Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19880 del 13/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 13/07/2021, (ud. 13/04/2021, dep. 13/07/2021), n.19880

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17347/2013 R.G. proposto da:

Nomura International PLC, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dagli avv.i Giancarlo Zoppini, Giuseppe

Pizzonia ed Enrico Castellani e con domicilio eletto presso lo

studio del primo, in Roma, Via della Consulta 1/b;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per

l’Abruzzo, sez. distaccata di Pescara, n. 571/09, pronunciata il 22

marzo 2012 e depositata il 24 maggio 2012, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 aprile

2021 dal Cons. Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

RILEVATO

1. La società contribuente, con sede nel Regno Unito, era oggetto di un’indagine penale da parte della Procura di Pescara, unitamente ad altri istituti bancari esteri (con sede in Francia e nel Regno Unito), per aver presentato all’Amministrazione finanziaria italiana delle istanze di rimborso per dei crediti d’imposta relativi ai dividendi distribuiti da società partecipate. Istanze che, in tesi della Procura, facevano seguito alla compravendita di titoli azionari italiani allo scopo di beneficiare del rimborso del credito d’imposta sui dividendi previsti dalle Convenzioni Italia-Francia e Italia-Regno Unito contro le doppie imposizioni.

2. Le risultanze dell’indagine penale venivano messe a disposizione dell’Amministrazione finanziaria che, con l’ausilio della GDF, eseguiva una verifica fiscale che culminava con l’adozione di un p.v.c. secondo cui, a fronte di Euro 108.062.291,42 di credito d’imposta chiesto a rimborso, solo Euro 10.499.155,44 spettavano effettivamente alla società, dovendo invece essere respinte le richieste di rimborso per la differenza. Un tanto perché esse erano riferibili ad operazioni ritenute simulate e consistenti in un mero “prestito” di titoli ad altro soggetto in prossimità del c.d. stacco di cedola e, quindi, perché atte a far sorgere indebiti crediti d’imposta mediante un intermediario abilitato a chiederne, appunto, il rimborso.

3. Al p.v.c., peraltro, faceva da contraltare una memoria difensiva della società contribuente, inidonea però a modificare il convincimento dell’Ufficio che assumeva il provvedimento di diniego parziale di rimborso nei termini espressi dalla GDF.

4. Adiva il giudice di prossimità la società contribuente che agiva però per l’annullamento solo parziale dell’atto impositivo e, segnatamente, nella parte in cui l’Amministrazione finanziaria chiedeva la restituzione dei crediti d’imposta sui dividendi già rimborsati nella misura di Euro 33.889.235,46, aumentata degli interessi, e nella parte in cui negava il rimborso dei crediti residui nei limiti di Euro 13.872.930,00.

5. La Commissione tributaria provinciale rigettava integralmente il ricorso con decisione che trovava integrale conferma anche nel giudizio di riforma.

6. Ricorre per la cassazione della sentenza la società ricorrente che si affida a otto motivi di ricorso. Resiste l’Avvocatura generale dello Stato con tempestivo controricorso, mentre la parte contribuente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.

Diritto

CONSIDERATO

1. Con il primo motivo la parte ricorrente prospetta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici hanno respinto l’appello della Società ritenendo che il provvedimento di diniego parziale al rimborso non sia viziato da difetto di motivazione. La sentenza sarebbe pertanto “in parte qua” illegittima per violazione del combinato disposto della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 1, e art. 10, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.1 In buona sostanza la contribuente censura l’illegittimità della sentenza nella parte in cui il giudice d’appello ha ritenuto adeguatamente motivato il provvedimento di diniego parziale e ciò sebbene dal suo contenuto non possano evincersi le ragioni che hanno indotto l’Ufficio a disattendere la memoria difensiva presentata dalla società contribuente a seguito della notifica del p.v.c.. Invero, nell’assumere il provvedimento di diniego parziale, l’Ufficio avrebbe acriticamente accolto l’impostazione offerta dalla GDF senza tener effettivamente conto delle argomentazioni difensive offerte dalla contribuente. Inconferente ai fini del decidere, e quindi erroneo sarebbe il suo richiamo in motivazione, sarebbe anche l’assunto circa il potere dell’Amministrazione finanziaria di integrare in giudizio le difese espresse nel provvedimento impugnato.

