Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19878 del 29/09/2011

Cassazione civile sez. III, 29/09/2011, (ud. 27/06/2011, dep. 29/09/2011), n.19878

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MASSERA Maurizio – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13574/2009 proposto da:

S.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 44, presso lo studio dell’avvocato MARTA

LETTIERI, rappresentato e difeso dall’avvocato BERTINI Sabrina giusto

mandato in atti;

– ricorrente –

contro

ARREDAMENTI MAURIZI S.R.L. (OMISSIS) in persona

dell’Amministratore Unico e legale rappresentante Sig. T.

M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DONATELLO 23,

presso lo studio dell’avvocato VILLA PIERGIORGIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato BERTOLA Massimo giusto mandato in atti;

– controricorrente –

e contro

PAB DI PATRASSI A. & C. S.N.C. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 183/2008 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 06/06/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/06/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI CARLEO;

udito l’Avvocato SABRINA BERTINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c., depositato in data 18 ottobre 2006, S.A., premesso di essere proprietario di un immobile concesso in locazione nel 1986 alla Snc P.A.B. di Patrassi A.& C, ad uso commerciale, adiva il Tribunale di Macerata affinchè fosse pronunciata la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento della conduttrice per aver ceduto il detto contratto alla Srl Arredamenti Maurizi senza il trasferimento del ramo aziendale dato che la società cessionaria andava a svolgere un’attività completamente diversa da quella della precedente conduttrice. Ciò premesso, conveniva in giudizio la P.A.B. e l’Arredamenti Maurizi chiedendo la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni per il periodo di occupazione dei locali.

In esito al giudizio in cui si costituivano entrambe le convenute il Tribunale adito dichiarava la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento della conduttrice e rigettava la domanda di danni.

Avverso tale decisione proponeva appello la società Arredamenti Maurizi ed in esito al giudizio, in cui si costituivano sia il S. sia la P.A.B., la Corte di Appello di Ancona con sentenza depositata in data 6.5.2008 accoglieva l’impugnazione rigettando la domanda di risoluzione del contratto.

Avverso la detta sentenza il S. ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Resiste con controricorso la srl Arredamenti Maurizi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La prima doglianza, svolta dal ricorrente, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 36, si fonda sulla considerazione che la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto l’applicabilità dell’art. 36 citato anche nell’ipotesi in cui non vi sia continuità tra l’attività imprenditoriale svolta dal cedente e quella del cessionario neppure al momento della cessione.

Inoltre – ed in tale rilievo si sostanzia la seconda doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. – la Corte territoriale, ritenendo applicabile alla fattispecie la modifica operata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, sull’art. 2112 c.c., comma 5, avrebbe erroneamente attribuito un’ingiusta prevalenza al requisito volitivo-soggettivo rispetto a quello obiettivo ai fini della configurabilità del trasferimento di parte dell’azienda in base all’identificazione data dal cedente e dal cessionario.

Infine, il giudice di secondo grado – in tali termini va riassunto il terzo motivo di doglianza per vizio motivazionale – sarebbe incorso nel vizio di motivazione insufficiente non avendo indicato gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento circa l’esistenza di un vincolo organizzativo ed economico, tra i beni costituenti il ramo d’azienda ceduto, tale da renderne palese ed individuabile l’autonomia funzionale.

I motivi in questione, che vanno trattati congiuntamente proponendo profili di censura connessi tra loro, non sono fondati.

A riguardo, mette conto di sottolineare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 36, che consente al conduttore di sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore se insieme venga locata o ceduta l’azienda, si riferisce non solo alla cessione totale dell’azienda ma anche alla cessione di un singolo ramo d’azienda, intendendosi per tale, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. (così come modificato dalla L. 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 98/50), ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo (cfr. Cass. n. 21697/09).

Ed invero, l’intento del legislatore è stato proprio quello di agevolare il trasferimento del singolo imprenditore perseguendo nel contempo la valenza pubblicistica, costituita dall’interesse alla conservazione dell’azienda o di un suo ramo in una determinata zona, tutelandone l’avviamento commerciale. Ciò spiega come mai, secondo la giurisprudenza di questa Corte “mancando il perseguimento di quest’ultima funzione, la predetta norma non si applica nel caso di cessione di un “punto di vendita” di un’unica azienda, ove nell’immobile ceduto sia stata esercitata la vendita di articoli che il cedente continui ad effettuare in altro locale” (cfr. Cass. n. 4800/06).

