Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19847 del 20/09/2010

Cassazione civile sez. lav., 20/09/2010, (ud. 23/06/2010, dep. 20/09/2010), n.19847

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30643/2006 proposto da:

P.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. PAPIRIO

83, presso lo studio dell’avvocato SCIALDONI Luigi, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato AVITABILE ANTONIO,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCA ANTONIANA POPOLARE VENETA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO

25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI Roberto, che la

rappresenta e difende, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6256/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/03/2006 r.g.n. 1004/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

23/06/2010 dal Consigliere Dott. PASQUALE PICONE;

udito l’Avvocato GIOVANNI GENTILE per delega PESSI ROBERTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

PREMESSO IN FATTO

La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l’appello di P.I. e conferma la decisione del Tribunale di Roma n. 9229 del 28.3.2003, con la quale era stata giudicata priva di fondamento la domanda proposta nei confronti della Banca Antoniana Veneta SpA per il pagamento di L. 600.000.000, somma rivendicata in relazione agli anni 1999 e 2000 a titolo di compenso per l’incarico di amministratore delegato della Nagrasin SpA revocato prima della scadenza.

Il P. aveva fondato la sua pretesa sull’assunto che la cessazione dalla carica prima della scadenza, in conseguenza della fusione per incorporazione della società Nagrasin con la Banca Nazionale dell’Agricoltura SpA in data (OMISSIS), cui era poi subentrata la Banca Antoniana Veneta SpA, doveva ritenersi una revoca priva di giusta causa.

Il rigetto dell’appello è motivato con la considerazione che l’estinzione della società di cui il P. era amministratore delegato aveva determinato la cessazione dalla carica e, non essendo assimilabile ad una fattispecie di revoca, non attribuiva il diritto, a titolo risarcitorio, a percepire i compensi relativi al periodo successivo al detto evento.

Il ricorso di P.I. si articola in unico motivo; resiste con controricorso la Banca Antoniana Veneta SpA., ulteriormente precisato con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

L’unico motivo di ricorso denunzia violazione degli art. 2504 bis c.c., art. 2383 c.c., comma 3, e art. 1725 c.c., perchè il fenomeno della fusione societaria, anche per incorporazione, non è riconducile a quello dell’estinzione, ma implica la prosecuzione, irrobustita e rafforzata, delle imprese preesistenti e dei vincoli sociali che ne sono alla base, tenuto altresì conto che l’art. 1722 c.c., stabilisce che non si estingue per morte il mandato conferito per l’esercizio di un’impresa ove l’esercizio sia continuato.

Conseguentemente, secondo il ricorrente, il rapporto di mandato con l’amministratore era continuato con la società incorporante e la revoca non era fondata sopra una giusta causa; il quesito di diritto che conclude il motivo è formulato nel senso di stabilire se la revoca perfacta conclidentia del mandato all’amministratore di società di capitali a seguito di fusione per corporazione in altra società costituisca recesso senza giusta causa, con il conseguente diritto dell’amministratore al risarcimento del danno.

La Corte giudica il ricorso manifestamente infondato, dovendosi dare risposta negativa al quesito di diritto in base al quadro normativo applicabile ratione temporis alla fattispecie.

Si premette che, pacificamente, l’accadimento che viene in rilievo nella fattispecie è quello della fusione per incorporazione e non quello della mera trasformazione di una società da uno ad altro dei tipi previsti dalla legge, configurante una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto (su cui Cass. 13 settembre 2002, n. 13434, precedente invocato dal ricorrente). Non è applicabile a vicenda dell’anno 1999 il principio di diritto secondo il quale la fusione per incorporazione di una società in un’altra, alla stregua di quanto dispone il novellato (ad opera del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, con effetto del 1 gennaio 2004) art. 2504 bis c.c., comma 1, costituisce un evento da cui consegue non già l’estinzione della società incorporata, bensì l’integrazione reciproca delle società partecipanti all’operazione, ossia una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo (Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637). Ne consegue che la Corte non può esaminare, lo specifico problema interpretativo posto dalla controversia, relativo alla permanenza delle cariche sociali in atto presso la società incorporata, alla stregua delle nuove regole introdotte dalla riforma.

Invero, anche nella vigenza della precedente normativa, una parte della dottrina sosteneva che la fusione di società consisteva in una reciproca modificazione degli atti costitutivi delle società partecipanti, restando estranea al fenomeno della creazione- estinzione dei soggetti giuridici che vi concorrevano e realizzando l’intento di rafforzare l’organismo preesistente. Ma anche l’adesione a questa tesi non gioverebbe alla tesi del ricorrente, atteso che, ferma restando la possibilità di specifiche previsioni relative alla regolazione dei rapporti con gli amministratori delle società partecipanti, la cessazione dalla carica costituisce un effetto automatico della creazione di un organismo radicalmente diverso dal precedente, con assetto ed organi che si sostituiscono ai precedenti.

Ma la controversia deve essere risolta in base al principio, enunciato dalla giurisprudenza consolidata e dal quale non vi è ragione di discostarsi, secondo il quale, nella disciplina vigente prima della riforma del diritto societario di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il fenomeno della fusione e dell’incorporazione provoca l’estinzione automatica delle società fuse ovvero incorporate, postulando la sussistenza di un nuovo soggetto risultante o incorporante, con la conseguente confusione dei rispettivi patrimoni delle società preesistenti e realizzando una successione universale corrispondente alla successione universale mortis causa (vedi, tra i numerosi precedenti, Cass. 23 ottobre 2008, n. 25618; 19 ottobre 2006, n. 22489; 3 agosto 2005, n. 161949).

La cessazione automatica dalla carica di amministratore nell’ipotesi di fusione per incorporazione della società, se, da una parte, si collega alla previsione generale di cui all’art. 1722 c.c., comma 1, n. 4, dall’altra, rappresenta una conseguenza obbligata della creazione del nuovo organismo (società risultante dalla fusione) ovvero dell’incorporazione. E ciò risulta con evidenza dal disposto dell’art. 2504 c.c., nel suo riferimento esclusivo agli amministratori della società risultante dalla fusione e di quella incorporante. Il rilievo dimostra come la specifica disciplina delle società non sia compatibile con l’applicazione della previsione dell’art. 1722, n. 4, secondo periodo, a termine della quale il mandato che ha per oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa non si estingue per morte del mandante, se l’esercizio dell’impresa è continuato. In realtà, il fenomeno della fusione o incorporazione societaria incide direttamente e radicalmente sulle caratteristiche del nuovo soggetto che gestisce l’impresa e non consente la permanenza in carica degli organi delle società estinte.

In conclusione, non si è in presenza dell’ipotesi di revoca (tacita) dell’amministratore da parte dell’assemblea, a norma dell’art. 2383 c.c., comma 3, per l’ovvia ragione che, a seguito della fusione per incorporazione, non può esistere un’assemblea della società incorporata.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, liquidate le prime in Euro 17,00 oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., e i secondi in Euro 4000,00 (quattromila/00).

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 23 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2010

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