Il motivo è infondato.

1.2 In materia questa Corte ha affermato che “Come emerge dalla stessa lettura della prima parte del comma 7 – e dal raffronto con il tenore più perentorio della seconda parte, per la quale invece, all’esito di tanto complessa quanto nota evoluzione giurisprudenziale, si è pervenuti a conclusione opposta – all’obbligo dell’amministrazione finanziaria di “valutare” le osservazioni del contribuente (cui l’imposizione del termine dilatorio, questa sì a pena di nullità, è strumentale) non si aggiunge l’ulteriore obbligo di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo, a pena di nullità. Si tratta di una considerazione assai rilevante, posto che essa va coniugata con l’ulteriore affermazione secondo la quale in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo” (Cass. n. 8378 del 2017, Cass. n. 20781 del 2016; Cass. n. 15616 del 2016). Si vuol dire che la lesione del contraddittorio endoprocedimentale sussiste le sole volte in cui l’ufficio ha manifestato apertamente di non avere considerato le deduzioni difensive esposte dal contribuente nel termine dilatorio – com’e’ avvenuto nel caso di specie, posto che l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di “valutare” le osservazioni del contribuente cui l’imposizione del termine dilatorio, a pena di nullità, è strumentale- e non quando lo stesso ufficio le ha, anche implicitamente, considerate e disattesa all’atto di emanare l’accertamento” (Cfr. Cass., V, n. 23824 del 2020; Cass., VI, n. 29487 del 2018, Cass., n. 3583 del 2016).

1.3 In buona sostanza se è ben vero che è fatto obbligo all’Amministrazione finanziaria di valutare le eventuali memorie difensive offerte dal contribuente, non è men vero che non sussista il connesso obbligo di esplicitare, nell’atto impositivo, le ragioni per le quali le controdeduzioni ivi offerte non sono state accolte.

1.4 Nel caso in commento è incontroverso – avendo la ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza, trascritto sia la parte d’interesse del provvedimento avversato, sia la sentenza oggetto di impugnazione – che l’Ufficio abbia valutato le memorie difensive offerte dal contribuente, tanto da averle espressamente richiamate nel corpo dell’atto. Non sussiste, dunque, la paventata violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non avendo l’Ufficio espressamente omesso di considerare le deduzioni difensive esposte dalla contribuente.

Il motivo è dunque infondato e va pertanto respinto.

2. Con la seconda doglianza la società contribuente lamenta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui è stato respinto il motivo di appello in ordine alla nullità/illegittimità del provvedimento di diniego parziale per intervenuta decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio dell’azione fiscale. La sentenza sarebbe pertanto “in parte qua” viziata per violazione e falsa applicazione del citato D.P.R. n. 600, art. 43, comma 1, nella versione all’epoca vigente e del citato D.P.R. n. 602, art. 43, comma 1, secondo l’interpretazione conforme all’art. 49 EU (ora art. 56 TFEU) e art. 56 EU (ora art. 63 TFEU), agli artt. 3 e 97 Cost. e alla L. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2.1 In buona sostanza la parte ricorrente denunzia l’illegittimità della sentenza per essere stato ivi affermato che il potere dell’Amministrazione finanziaria di verifica delle istanze di rimborso e/o il recupero dei crediti convenzionali sarebbe soggetto al termine di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c., e non anche al termine quinquennale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 e al D.P.R. n. 602 del 1973.

La CTR avrebbe dunque errato a non rilevare l’intervenuta decadenza, per l’Ufficio, dalla possibilità di recuperare le somme già rimborsate.

Il motivo è infondato.

