità del rapporto contrattuale intercorso ed alla breve durata del medesimo, avevano rilievo determinante al fine di far ritenere tali comportamenti come espressione di un definitivo disinteresse a far valere la presunta nullità parziale del contratto e, quindi, come tacito consenso alla definitiva risoluzione del rapporto.

Col quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 346 e 434 c.p.c. e art. 2909 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

In particolare rileva la ricorrente che il giudice di primo grado, riconoscendo la perdurante validità dell’accordo integrativo del 25.9.1997, aveva accolto la domanda dal lavoratore unicamente in ragione dell’asserita carenza di prova del nesso di causalità intercorrente tra la previsione generale astratta (di cui era stata ritenuta la validità e la persistenza nel tempo) e la singola assunzione a termine. Per contro la Corte territoriale, pur in carenza di gravame sul punto, aveva ritenuto la illegittimità del termine apposto al contratto in questione in ragione della asserita scadenza, alla data del 30.5.1998, della efficacia temporale della previsione autorizzatola di cui all’accordo 25.9.1997, questione in realtà non sottoposta alla valutazione dei giudice di appello, e sulla quale pertanto era ormai intervenuto il giudicato.

Col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare rileva, in relazione alla censura precedente, la contraddittorietà della motivazione, avendo la Corte territoriale prima ammesso e poi negato – con l’assunto relativo all’esistenza di un limite temporale – l’ampiezza della delega riconosciuta dalla contrattazione collettiva nella individuazione di ipotesi di assunzione a termine.

Col sesto motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. 18 aprile 1962, n. 230, artt. 1 e 2 nonchè della L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23 (art. 360 c.p.c., n. 3).

Col settimo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione della L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23 dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994, nonchè degli accordi sindacali del 25.9.1997, del 16.1.1998, del 27.4.1998, del 2.7.1998, del 24.5.1999 e del 18.1.2001, in connessione con l’art. 1362 e segg. c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Con l’ottavo motivo di ricorso lamenta omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare rileva, con i predetti motivi che per la evidente connessione tra gli stessi il Collegio ritiene di dover trattare in maniera unitaria, che in maniera assolutamente arbitraria, senza correttamente motivare ed indicare le fonti del proprio convincimento, la Corte territoriale aveva ritenuto che l’ipotesi prevista dalla L. n. 57 del 1987, art. 23 dovesse essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale. In tal modo l’interpretazione fornita dai giudici di merito aveva introdotto nella normativa contrattuale un ulteriore elemento assolutamente non previsto dalle parti contraenti; per contro, la corretta applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale, avrebbe dovuto portare la Corte di merito a valutare i successivi accordi attuativi nella loro effettiva natura di atti ricognitivi di una determinata situazione di fatto, senza alcuna volontà negoziale di porre limite alcuno se non quello della intrinseca temporaneità di qualsiasi processo di ristrutturazione, e quindi anche di quello della società Poste Italiane s.p.a..

Col nono motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094 e 2099 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Rileva in particolare che erroneamente la Corte territoriale aveva condannato la società al pagamento di tutte le retribuzioni dalla data delle pretesa messa in mora, incorrendo in tal modo nella palese violazione dei principi e delle norme di legge sulla corrispettività delle prestazioni, avendo la giurisprudenza evidenziato che in caso di trasformazione in unico rapporto a tempo indeterminato di più contratti a termine, gli intervalli non lavorati fra l’uno e l’altro rapporto, in difetto di un obbligo del lavoratore di continuare ad effettuare la propria prestazione o di tenersi disponibile ad effettuarla, non implicano diritto alla retribuzione.

Ed osserva che erroneamente la Corte territoriale aveva disatteso la richiesta della società di valutare l’aliunde perceptum, al fine di dedurre i ricavi conseguiti dal lavoratore e che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa, rilevando che la percezione da parte del lavoratore di altre somme dopo l’interruzione della funzionalità di fatto del rapporto non poteva che essere genericamente dedotta dalla società.

Col decimo motivo di ricorso la ricorrente lamenta contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare rileva che in maniera contraddittoria la Corte territoriale, dopo aver richiamato il principio per il quale il pagamento delle retribuzioni poteva decorrere solo dalla data di messa in mora della società, aveva disposto la corresponsione delle medesime dalla data di una missiva, anche se il relativo atto non conteneva alcuna offerta della prestazione ed era, quindi, inidoneo alla costituzione in mora.

Esaminando nell’ordine logico le questioni sollevate dalla società con il proposto ricorso, viene in rilievo in primo luogo la censura avanzata con il terzo motivo, concernente la dedotta risoluzione del contratto per mutuo consenso.

Il motivo non è fondato.

Ed invero, secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr, in particolare, Cass. 17.12.2004 n. 23554) nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un rapporto (o di un unico rapporto) di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione del contratto (o dell’ultimo contratto) a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto. Orbene, nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che l’intervallo di un certo lasso di tempo fra la cessazione del rapporto e l’atto di costituzione in mora non consentiva di ritenere, in assenza di qualsiasi altra circostanza univoca, l’esistenza di una volontà chiara e certa di dismissione del rapporto, atteso che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non era sufficiente a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso. E tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.

Del pari infondati sono il quarto ed il quinto motivo di ricorso, che il Collegio ritiene di dover trattare unitariamente stante la stretta connessione esistente fra gli stessi.

