Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19828 del 04/10/2016


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Cassazione civile sez. VI, 04/10/2016, (ud. 15/07/2016, dep. 04/10/2016), n.19828

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18180/2015 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO

82, presso Io studio dell’avvocato STEFANO BASSI, rappresentata e

difesa dall’avvocato MASSIMO TUCCI, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende, ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n, 104/1/2015 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di VENEZIA – MESTRE, del 30/10/2014, depositata

08/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. PAOLA VELLA.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., osserva quanto segue.

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 291 c.p.c.”, poichè, a seguito dell’evocazione e costituzione in giudizio dell’Agenzia delle entrate di Vicenza, in luogo dell’Agenzia delle entrate di Treviso da cui promanava l’atto impositivo, “la Commissione, di fronte ad un diletto comportante la nullità della notifica, in quanto comunque l’Agenzia delle entrate fanno parte della medesima Direzione Regionale, già in primo grado avrebbe dovuto disporre la rinnovazione della notifica ex art. 291 c.p.c., ponendone il relativo onere a carico della ricorrente”.

1.1. La censura è infondata.

1.2. Come più volte ribadito da questa Corte (v. Cass. sent. nn. 5634, 5635, 5636 e 5637 del 20 marzo 2015), “le articolazioni dell’Agenzia delle entrate all’interno delle varie aree urbane sono espressione di una distribuzione delle competenze a essa intrinseca, disposta con atti interni denominati decreti direttoriali la cui violazione, essendo essi privi d’efficacia in pregiudizio degli utenti, non comporta alcun vizio (Cass. 16436/09 e 22000/13). Il formante giurisprudenziale, del resto, è nel senso che, per ogni Agenzia fiscale, la legittimazione a stare in giudizio nei gradi di merito dei processi tributari è riconosciuta in via concorrente anche agli uffici periferici, senza che ciò muti la titolarità e la riferibilità finale degli effetti del potere impostavo che rimane sempre in capo all’Agenzia fiscale quale unitario soggetto di diritto. Infatti, siccome gli uffici periferici non hanno autonoma soggettività rispetto all’Agenzia fiscale nella citi struttura sono organicamente inseriti, le sentenze emesse nelle controversie tributarie producono i loro effetti direttamente nella sfera giuridica della Agenzia fiscale e non dell’Ufficio periferico presente in giudizio. Dunque, tutto ciò che riguarda l’articolazione organizzativa interna dell’Agenzia fiscale (es. strutture e competente; successione, soppressione, accorpamento o scissione; redistribuzione territoriale) deve ritenersi processualmente irrilevante, essendo sempre e comunque riferibile l’attività difensiva all’Agenda fiscale, quale persona giuridica di diritto pubblico, giammai al singolo ufficio periferico, le cui vicende organizzative restano del tutto indifferenti (Cass. 22000/13 e altre coeve)”.

2. Con il secondo mezzo si lamenta la “violazione e falsa applicazione di norma di diritto per violazione dell’art. 342 c.p.c.. Nullità dell’appello dell’Agenzia delle Entrate”, per avere l’Agenzia delle entrate di Vicenza “formulato un’impugnazione contenente solo motivi attinenti la inammissibilità del ricorso in primo grado”, con riguardo all’eccepito difetto di legittimazione passiva, senza proporre “alcun motivo di appello contro il merito della sentenza di primo grado”, con conseguente inammissibilità dell’appello per carenza di specificità dei motivi.

2.1. Il motivo è inammissibile, in quanto dalla sentenza impugnata non risulta che la contribuente appellata avesse sollevato una specifica eccezione di inammissibilità dell’appello dell’amministrazione finanziaria, per difetto di specificità dei motivi, tanto che nessuna pronuncia è stata resa sul punto in secondo grado, con conseguente novità della questione.

3. Il terzo motivo attiene alla “violazione e falsa applicazione di norma di diritto per violazione dell’art. 112 c.p.c.. Nullità della sentenza impugnata”, per avere “la CTR pronunciato su domande non formulate dall’appellante” ufficio.