2.2 Con arresto di questo Giudice di legittimità reso (anche) in punto di istanze di rimborso del credito di imposta relativo ai dividendi percepiti da società controllate da altra società con sede nel Regno Unito è stato così affermato “Questa Corte (Sez. V, n. 14527 del 2019), su identica questione, ha avuto modo di affermare che “il termine previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43 (che è richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43) è inapplicabile perché riguarda la diversa fattispecie della rettifica della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente e decorre, testualmente, dalla data di presentazione della dichiarazione. Invece, nel caso in esame, il provvedimento impugnato non rettifica in alcun modo la dichiarazione presentata dal sostituto di imposta, ma possiede il contenuto di una revoca del precedente rimborso, successivamente risultato indebito a seguito dei controlli sostanziali eseguiti dall’Ufficio”. Inoltre questa Corte, nella già citata sentenza Sez. V, n. 16001 del 2019, che si riferisce anche alla tempestività dell’atto di recupero di crediti già rimborsati, aveva ugualmente escluso l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, sulla base del fatto che “Nell’ordinamento interno ed in quello convenzionale non vi è alcuna norma che preveda un termine di prescrizione o di decadenza per accertare l’infondatezza di una domanda di rimborso, né può farsi applicazione analogica del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, che su tale punto rinvia al termine previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, commi 1 e 2. E’ infatti principio generale che nel diritto tributario tutti i termini devono essere espressamente previsti e, in mancanza, deve farsi applicazione della norma generale contenuta nell’art. 2946 c.c., che prevede il termine di prescrizione decennale. Tantomeno le norme citate possono trovare applicazione in via analogica o di interpretazione al caso in esame, poiché si è in presenza di una istanza di rimborso presentata da soggetto non residente e, dunque, di una fattispecie totalmente diversa da quella da esse disciplinata. Questa interpretazione è suffragata anche dalla Corte di Giustizia Europea che con la sentenza 11.06.2009 in C155/08 e C157/08, anche in materia di accertamento dei redditi prodotti all’estero ha stabilito che “la fissazione di un termine di accertamento più lungo per i termini all’estero rispetto a quelli di provenienza nazionale è conforme al diritto comunitario”, poiché “l’interesse a preservare l’integrità delle entrate tributarie nazionali e la necessità di contrastare frodi fiscali, prevalgono sia sulla libertà di prestazione di servizi che sulla libera circolazione di merci”.

2.3 Questo collegio ritiene di aderire a tale orientamento, che vale non solo per il diniego di credito di imposta ma, a maggior ragione, per il recupero di quello indebitamente già rimborsato, considerandolo non in contraddizione con altra giurisprudenza secondo cui il termine per l’esercizio dell’azione è quello di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, sulla base del concetto per cui il “potere di recupero del credito di imposta” è sottoposto ad un termine di decadenza come lo è il “potere di accertamento fiscale”, e che tale termine non può essere diverso, quanto a durata, da quello previsto per il “potere di accertamento” dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, (Sez. V, n. 15186 del 2016, incidentalmente anche Sez. V, n. 18407 del 2018). In quest’ultimo caso, infatti, si tratta di un atto di recupero di credito di imposta nei confronti di soggetto italiano, che presenta la dichiarazione dei redditi in Italia e che ha un rapporto periodico con il fisco (tanto che il credito era stato utilizzato in compensazione negli anni successivi), per cui l’atto ha il significato non solo di autotutela a rapporto fiscale ancora aperto, ma ha anche una certa natura impositiva. Nel caso di specie, invece, si è in presenza di una domanda di restituzione di somme ormai già rimborsate a soggetto non residente e senza stabile organizzazione. In tal senso l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, apparirebbe frutto di una inammissibile interpretazione analogica, perché se è vero che la norma è intitolata genericamente “recupero di somme erroneamente rimborsate”, senza distinzione in merito alle ragioni del rimborso rivelatosi poi erroneo, tuttavia, come rilevato sopra richiamando la sentenza n. 14527 del 2019, la norma si riferisce ai recuperi di rimborsi effettuati a seguito di rettifica della dichiarazione, attraverso l’emissione di cartella di pagamento, ipotesi che non ricorre nella specie, in cui si discute di un ordine di restituzione a soggetto non residente, come ricordato dalla già citata Sez. V, n. 16001 del 2019″ (cfr. Cass., V, n. 2313 del 2020).

Orbene, la fattispecie in esame abbraccia entrambe le ipotesi già esaminate da questo giudice di legittimità, ossia tanto il diniego del rimborso del credito di imposta quanto il recupero di quello indebitamente già rimborsato, senza che la parte ricorrente abbia a tal fine rappresentato valide ragioni per discostarsene. Ne’ possono incontrare il favore di questa Corte le ulteriori argomentazioni svolte dalla contribuente in ordine ad una pretesa violazione delle norme unionali.