Ciò premesso, giova richiamare l’attenzione sul rilievo che la Corte di merito ha escluso la riconduzione della vicenda negoziale de qua ad una mera cessione di un punto di vendita ed ha ritenuto la sussistenza della cessione di un ramo d’azienda sulla base della considerazione che, nel caso di specie, oggetto di trasferimento tra le parti non erano stati i soli muri dell’immobile vuoto di merce ma lo erano stati anche beni materiali dell’azienda ceduti per un valore di 4.000,00 Euro e soprattutto l’avviamento commerciale per un valore di 16.000,00 Euro, il cui trasferimento contribuisce alla creazione di quel vincolo organizzativo tra i beni che hanno formato l’oggetto del compendio alienato perchè possa parlarsi di cessione di ramo d’azienda (Cass. 8621/01, 3973/04, 4800/06, 7326/86).

Nè d’altra parte poteva legittimamente dubitarsi dell’effettività del trasferimento del ramo d’azienda solo perchè la cedente aveva un altro esercizio commerciale in un’altra via della città. Ed invero, il dubbio era infondato in quanto l’attività esercitata nei due negozi non era affatto identica ricomprendendo l’una il commercio di cosmetici, articoli di profumeria, per l’igiene personale, articoli da regali e per fumatori e l’altra, quella oggetto di cessione del ramo d’azienda – fatto pacifico tra le parti – soltanto tessuti e articoli di abbigliamento. Ciò, senza considerare che l’esercizio, diverso da quello oggetto della cessione, era operativo già dal 1990 per cui era da escludersi che fosse stato aperto nella prospettiva della cessazione dell’attività svolta nell’immobile poi ceduto unitamente all’avviamento ed altri beni aziendali.

Ciò posto, deve sottolinearsi che la valutazione circa la sussistenza delle circostanze idonee in funzione della configurabilità o meno della cessione di un “ramo di azienda” (anzichè di un “punto vendita” di un’unica azienda) involge apprezzamenti di fatto rimessi al giudice del merito che, ove adeguatamente motivati, rimangono incensurabili in sede di legittimità, (cfr. Cass. n. 4800/06, n. 12543/09, n. 5989/07, n. 15210/05, n. 685/2010).

Ne deriva l’infondatezza delle suesposte censure, non potendo trovare accoglimento la prima, in quanto si risolve in una diversa ricostruzione della vicenda e nella sollecitazione a svolgere apprezzamenti di fatto, preclusi in sede di legittimità e non apparendo la seconda in linea con le ragioni della decisione, le quali non si fondano affatto su una supposta prevalenza attribuita alla volontà delle parti rispetto all’oggettività della vicenda traslativa, essendosi i giudici di merito limitati ad affermare che, laddove la distinzione tra cessione di un ramo d’azienda e vendita dei singoli beni sia assai sottile e non percepibile con certezza, allora l’art. 2112 c.c., come novellato, “può fornire un’ulteriore chiave ermeneutica nel senso della valorizzazione della volontà delle parti, laddove non sussistano indici sintomatici, gravi, precisi e concordanti che inducano il giudicante a ritenere che la qualificazione operata dai contraenti sia errata sul piano oggettivo ovvero frutto di intenti simulatori o fraudolenti”.

Nè merita adesione l’ultima doglianza, poichè il giudice di merito, alla stregua di tutte le superiori considerazioni, ha argomentato adeguatamente sul merito della controversia con una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione. Nè d’altra parte il motivo del ricorso in esame è riuscito ad individuare effettivi vizi logici o giuridici nel percorso argomentativo dell’impugnata decisione. Giova aggiungere inoltre che il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al Giudice di legittimità non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il Giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al Giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al Giudice di legittimità, (così Cass. n. 8808/08 in motivazione).

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, senza che occorra provvedere sulle spese in favore della P.A.B. in quanto, non essendosi costituita, non ne ha sopportate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali, in favore della contro ricorrente, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2011

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