Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19908 del 05/10/2016


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Cassazione civile sez. trib., 05/10/2016, (ud. 20/09/2016, dep. 05/10/2016), n.19908

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28934/2011 proposto da:

LA SELVETTA AGRICOLA DEI FRATELLI M. SS in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI

PORTA PINCIANA 4, presso lo studio dell’avvocato MARCO SANTARONI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO BELLINGACCI giusta delega

a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, MINISTERO DELLE FINANZE;

– intimati –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI SPOLETO in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 72/2011 della COMM. TRIB. REG. di PERUGIA,

depositata il 14/04/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/09/2016 dal Consigliere Dott. LIANA MARIA TERESA ZOSO;

udito per il ricorrente l’Avvocato BELLINGACCI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PISANA che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Con atto pubblico dell’U maggio 2004, registrato il 9 giugno 2004, la società semplice la Selvetta Azienda Agraria dei Fratelli M. acquistava terreni agricoli dichiarando di volersi avvalere dei benefici fiscali previsti dalla L. 31 gennaio 1994, n. 97, art. 5 bis. L’Agenzia delle entrate notificava avviso di liquidazione sul presupposto che la contribuente era decaduta dai benefici richiesti in quanto l’agevolazione spettava ai coltivatori diretti ed agli imprenditori agricoli a titolo principale mentre la richiedente non era persona fisica ma una società. La contribuente proponeva ricorso e la Commissione Tributaria Provinciale di Perugia lo accoglieva. Proposto appello da parte dell’Agenzia delle entrate, la Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria lo accoglieva sul rilievo che la L. 29 marzo 2004, n. 99, entrata in vigore il 7 maggio 2004, aveva istituito la figura dell’imprenditore agricolo a titolo professionale ed aveva stabilito che qualunque riferimento della legislazione vigente all’imprenditore agricolo a titolo principale dovesse essere riferito alla definizione di imprenditore agricolo a titolo professionale. La legge stessa aveva previsto che anche le società potessero avere la qualifica di imprenditore agricolo professionale, purchè almeno un socio fosse in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale. E poichè dalla documentazione prodotta emergeva che uno dei soci della società aveva la qualifica di coltivatore diretto ma non di imprenditore agricolo professionale, l’agevolazione richiesta non spettava alla società ricorrente.

2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione la contribuente affidato a cinque motivi. L’Agenzia delle entrate si è costituita al solo fine della partecipazione all’udienza di discussione, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

3. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 112 c.p.c., ed omessa motivazione su un punto decisivo della domanda, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la ricorrente che la CTR, nel ritenere che il socio M.R. non avesse i requisiti di imprenditore agricolo professionale, ha introdotto un nuovo argomento che non era contemplato tra i motivi d’appello proposti dall’Ufficio.

4. Con il secondo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 112 c.p.c., ed omessa motivazione su un punto decisivo della domanda, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la ricorrente che la CTR ha oltrepassato i confini del proprio ambito di cognizione poichè non si è limitata a verificare la legittimità della motivazione espressa nell’avviso di liquidazione ma ha aggiunto una ragione del tutto nuova ed autonoma consistita nel fatto che M. Riccardo non è un imprenditore agricolo professionale.

5. Con il terzo motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 115 c.p.c., e art. 2697 c.c., ed omessa o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della domanda, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la ricorrente che l’oggetto della causa era circoscritto alla questione se le società, e non solo le persone fisiche, potessero accedere al beneficio fiscale sicchè parte ricorrente non era onerata di documentare elementi e requisiti, quale quello della qualifica di imprenditore agricolo professionale in capo a M.R., che l’avviso di liquidazione non aveva menzionato nè posto in discussione.

6. Con il quarto motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla L. n. 97 del 1994, art. 5 bis, e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la ricorrente che la circolare numero 13 del 31 gennaio 2002 emessa dall’Agenzia delle entrate aveva chiarito che per beneficiare dell’agevolazione fiscale di cui si tratta l’acquirente doveva essere coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale e che tali erano le società il cui statuto prevedesse quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo dell’attività agricola e che, trattandosi di società di persone, almeno la metà dei soci fosse in possesso dei requisiti per la qualifica di imprenditore agricolo.