2.4 I giudici Europei hanno invero già risolto le questioni pregiudiziali secondo cui un termine di rettifica fiscale prolungato potrebbe costituire una restrizione ai movimenti di capitali ai sensi dell’art. 63 TFUE. Sul punto, in particolare, i giudici Europei hanno stabilito che “L’art. 64 TFUE, paragrafo 1, deve essere interpretato nel senso che si applica a una normativa nazionale che impone una restrizione ai movimenti di capitali considerati in tale disposizione, come il termine di rettifica fiscale prolungato di cui trattasi nel procedimento principale, anche allorché detta restrizione può essere parimenti applicata in situazioni che non implicano investimenti diretti, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari”, argomentando le proprie conclusioni soprattutto per il fatto che dal tenore dell’art. 64 TFUE, par. 1, si evince una deroga al divieto di cui all’art. 63 TFUE, par. 1, a favore dell’applicazione delle restrizioni esistenti in forza del diritto nazionale per quanto concerne i movimenti di capitali costituiti da investimenti diretti, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari.

2.5 La Corte ha poi ricordato come “una restrizione ai movimenti di capitali, quale il trattamento fiscale meno vantaggioso dei dividendi di origine estera, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 64 TFUE, paragrafo 1, dal momento che essa si riferisce a partecipazioni acquistate al fine di creare o mantenere legami economici durevoli e diretti tra l’azionista e la società interessata e che permettono all’azionista di partecipare effettivamente alla gestione o al controllo di tale società (sentenza del 24 novembre 2016, SECIL, C-464/14, EU: C:2016:896, punto 78 e giurisprudenza ivi citata). Analogamente, secondo la Corte, una restrizione rientra nell’ambito dell’art. 64 TFUE, paragrafo 1, in quanto restrizioni dei movimenti di capitali implicanti investimenti diretti qualora riguardi gli investimenti di qualsiasi tipo effettuati dalle persone fisiche o giuridiche ed aventi lo scopo di stabilire o mantenere legami durevoli e diretti tra il finanziatore e l’impresa cui tali fondi sono destinati per l’esercizio di un’attività economica” (Cfr. Sentenza CGUE C-317/15 del 15 febbraio 2017).

2.6 In altri termini la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che rientrano tra le restrizioni (ammissibili) ai movimenti di capitali ammesse ai sensi del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, art. 64, e come tali sono legittime, le previsioni delle leggi nazionali secondo le quali i termini di accertamento legati alla detenzione di attività finanziarie ubicate in paesi extracomunitari sono raddoppiati sicché tale normativa è idonea a restringere il principio di libera circolazione dei capitali, principio applicabile anche nei confronti dei paesi terzi e quindi, valevole anche per paesi diversi dagli Stati membri dell’Unione Europea. Trattandosi di restrizioni ammissibili vengono pertanto a cadere le doglianze di pretesa violazione delle norme unionali.

Il motivo è quindi infondato.

3. Con la terza censura la società contribuente si duole dell’illegittimità della sentenza per aver i Giudici d’appello erroneamente affermato che il provvedimento di diniego parziale è stato emesso nel rispetto della procedura previsa dalla Convenzione Italia-UK, art. 10, quinto paragrafo. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata per violazione dalla Convenzione citata, art. 10, quinto paragrafo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1 In sintesi la contribuente dubita che l’Amministrazione finanziaria possa effettuare l’attività di controllo anche in un momento ampiamente successivo alla presentazione delle istanze di rimborso giacché la Convenzione Italia-UK prevedrebbe che l’attività istruttoria debba essere effettuata “all’atto della presentazione dell’istanza”.

3.2 n motivo va disatteso sulla scorta di quanto già rappresentato in relazione al secondo. Ed invero, l’attività istruttoria ed il recupero delle somme rimborsate non trova la sua disciplina nella Convenzione Italia-UK contro le doppie imposizioni e sul punto non è esaustiva. Essa, anzi, consente il riferimento ai principi generali di ripetizione di indebito entro l’ordinario termine decennale di prescrizione, che nella fattispecie non sono stati derogati. Sarebbe, viceversa fuori dal sistema sostenere che, il rimborso, una volta erogato, precluda la successiva attività di restituzione delle somme erroneamente rimborsate (cfr. Cass., V, n. 16001 del 2019).

