Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19827 del 22/09/2020

Cassazione civile sez. I, 22/09/2020, (ud. 03/07/2020, dep. 22/09/2020), n.19827

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17045/2015 proposto da:

Iniziative Immobiliari Siciliane s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Stoppani 1, presso lo studio dell’avvocato Andrea Scuderi, che la

rappresenta e difende in forza di procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

G.F., domiciliata in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentata e difesa

dall’avv. Domenico Scalia, per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 712/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 27/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/07/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 26/7/2008 G.F. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania Sezione distaccata di Mascalucia la Iniziative Immobiliari Siciliane s.r.l. (di seguito IIS) per sentirla condannare alla demolizione di un muro, alto undici metri, costruito sul confine fra i fondi in rispettiva proprietà sino a raggiungere la minor altezza di tre metri, ovvero, in subordine, al suo arretramento, nel rispetto delle distanze fra costruzioni ad almeno cinque metri dal confine.

Si è costituita in giudizio la società convenuta, chiedendo il rigetto delle domande dell’attrice.

Il Tribunale di Catania – Sezione distaccata di Mascalucia, esperita consulenza tecnica d’ufficio, con sentenza del 12/3/2014 ha respinto le domande della sig.ra G., a spese compensate.

Il rigetto è stato motivato assumendo che l’art. 878 c.c., non porrebbe un generale divieto di erezione sul confine di un muro di altezza superiore a tre metri, fondandosi piuttosto sul criterio della prevenzione, in forza del quale il proprietario che costruisce sul confine per primo determina in concreto le distanze che devono essere rispettate per altre costruzioni da erigersi sui fondi vicini. Di conseguenza, la distanza minima indicata dal codice non andrebbe computata dalla linea di confine ma dalla costruzione del vicino. Inoltre, il giudice di prime cure ha rilevato l’assenza, nell’atto di citazione, di elementi utili all’applicazione del Regolamento Edilizio del Comune di Gravina di Catania, non avendo l’attrice operato alcun riferimento circa la zona in cui ricadevano i fondi dei contendenti, che risultava invece dal certificato di destinazione urbanistica allegato al titolo di provenienza (ove si leggeva che il terreno in questione ricadeva in zona D2, commerciale).

2. Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello G.F., a cui ha resistito l’appellata IIS.

La Corte di appello di Catania con sentenza del 27/4/2015 ha accolto il gravame, condannando IIS ad arretrare il muro a cinque metri dal confine e a rifondere alla controparte le spese del doppio grado di giudizio.

La Corte di appello ha ritenuto che l’appello fosse ammissibile ex art. 342 c.p.c.; che l’indicazione della norma regolamentare violata da parte dell’attrice, che aveva dedotto la violazione delle distanze legali nelle costruzioni, non fosse soggetta al regime delle preclusioni assertive; che assumesse rilievo il momento della costruzione e non quello del rilascio della licenza edilizia; che il regolamento edilizio del Comune di Gravina per la zona D2 prescrivesse il distacco delle costruzioni dal confine di metri cinque, derogando così al criterio della prevenzione.

3. Avverso la predetta sentenza del 27/4/2015, notificata in data 28/4/2015 a mezzo posta elettronica certificata, irritualmente secondo la ricorrente, ha proposto ricorso per cassazione IIS, con atto notificato il 27/6/2015, comunque tempestivo, svolgendo tre motivi.

Con atto notificato il 4/9/2015 ha proposto controricorso e G.F., chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 342 c.p.c..

1.1. Secondo la ricorrente, tale violazione sarebbe stata consumata dalla Corte di appello nel rigettare la sua eccezione di inammissibilità dell’avversario atto di appello, con l’adozione di un criterio sostanzialistico in luogo di quello formalistico che sarebbe stato corretto.

Il nuovo impianto della norma richiedeva infatti all’appellante una parte propositiva, costituente un “progetto di sentenza” a cui il giudice di appello doveva conformarsi per pervenire a una pronuncia immune da censure.

1.2. La censura non è fondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 342 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Sez. U, n. 27199 del 16/11/2017, Rv. 645991 – 01; Sez. 6 – 3, n. 13535 del 30/05/2018, Rv. 648722 – 01).