Osserva in proposito il Collegio che i principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato fissato dall’art. 112 c.p.c. non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base alla applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata, nè sussiste violazione della disposizione predetta nell’ipotesi in cui il decidente, restando nell’ambito della causa petendi e del petitum, sorregga la decisione con argomentazioni diverse da quelle adottate dalla parte.

E pertanto la Corte territoriale, rilevato che la possibilità di assunzione a termine per effetto dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 e dei successivi accordi integrativi era consentita solo sino al 30.5.1998, ha ritenuto la illegittimità della apposizione del termine al contratto in questione, in quanto non coperto dalla contrattazione autorizzatoria.

Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c. può nella fattispecie ravvisarsi.

Nè può ravvisarsi alcuna contraddittorietà nella motivazione atteso che l’ampiezza della delega in merito alla possibilità di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, non contrasta in alcun modo con la limitata efficacia temporale della stessa.

Sono altresì infondati il sesto, settimo ed ottavo motivo del ricorso.

Deve premettersi, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convenuto con modificazioni dalla legge 15 marzo 1983 n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997.

Partendo dal detto principio questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell’accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto tuttavia viziate quelle decisioni dei giudici di merito nella parte in cui hanno affermato la natura meramente ricognitiva dei cd. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate, ed in particolare di quella secondo cui per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 (cfr.

accordo del 16 gennaio 1998); ciò, fra l’altro, in violazione del principio secondo cui nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 28.8.2003 n. 12245; Cass. sez. lav., 25.8.2003 n. 12453).

La stessa giurisprudenza ha ritenuto inoltre la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi ne senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello per cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all’accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. sez. lav., 14.2.2004 n. 2866).

La giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 23.8.2006 n. 18378) ha, per contro, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo de 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione deve comunque ritenersi conforme alla regala iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. sez. lav., 12.3.2004 n. 5141).

Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito e quelle oggi proposte all’attenzione della Corte non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

La censura relativa alla legittimità del termine apposto al contratto de quo deve essere pertanto considerata infondata per le ragioni sin qui esposte, avendo la Corte territoriale adeguatamente esplicitato le proprie argomentazioni sul punto.

E’ inammissibile il nono motivo del ricorso.

Ed invero, trattandosi di ricorso avverso una sentenza depositata il 19.7.2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto Decreto Legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”.

Nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis: Cass. SS.UU, 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360; Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che il nuovo requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ovvero nella richiesta di declaratoria di una astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità, ma è per contro indispensabile che il quesito di diritto, inteso quale punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio di diritto generale, sia esplicitamente riferito alla lite in oggetto, anche attraverso concreti riferimenti al caso specifico, di talchè sia individuabile il carattere risolutivo rispetto alla controversia concreta, altrimenti risolvendosi nella richiesta di una astratta affermazione di principio.

Siffatta ipotesi si è verificata nel caso di specie ove si osservi che la formulazione dei quesiti relativi al motivo suddetto si appalesa assolutamente generica, priva di qualsivoglia riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio, risolvendosi nella richiesta di una astratta affermazione di principio, assolutamente pacifica.

La evidente genericità dei quesiti rende inammissibile il motivo, allo stesso modo di quel che si verifica in tema di censura non attinente al decisum.

Parimenti inammissibile è il decimo motivo di ricorso.

Ed invero l’art. 366 bis c.p.c. ha previsto, in relazione alle censure afferenti l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che “l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.

Nell’interpretazione di tale ultima norma questa Corte (ex plurimis:

Cass. sez. 3, 7.4.2008 n. 8897; Cass. SS.UU. 1.10.2007 n. 20603) ha rilevato come l’onere, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione in merito ad un fatto controverso, di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni del vizio di motivazione, debba essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità de ricorso.

Siffatta indicazione non si ravvisa nella fattispecie in esame di talchè il motivo suddetto va ritenuto inammissibile.

Sono per contro fondati i primi due motivi di ricorso concernenti la omessa motivazione sulle conseguenze scaturanti dai provvedimento del licenziamento disciplinare adottato nei confronti del lavoratore in epoca successiva al ripristino del rapporto di lavoro.

Posto invero che il relativo rilievo era stato sottoposto al giudice di appello, rileva la Corte che quest’ultimo ha in realtà sul punto omesso di motivare compiutamente avendo disposto la conferma della condanna al risarcimento del danno, quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate “fino alla effettiva riammissione in servizio o fino alla nuova risoluzione del rapporto a cui ha fatto riferimento l’appellante”.

Appare evidente che la Corte d’appello ha bensì ritenuto ammissibile la censura dell’appellante Poste Italiane, intesa alla riduzione del danno, e su ciò il lavoratore non ricorre in via incidentale.

Tuttavia nel merito la decisione è perplessa, ossia motivata in modo insufficiente, perchè il giudice d’appello rigetta la censura senza spiegarne la ragione. Essa perciò va cassata sul punto.

Trattasi di accertamento di fatto, che deve essere compiuto dal giudice di merito involgendo la valutazione della effettività del suddetto provvedimento disciplinare e della effettiva mancanza di impugnazione da parte del destinatario dello stesso.

Il ricorso va pertanto accolto in relazione ai suddetti motivi, con cassazione sul punto dell’impugnata sentenza, che va confermata per il resto, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Reggio Calabria.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e secondo motivo del ricorso; rigetta gli ulteriori motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2011

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