7. Con il quinto motivo deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla L. 29 marzo 2004, n. 99, art. 1, alla L. n. 153 del 1975, art. 12, e alla L. n. 97 del 1994, art. 5 bis, nonchè vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la Lricorrente che la legge 99/2004, che ha introdotto la figura dell’imprenditore agricolo professionale, è entrata in vigore il 7 maggio 2004, solo tre giorni prima della stipula dell’atto sicchè occorreva fare riferimento al quadro normativo preesistente.

8. Osserva la Corte che il primo, il secondo ed il terzo motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto riguardano tutti la medesima questione, sono inammissibili per due ordini di ragioni. In primo luogo sono inammissibili in quanto risultano formulati con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, laddove, nel ricorso per cassazione, non è ammessa la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (cfr. Cass. n. 21611 del 20/09/2013; Cass. n. 19443 del 23/09/2011). In secondo luogo i motivi sono inammissibili perchè manifestamente infondati, tenuto conto che l’avviso di accertamento era motivato sul rilievo che l’agevolazione non spettava alle società e che la CTR, decidendo sulla questione, ha affermato che l’agevolazione spettava alle società di persone, ma a condizione che sussistessero determinate condizioni che, nel caso specifico, non erano state provate. Nessun vizio di ultrapetizione sussiste, dunque, dato che la parte, la quale aveva richiesto l’agevolazione che assumeva le spettasse – pur essendo una società di persone – ed aveva impugnato l’avviso di liquidazione, aveva l’onere di provare la sussistenza dei presupposti per l’agevolazione ed il giudice tributario aveva l’obbligo di accertare la sussistenza degli stessi ancorchè la questione non avesse formato oggetto di specifico motivo di appello.

9. Il quarto motivo è inammissibile sia perchè formulato con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sia perchè manifestamente infondato. Invero al momento della stipula dell’atto di compravendita (11 maggio 2004) il D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, in vigore dal 7 maggio 2004, prevedeva, all’art. 1, che “Ai fini dell’applicazione della normativa statale, è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro. Il comma 3, prevedeva che “Le società di persone, cooperative e di capitali, anche a scopo consortile, sono considerate imprenditori agricoli professionali qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile e siano in possesso dei seguenti requisiti: a) nel caso di società di persone qualora almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale. Per le società in accomandita la qualifica si riferisce ai soci accomandatari;…”. Il comma 4 prevedeva che “Qualunque riferimento della legislazione vigente all’imprenditore agricolo a titolo principale si intende riferito alla definizione di cui al presente articolo”. Ne consegue che, per godere dell’agevolazione prevista dalla L. 31 gennaio 1994, n. 97, art. 5 bis, – che prevede che nei territori delle comunità montane, il trasferimento a qualsiasi titolo di terreni agricoli a coltivatori diretti e ad imprenditori agricoli a titolo principale che si impegnano a costituire un compendio unico e a coltivarlo o a condurlo per un periodo di almeno dieci anni dal trasferimento è esente da imposta di registro, ipotecaria, catastale, di bollo e di ogni altro genere – la società doveva essere in possesso dei requisiti previsti dal D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, art. 1. Alcun rilievo può essere attribuito, dunque, alla circolare numero 13 del 31 gennaio 2002 emessa dall’Agenzia delle entrate, trattandosi di normativa, peraltro secondaria, antecedente l’entrata in vigore della L. n. 99 del 2004.

10. Il quinto motivo è inammissibile sia perchè formulato con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sia perchè manifestamente infondato. Ciò in quanto è privo di rilievo giuridico il fatto che la legge applicabile al caso concreto sia entrata in vigore solo pochi giorni prima della stipula dell’atto.

Il ricorso va, dunque, rigettato e le spese processuali, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere all’Agenzia delle entrate le spese processuali che liquida in Euro 3000, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2016

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