4. Con la quarta doglianza la ricorrente lamenta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui è stato rigettato il motivo di appello in ordine alla nullità/illegittimità del provvedimento di diniego parziale laddove richiede la restituzione dei crediti d’imposta già rimborsati. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata per violazione e falsa applicazione dell’art. 1697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4.1 In particolare la ricorrente denunzia l’illegittimità della sentenza nella parte in cui la CTR ha posto a suo carico l’onere di provare le ragioni economiche sottostanti l’operazione e, quindi, le condizioni oggettive e soggettive per avvalersi del credito di imposta e tali, cioè, da revocare ogni dubbio circa l’indebito fine di voler unicamente beneficiare del credito d’imposta. Afferma invero che l’onus probandi doveva essere ascritto in capo all’Ufficio giacché il rimborso, seguito dalla richiesta di restituzione, era del tutto assimilabile ad un accertamento d’imposta.

4.2 Con il sesto motivo, invece, la società contribuente denunzia l’illegittimità della decisione gravata nella parte in cui i Giudici hanno confermato la legittimità/fondatezza, nel merito, del provvedimento di diniego parziale. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata per violazione e falsa applicazione della Convenzione Italia – UK, art. 10, quinto paragrafo, in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 3.

4.3 Segnatamente la società contribuente lamenta l’illegittimità della sentenza giacché secondo la CTR, ai fini dell’esclusione del diritto al rimborso, sarebbe sufficiente che l’operazione finanziaria abbia come risultato (anche) quello di determinare il conseguimento del predetto credito d’imposta, anziché prevedere che esso sia negato solo quando il suo conseguimento costituisce il risultato fondamentale. Afferma, in particolare, che il credito d’imposta costituisce un “elemento strutturale” dei dividendi sicché sarebbe impossibile dimostrare che esso non sia stato oggetto di valutazione preliminare da parte del contribuente.

Il quarto ed il sesto motivo possono essere scrutinati congiuntamente avendo entrambi ad oggetto la Convenzione Italia – Regno Unito, art. 10, p. 5, ancorché sotto un profilo diverso.

I due motivi non possono essere condivisi.

4.4. Occorre premettere quanto già deciso da questa Corte in una fattispecie sostanzialmente identica ossia che “ai sensi della Convenzione Italia-Regno Unito, art. 10, p. 5, una “persona” residente nel Regno Unito (..) che riceve i dividendi da una società residente in Italia matura, in Italia, un credito di imposta se dimostra, su richiesta dell’autorità competente: “che la partecipazione per la quale erano stati pagati i dividendi era stata acquistata da tale persona, in buona fede, per ragioni commerciali oppure nell’ambito dell’ordinaria attività di fare o gestire investimenti e che tale acquisizione non costituiva il fine specifico o uno dei fini specifici del conseguimento del credito d’imposta…”. Superato l’evidente errore sintattico della traduzione italiana del testo della Convenzione (e’ ovvio, infatti, che il conseguimento del credito di imposta rappresenta il fine e non il mezzo dell’acquisizione azionaria), in forza di tale disposizione pattizia, la società inglese, per beneficiare del credito di imposta sulle cedole riscosse, a ciò richiesta dell’Autorità, avrebbe dovuto provare di avere acquistato la partecipazione azionaria nell’ambito della sua normale attività e che tale acquisizione non avesse quale fine specifico (“main object” nel testo in lingua inglese della Convenzione) il conseguimento del credito di imposta” (Cfr. Cass., V, n. 18397/2018).

