Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19842 del 20/09/2010

Cassazione civile sez. lav., 20/09/2010, (ud. 08/06/2010, dep. 20/09/2010), n.19842

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25076/2006 proposto da:

E.P. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIAN GIACOMO PORRO 8, presso

lo studio dell’avvocato BARENGHI Andrea, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GANGUZZA FRANCESCO ANTONIO, giusta delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.P., C.A., C.R., P.

E., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO

16, presso lo studio degli avvocati CERUTTI Gilberto e ANDREA

ZANELLO, che li rappresentano e difendono giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2305/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/09/2005 R.G.N. 11403/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

08/06/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato ROSSI FRANCESCO per delega BARENGHI ANDREA;

udito l’avv.to Zanello A.;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

La spa E.P. chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Roma, pubblicata il 7 settembre 2005, che ha respinto il suo appello ed ha accolto l’appello incidentale dei lavoratori nei confronti della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Roma.

I lavoratori avevano convenuto la società in giudizio esponendo quanto segue:

– erano stati addetti al servizio mensa dello Stato maggiore del Ministero della Difesa in Roma, da ultimo alle dipendenze della E.P. spa;

– in seguito alla decisione ministeriale di ristrutturare i locali, la E.P. aveva deciso di sospendere i rapporti di lavoro, comunicando la decisione di sospensione non retribuita dal lavoro con decorrenza 4 agosto 2001. – La società aveva quindi comunicato in data 19 novembre 2001 un licenziamento con preavviso e decorrenza dal 31 dicembre 2001, impugnato dai lavoratori.

Con lettera del 21 dicembre 2001 aveva prorogato il preavviso di licenziamento, spostando la decorrenza del licenziamento al 30 aprile 2002 e precisando che, ove il servizio mensa fosse stato aggiudicato ad altra impresa, quest’ultima sarebbe subentrata nei rapporti di lavoro.

I lavoratori, oggi intimati, proposero un ricorso ex art. 700 c.p.c., contro la sospensione senza retribuzione del rapporto e il Tribunale con ordinanza del 25-31 marzo 2002, ordinò la riammissione in servizio e il pagamento delle retribuzioni.

Nel giudizio di merito i lavoratori chiesero al giudice di dichiarare la illegittimità del licenziamento (con le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18) e della sospensione dal lavoro senza retribuzione dal 7 agosto 2001 al 30 aprile 2002, nonchè il risarcimento dell’ulteriore danno professionale ed alla persona.

Il Tribunale dichiarò la legittimità della sospensione (“la sospensione disposta a tutto il 31 dicembre 2001 deve considerarsi legittima”), ma condannò l’impresa a risarcire il danno derivante dalla stessa, in misura corrispondente alle retribuzioni spettanti dal 5 agosto 2001 all’8 aprile 2002 (data della riammissione in servizio, o meglio di offerta di riammissione in servizio da parte dell’azienda). Dichiarò inoltre la illegittimità del licenziamento con decorrenza dal 30 aprile 2002.

La società propose appello principale contro la decisione relativa alla illegittimità del licenziamento e della proroga. I lavoratori proposero appello incidentale contro la declaratoria di legittimità della sospensione e contro il rigetto della domanda di risarcimento danni ulteriore rispetto a quello riconosciuto con la condanna al pagamento delle retribuzioni non percepite.

L’appello incidentale è stato in parte accolto dalla Corte d’Appello, che ha dichiarato la “illegittimità della sospensione della retribuzione comunicata con lettera del 7 agosto 2001” (così il dispositivo), affermando in motivazione che è “dipesa da causa non imputabile al datore di lavoro, ma non può ritenersi che sia stata concordata in sede sindacale”. Ha invece rigettato la parte dell’appello incidentale in cui si chiedeva la liquidazione di un danno ulteriore rispetto alle retribuzioni non percepite.

La Corte ha respinto l’appello principale della società volto ad affermare la legittimità del licenziamento.

La società propone otto motivi di ricorso. I quattro lavoratori intimati si difendono con controricorso, nonchè con memoria ex art. 378 c.p.c..

Con il primo motivo di ricorso la società denunzia una erronea interpretazione della sentenza di primo grado e violazione di legge, laddove la Corte d’Appello ha ritenuto che l’appellante principale non ha fatto oggetto di specifica censura la decisione del Tribunale che ha riconosciuto il risarcimento del danno dal 5 agosto 2001 all’8 aprile 2002. Secondo la ricorrente la Corte d’Appello sarebbe giunta a tale conclusione perchè avrebbe interpretato in modo errato la sentenza di primo grado, in quanto questa “non ha affatto contraddittoriamente, come invece ritiene la Corte, liquidato il danno per il periodo di sospensione”, ma ha liquidato il danno relativo al licenziamento illegittimo.

