Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19897 del 23/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 23/09/2020, (ud. 06/07/2020, dep. 23/09/2020), n.19897

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12082-2018 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI

121, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE VETERE, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

GM SUD SAS DI G.E. & C., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dagli avvocati FRANCESCO CONFORTI,

MASSIMILIANO SANNUTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 165/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 01/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

depositata del 06/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARGHERITA

MARIA LEONE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

La Corte di appello di Catanzaro con la sentenza n. 165 del 2018 aveva rigettato l’appello proposto da A.S. avverso la decisione con la quale il tribunale di Castrovillari aveva rigettato la sua domanda diretta al risarcimento del danno patito per la condotta vessatoria subita ad opera della G.M.Sud sas di G.E. e C., sua datrice di lavoro.

La corte territoriale aveva escluso condotte riconducibili ad una situazione di mobbing sia per la generica indicazione delle stesse da parte del lavoratore, che per la insufficienza delle risultanze testimoniali.

Avverso tale decisione l’ A. aveva proposto ricorso affidato a due motivi cui resisteva con controricorso la società GM Sud sas. Veniva depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio. L’ A. depositava successiva memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1)- Con il primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto quale l’art. 2697 c.c. per non aver, la corte territoriale, fatto ricorso a prova presuntiva pur avendo ritenuto non sufficienti le prove raccolte nel giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

2) Con il secondo motivo è dedotta la violazione dell’art. 2087 c.c., per non aver, il giudice di appello, ritenuto sussistente l’ipotesi di mobbing pur in presenza di condotte vessatorie.

I motivi possono essere trattati congiuntamente essendo entrambi attinenti all’accertamento di condotte vessatorie identificative di una ipotesi di mobbing.

Entrambe le censure sono inammissibili perchè dirette implicitamente ad introdurre una richiesta di rivisitazione del materiale probatorio non consentito in sede di legittimità. Con apparentemente introduzione del vizio di violazione di legge in realtà si mira alla rivalutazione del materiale probatorio.

A riguardo di quest’ultima questa Corte ha chiarito che ” Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità” (Cass. n. 640/2019).

Ripercorso come sopra l’esatto significato del vizio enunciato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve ritenersi escluso dal suo ambito il difetto denunciato, relativo, non già alla mancata o errata applicazione di una disposizione in relazione alla concreta fattispecie, ma alla valutazione del materiale probatorio in maniera ritenuta non congruente rispetto alla prospettazione della parte ricorrente. Le censure sono pertanto inammissibili.

Altresì inammissibili devono peraltro considerarsi perchè, in difetto dei requisiti di specificità, non riportano le testimonianze de relato cui i giudici di merito non avrebbero attribuito valore e di cui si chiede in questa sede una valutazione in riscontro con altre emergenze probatorie.

Ulteriori profili di inammissibilità sono anche riscontrabili nella dedotta violazione del 2087 c.c. in quanto il mancato accertamento di condotte vessatorie, non evincibili dalle emergenze processuali in atti, non può che determinare un giudizio di inesistenza della ipotesi di mobbing. Non è quindi comprensibile, in siffatto contesto processuale, quale sia la concreta violazione della disposizione in esame.

Il ricorso è inammissibile. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in favore della parte controricorrente nella misura di cui al dispositivo.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 3.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2020

 

 

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