4.5 In particolare è stato affermato che “il diritto al credito di imposta sancito dalla Convenzione tra Italia e Regno Unito, art. 10, paragrafi 2 e 4, per evitare le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con L. 5 novembre 1990, n. 329), presuppone la duplice dimostrazione che la società del Regno Unito che riceve i dividendi ne sia “l’effettiva beneficiaria” e che la società che “riceve i dividendi ed il credito di imposta sia a tale titolo soggetta all’imposta nel Regno Unito”, gravandone il corrispondente onere probatorio – che investe gli elementi costitutivi del diritto del contribuente beneficiario dei dividendi a non subire una seconda tassazione della stessa ricchezza già tassata in capo alla società, e di conseguire il rimborso di quanto indebitamente pagato – sulla società che abbia percepito i predetti dividendi” con l’effetto che “…. in ipotesi di contenzioso sorto a seguito di diniego di rimborso, è il soggetto che chiede il rimborso a dovere dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti del diritto fatto valere”. (Cfr. Cass., V. n. 11648 del 2019).

4.6 Sotto il primo profilo il Giudice d’appello pare aver fatto buon governo del precetto convenzionale in commento, avendo correttamente mantenuto in capo alla contribuente l’onere probatorio. Quest’ultimo, infatti, ai sensi della Convenzione in esame, art. 10, p. 5, grava sulla società estera, sicché esso non doveva essere trasferito in capo all’erario, come infondatamente preteso dalla ricorrente.

4.7 Ma il giudice d’appello pare aver correttamente statuito anche in relazione al secondo profilo giacché onere precipuo della parte era quello di provare che l’acquisizione non avesse, quale fine specifico, il conseguimento del credito di imposta. Ed invero il giudice ha rigettato il motivo in ragione del fatto che la parte ricorrente non aveva ivi provato che l’operazione fosse “diretta, anche in via esclusiva, al conseguimento del credito d’imposta”. In altri termini il Giudice non ha assunto, quale parametro del proprio convincimento, la circostanza che il credito d’imposta potesse essere uno dei risultati dell’operazione, come assunto dalla parte ricorrente, quanto che quell’operazione fosse “diretta” o meno al suo conseguimento, ossia che anch’esso fosse il fine dell’acquisizione azionaria, come peraltro già stabilito da questa Corte (Cfr. Cass., V, n. 18397 del 2018).

I due motivi vanno pertanto congiuntamente respinti.

5. Con la quinta doglianza la società contribuente prospetta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato, ritenendolo fondato nel merito, il provvedimento impugnato. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata in quanto recante una motivazione insufficiente e contraddittoria in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.1 Segnatamente, censura la sentenza per aver la CTR reso una motivazione contraddittoria e insufficiente su un fatto controverso e decisivo, ossia per essere state le operazioni di acquisto dei titoli azionari italiani eseguite per valide ragioni economiche, non anche allo scopo principale di conseguire il credito d’imposta e con parti terze: fatti che, se esaminati, avrebbe portato ad escluderne l’anomalia e, dunque, a ritenere che la condotta della società non era abusiva. La sentenza e’, ritenuta, inoltre viziata, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito, appunto dalla terzietà delle parti contrattuali.

5.1 Con il lungo e articolato quinto motivo la contribuente ripercorre la vicenda fattuale rappresentando come l’Amministrazione le avesse imputato delle operazioni di arbitraggio fiscale estero su estero mediante schemi di dividend washing, realizzate mediante l’acquisto di titoli azionari italiani da parte di una banca estera, che li cedeva alla controllata con sede nel Regno Unito. In tesi dell’Ufficio, la società ricorrente incassava il dividendo e restituiva i titoli alla banca estera. Il passaggio dei titoli si concentrava in un lasso temporale molto breve, necessario e sufficiente ad incassare il dividendo ed a generare il credito d’imposta. In sostanza le operazioni contestate consistevano nel formale e temporaneo trasferimento dei titoli dagli operatori esteri alla ricorrente, cui faceva seguito l’immediato incasso dei dividendi e il ri-trasferimento dei predetti titoli agli stessi cedenti. La contribuente ne era dunque la beneficiaria solo in apparenza: infatti, non vi erano mai state delle effettive operazioni di compravendita di titoli, tenuto conto che le operazioni di cessione/restituzione dei titoli avvenivano sempre tra gli stessi proprietari e in tempi molto brevi.

5.2 Di contro la contribuente contestava il metodo di indagine dell’Ufficio, poiché parziale e “automatico”, svincolato dalle singole operazioni e il cui esame analitico avrebbe invece consentito di accertare la piena legittimità della condotta serbata dalla contribuente.