Il motivo non è fondato. Si propone una interpretazione del contenuto della sentenza di primo grado diversa da quella fornita dal giudice di appello senza specificare quali canoni ermeneutici il giudice d’appello avrebbe violato nel fornire la sua interpretazione.

Il motivo di ricorso è generico e si risolve in una diversa valutazione di merito, inammissibile in sede di legittimità. Nè sul punto sono stati prospettati vizi di motivazione (il motivo è solo per violazione di legge). Inoltre il ricorso per cassazione omette di riportare i passaggi del ricorso in appello relativi al tema in esame, il che non consente di verificare, in violazione del criterio di autosufficienza, se la censura contro la decisione di appello, che ha ritenuto esterna al gravame questa parte della decisione, sia fondata.

Non venendo meno il presupposto del ragionamento della Corte in ordine alla interpretazione della sentenza di primo grado, rimane fermo il corollario costituito dalla mancata impugnazione con il ricorso in appello del risarcimento collegato alla sospensione (condanna al pagamento delle retribuzioni relative al periodo di sospensione dal lavoro dal 5 agosto 2001 all’8 aprile 2002).

La conferma di tale presupposto (mancanza di impugnazione del risarcimento relativo alla sospensione), comporta l’assorbimento di tutti i motivi (dal secondo al quinto) che concernono la legittimità sospensione del rapporto.

Il sesto motivo denunzia un vizio di violazione di legge (artt. 1324, 1362, 1353 c.c., e art. 100 c.p.c.) e di omissione o carenza di motivazione circa il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Anche questo motivo è palesemente generico quanto alla violazione di legge e prospetta un vizio di motivazione in modo inadeguato e contraddittorio, perchè è contraddittorio sostenere che una motivazione non c’è ed al tempo stesso che è insufficiente (e quindi c’è).

Il settimo motivo concerne l’onere della prova della impossibilità di repechage conseguente all’illegittimo licenziamento. La Corte secondo la ricorrente “omette del tutto di esplicitare le ragioni per cui ha ritenuto che la ricorrente non abbia adempiuto all’obbligo di provare l’impossibilità di adibire i ricorrenti ad altre attività o ad altri luoghi di lavoro, nè chiarisce i criteri logico giuridici con cui sono state valutate le risultanze probatorie dei documenti offerti per giungere a tali conclusioni”.

Anche questa censura è infondata. E’ improprio sostenere che la Corte ha “omesso del tutto” di indicare le ragioni della decisione.

Il giudice di appello infatti ha precisato che, ai fini della dimostrazione della impossibilità di repechage la società – non ha prodotto i contratti di appalto in altre sedi; – ha articolato in primo grado una prova orale in modo del tutto generico, per la quale non ha insistito in grado di appello; – non ha neppure allegato, prima che provato, la impossibilità di un’occupazione alternativa nell’ambito dell’attività di acquisto e gestione delle derrate svolta per il servizio di mensa scolastica comunale appaltato con altra impresa associata. Non vi è pertanto omissione di indicazione delle ragioni. Quanto al merito delle stesse, in assenza di violazioni di principi di diritto e in presenza di un ragionamento adeguato e consequenziale, il relativo giudizio non può essere rivalutato in sede di legittimità.

Con l’ultimo motivo si denunzia violazione di legge e vizio di motivazione per omesso rilievo di formazione del giudicato sulla statuizione di primo grado di rigetto della domanda di reintegrazione.

La tesi è che il giudice di primo grado avrebbe confermato i provvedimenti cautelari di riammissione in servizio ed avrebbe dichiarato la legittimità del licenziamento, ma avrebbe omesso di ordinare la reintegrazione ai sensi dell’art. 18 dello Statuto, il che implicherebbe in assenza di specifico appello da parte dei lavoratori il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nel senso del rigetto dalla domanda di reintegrazione del posto di lavoro.

Il giudice di appello, con tutta evidenza ha inteso la conferma del provvedimento di riammissione in servizio come ordine di reintegrazione. Anche in questo caso si è in presenza di una interpretazione che può essere censurata non proponendo semplicemente una valutazione diversa del contenuto della decisione, ma indicando specifiche violazioni dei canoni ermeneutici dettati dal codice o vizi di motivazione specificati nel tipo (omissione, insufficienza, contraddittorietà) e nel contenuto, il che non viene fatto nel ricorso.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità alle controparti, liquidandole in Euro 31,00, nonchè Euro 3.000,00 per onorari di avvocato, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2010

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