3.1. La censura è infondata, poichè sia dal ricorso (pag. 4) che dalla sentenza impugnata emerge che l’amministrazione finanziaria appellante aveva richiamato “le motivazioni dell’avviso di accertamento, già indicate in fatto”, ribadendone “la fondatezza e legittimità”, e “conseguentemente” aveva chiesto che fosse “confermato integralmente l’operaio.

4. Con il quarto mezzo, infine, si deduce la “violazione e falsa applicazione di norma di legge per violazione del D.P.R. 22 dicembre 1086, n. 917, art. 1 (Testo Unico II.DD.) e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 4 (T.U. IVA) in relazione all’art. 53 Cost.”, in quanto “nel caso in esame, pacificamente, nessun reddito nè come richiesto dal T. U. imposte dirette nè alcuna attività di impresa è stata posta in atto trattandosi di redditi conseguente ad attività truffaldina di terzi (tale S.D.) solo formalmente riconducibile alla ricorrente a causa dell’utilizzo del codice fiscale dell’impresa”.

4.1. Il motivo è palesemente inammissibile, poichè muove dal presupposto di fatto – dato per “pacifico”, ma espressamente negato dal giudice d’appello – del “finto d’identità (codice fiscale e partita iva dell’impresa) a danno della Contribuente”, che sarebbe stato commesso proprio da P.D..

4.2. A contrario la C.T.R., con una decisione non sottoposta in questa sede a censura motivazionale, ha accertato che “la documentazione prodotta non risulta idonea a dimostrare l’esclusiva responsabilità nella vicenda frodatoria in esame del Sig. P.D.”.

4.3. In particolare, con dovizia di dettagli i giudici d’appello hanno in concreto sottolineato che: a) la contribuente “nè in sede di accesso da parte dei verificatori a seguito di notifica dell’accertamento nè in sede contenziosa stato in grado di produrre documentazione idonea a provare la propria estraneità alla assenta frode”; b) “non multa agli atti la denuncia presentata dalla C. nei confronti del S., ma unicamente una denuncia contro ignoti presentata dalla summenzionata C. nel lontano 2005 per fin furto subito in data 19.05.2005, nella quale la ricorrente dichiara di non avere sospetti nei confronti di alcuno”; c) “il P. avevano non solo il permesso ma persino l’incarico da parte della contribuente C. di gestire la sua attività. Pertanto tra la signora C. il signor P. vi era un rapporto gestorio e non c’era, per stessa ammissione della ricorrente, alcun accordo simulatorio tra le parti”; d) “infatti, è principio generale previsto dal codice civile che chi si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”; e) “dal verbale della G.d.F. emerge che gestore dell’attività di cui era titolare la ricorrente C. sarebbe stato il succitato P., del quale, come risulta per stessa ammissione della C. nel ricorso introduttivo, quest’ultima si fidava dandogli la delega per operare sul conto della ditta individuale”; f) “conseguentemente, il P. ha agito non in nome proprio ma sempre per conto del dominus C.M.”; g) “comunque, nel rapporto di mandato vi è un onere di vigilanza che incombe sul mandante, il cui mancato esercizio non può certo valere a sollevare la ricorrente dalle responsabilità nei confronti di temi, tra cui l’Erario”; h) “dal verbale della G.d.F. emerge altresì: che la ricorrente aveva comunque il controllo del conto corrente della ditta, di cui ha esibito l’estratto ai verificatori; che la chiavetta USB riconducibile al P. è stata rinvenuta presso l’abitazione della ricorrente; era stata la C. concedere al Sig. S. la delega ad operare sul conto della ditta individuale; la ricorrente aveva concesso al signor S. l’uso di una carta ricaricabile con addebito sul conto della ditta individuale”.

5. Alla luce di un accertamento in fatto così puntualmente motivato, certamente non censurabile in questa sede, la stessa formulazione del motivo tradisce, se non altro, la mancata comprensione della ratio decidendi della sentenza gravata; in ogni caso, non sussiste la lamentata violazione di legge, che nasconde verosimilmente l’aspirazione ad una rivisitazione del merito della decisione, non consentita in questa sede.

6. In conclusione, il ricorso va respinto e la ricorrente va condannata, in ragione della soccombenza, a rifondere alla controparte le spese processuali del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibili i motivi di ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 5.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2016

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