5.3 A fronte di siffatte inconciliabili posizioni la CTR avrebbe reso una motivazione insufficiente e contraddittoria non potendo essere desunti, dal testo della sentenza impugnata, né l’iter logico seguito dal Giudice d’appello, né le argomentazioni offerte dal Collegio giudicante a sostegno o a rigetto delle due tesi opposte e, soprattutto, dei profili fattuali offerti a titolo probatorio.

Il motivo è inammissibile.

5.4 Appare infatti condivisibile la preliminare eccezione di inammissibilità svolta dalla difesa erariale: la censura sconta un evidente profilo di inammissibilità, in quanto contesta la valutazione delle prove e la ricostruzione del fatto. Una censura di questo tipo cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (Cass.; III, n. 17036 del 2018). La società ricorrente richiede infatti lo scrutinio di elaborati riferiti ai tempi e ai destinatari delle operazioni che, in quanto afferenti al merito della controversia, non sono sindacabili in sede di legittimità ove sorretti da adeguata motivazione.

5.5 A tacer d’altro, il motivo è comunque infondato risultando la motivazione della sentenza della Commissione tributaria regionale completa, logica e non contraddittoria. Il Collegio d’appello ha invero dato atto della vacuità delle ragioni offerte dalla contribuente, che non ha diversamente motivato la circostanza per cui una società di investimento estranea al diritto inglese (nella fattispecie, giapponese) si sia avvalsa di una sua controllata britannica (come tale, l’unica tra le due a poter beneficiare delle norme convenzionali in commento) per eseguire sul mercato azionario italiano delle operazioni che poteva eseguire in piena autonomia.

La censura merita dunque rigetto.

6. Con il settimo motivo la parte ricorrente denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici hanno rigettato il motivo di appello afferente alla parziale illegittimità del provvedimento impugnato, laddove recupera i crediti già rimborsati, derivante dall’impiego di uno strumento giuridico improprio. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata per violazione e falsa applicazione del citato D.P.R. n. 602, art. 25 e art. 43, comma 1, della citata L. n. 241, art. 1, comma 1, nonché dell’art. 97 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6.1 In buona sostanza la parte ricorrente si duole del fatto che la CTR abbia avallato il modus procedendi dell’Ufficio, affidatosi ad un provvedimento di diniego parziale anche per il recupero delle somme già rimborsate anziché avvalersi, come avrebbe dovuto, di una cartella esattoriale, nei termini e nelle forme del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 43. Contesta, in particolare, gli assunti fatti propri dall’Amministrazione finanziaria nei precedenti gradi di merito, secondo cui l’attività di accertamento nei confronti di soggetti non residenti in Italia non troverebbe disciplina specifica (con conseguente identificazione degli atti impositivi tipici) né nella normativa interna o Europea, né nella Convenzione in disamina giacché, di tal via, l’attività dell’Ufficio sarebbe svincolata da qualunque vincolo normativo.

6.2 Il motivo è infondato e deve essere respinto sulla scorta dell’orientamento di questa Corte che ha stabilito che “Il provvedimento impugnato è l’atto conclusivo del procedimento aperto a seguito dell’istanza di rimborso. Nella fattispecie presenta un contenuto complesso costituito dal diniego del rimborso e dalla richiesta di restituzione delle somme già indebitamente percepite e con esso l’amministrazione finanziaria ha accertato e determinato il credito per il cui recupero la stessa potrà poi agire. Sennonché, in disparte la considerazione che la cartella di pagamento è l’atto che segue all’accertamento del credito dell’Amministrazione finanziaria, vi è che, rivolgendosi esso ad un cittadino straniero, la successiva azione di recupero non può essere esercitata secondo le norme del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 43, che non sono applicabili agli stranieri, soprattutto per i limiti territoriali del concessionario alla riscossione e della stessa concessione alla riscossione” (Cass., V, n. 16001 del 2019).

6.3 I succitato orientamento ha peraltro trovato conferma in un più recente arresto giurisprudenziale, che questa Corte condivide, secondo cui “In quest’ultimo caso, infatti, si tratta di un atto di recupero di credito di imposta nei confronti di soggetto italiano, che presenta la dichiarazione dei redditi in Italia e che ha un rapporto periodico con il fisco (tanto che il credito era stato utilizzato in compensazione negli anni successivi), per cui l’atto ha il significato non solo di autotutela a rapporto fiscale ancora aperto, ma ha anche una certa natura impositiva. Nel caso di specie, invece, si è in presenza di una domanda di restituzione di somme ormai già rimborsate a soggetto non residente e senza stabile organizzazione. In tal senso l’applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, apparirebbe frutto di una inammissibile interpretazione analogica, perché se è vero che la norma è intitolata genericamente “recupero di somme erroneamente rimborsate”, senza distinzione in merito alle ragioni del rimborso rivelatosi poi erroneo, tuttavia, come rilevato sopra richiamando la sentenza n. 14527 del 2019, la norma si riferisce ai recuperi di rimborsi effettuati a seguito di rettifica della dichiarazione, attraverso l’emissione di cartella di pagamento, ipotesi che non ricorre nella specie, in cui si discute di un ordine di restituzione a soggetto non residente, come ricordato dalla già citata Sez. V, n. 16001 del 2019″ (Cfr. Cass., V., n. 2313 del 2020).

La censura deve pertanto essere respinta.

7. Con l’ultimo motivo di ricorso la contribuente si duole della nullità della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici hanno rigettato il motivo di appello afferente alla parziale illegittimità del provvedimento impugnato relativamente agli interessi legali applicati sul recupero dei crediti rimborsati. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e art. 36, comma 2, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 118 disp. att., in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

7.1 In via subordinata, prospetta poi la nullità della sentenza impugnata anche nella parte in cui i Giudici hanno rigettato il motivo di appello afferente alla parziale illegittimità del provvedimento impugnato relativamente agli interessi legali applicati sul recupero dei crediti rimborsati. La sentenza sarebbe “in parte qua” viziata per violazione e falsa applicazione del citato D.P.R. n. 602, art. 43, comma 1, e dell’art. 2033 c.c., in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

7.2 In buona sostanza con il primo profilo la società ricorrente denunzia l’illegittimità della sentenza per non essersi la CTR pronunciata sulla doglianza afferente l’indebita richiesta di interessi sulle somme già rimborsate, non avendo la CTR illustrato le ragioni per cui ha ritenuto di aderire alle tesi dell’Amministrazione finanziaria.

7.3 In subordine, invece, lamenta l’illegittimità della sentenza perché la CTR avrebbe comunque dovuto rilevare la non debenza degli interessi ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43.

7.4 La doglianza svolta in via principale è inammissibile. Invero, questa Corte ha già avuto occasione di rimarcare come ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, denunciabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, non basti la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma sia necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (v., Cass., n. 20311 del 2011).

7.5 La censura svolta in via subordinata è invece infondata.

La richiesta di rimborso dell’amministrazione finanziaria che, in presenza di un abuso del diritto, mira ad ottenere la restituzione di una somma percepita non in buona fede, esclusa per le ragioni già esposte l’applicabilità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, rientra nella disciplina dell’art. 2033 c.c., che prevede anche il diritto a percepire gli interessi legali dal giorno dell’avvenuto pagamento e, nella fattispecie, dal giorno del rimborso non dovuto.

Anche l’ultimo motivo deve pertanto essere disatteso.

Quanto sopra esclude la necessità del rinvio pregiudiziale, cui accenna la difesa privata, in base al criterio del cd. “acte clair”, laddove non esiste alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Sez. U, Sentenza n. 14042 del 08/07/2016, in motivazione), bastando che le ragioni del diniego siano espresse (Corte EDU, caso Ullens de Schooten & Rezabek vs. Belgio) ovvero implicite se la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, caso Wind Telecomunicazioni vs. Italia, p.36).

8. Il ricorso e’, quindi, infondato e deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vendono liquidate come in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso. Condanna la Nomura International PLC, in persona del rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese del presente grado del giudizio in favore della Agenzia delle Entrate che liquida in Euro trentamila/00 oltre a spese prenotate a debito, cui si aggiunge il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2021

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