Non può considerarsi aspecifico e deve, quindi, essere dichiarato ammissibile, il motivo d’appello che esponga il punto sottoposto a riesame, in fatto ed in diritto, in modo tale che il giudice sia messo in condizione (senza necessità di esplorare, in assenza di parametri di riferimento, le vicende processuali) di cogliere natura, portata e senso della critica, non occorrendo, tuttavia, che l’appellante alleghi e, tantomeno, riporti analiticamente le emergenze di causa rilevanti, le quali risultino investite ed evocate non equivocamente dalla censura, diversamente da quel che è previsto per l’impugnazione a critica vincolata (Sez. 2, n. 7675 del 19/03/2019, Rv. 653027 – 01).

1.3. In ogni caso, la ricorrente, oltre a dolersi della mancata redazione del “progetto di sentenza”, non indica le ragioni specifiche per cui l’appello avversario, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, non avrebbe soddisfatto i requisiti di ammissibilità fissati dall’art. 342 c.p.c..

1.4. Peraltro la Corte di Appello di Catania si è attenuta a tali prescrizioni, statuendo che, in base al testo novellato dell’art. 342 c.p.c., è sufficiente “l’individuazione (pur non strettamente sistematica) dei capi della sentenza investiti dall’impugnazione, con l’indicazione delle censure finalizzate ad incrinare il fondamento logico-giuridico della sentenza impugnata” (pag. 3, sentenza impugnata) e che, nel caso di specie, l’atto di appello della G. fosse conforme ai parametri richiesti dalla norma citata, posto che “è sufficientemente specificata la censura, siccome la rilevanza degli errori asseritamente commessi dal primo giudice, onde ottenere una pronuncia di senso diverso” (pag. 4 sentenza impugnata).

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.P.R. n. 447 del 1998, art. 5.

2.1. La ricorrente osserva che l’intervento costruttivo de quo trovava il suo titolo urbanistico nel progetto approvato in variante, rispetto alle previsioni urbanistiche generali, ai sensi del predetto art. 5, mediante Delib. Consiglio Comunale 25 luglio 2005, n. 60, previo parere favorevole dell’Assessorato Regionale al Territorio e all’Ambiente dell’11/7/2005.

Nell’allora vigente Piano di fabbricazione non erano previste aree destinate all’insediamento di impianti produttivi, come il centro commerciale che IIS intendeva realizzare, e si era pertanto resa necessaria l’adozione della variante quale lex specialis rispetto allo strumento urbanistico generale.

2.2. La Corte di appello ha ritenuto pacifico e comunque accertato con statuizione passata in giudicato che il muro, alto undici metri, costituisse una vera e propria costruzione.

Nella prospettiva dell’applicazione dell’art. 873 c.c., la Corte di appello si è interrogata sulla natura delle disposizioni dettate dal locale regolamento edilizio.

L’art. 872 c.c., comma 2, prevede che il soggetto danneggiato per effetto della violazione delle norme di edilizia debba essere risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino quando si tratta della violazione delle norme contenute nella sezione seguente (la sesta) del Codice o da questa richiamate.

L’art. 873 c.c., contenuto appunto nella Sezione seguente del Codice, ossia nella Sezione VI, Capo II, Titolo II, Libro III del Codice civile (in tema di distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra i fondi) stabilisce che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, debbano essere tenute a distanza non minore di tre metri e tuttavia prevede che nei regolamenti locali possa essere stabilita una distanza maggiore.

Come rammentato, ancora di recente, dalle Sezioni Unite (n. 10318 del 19/05/2016) nel sistema delineato dagli artt. 873 c.c. e segg., il cosiddetto “principio della prevenzione” comporta che il confinante che costruisce per primo condiziona la scelta del vicino che voglia a sua volta costruire.

Al preveniente spetta una triplice facoltà: egli cioè può edificare rispettando una distanza dal confine pari alla metà di quella imposta dal codice, oppure può farlo sul confine, o anche ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.

A fronte alla scelta operata dal preveniente, il vicino che costruisce successivamente, nel primo caso, deve costruire anch’esso ad una distanza dal confine pari alla metà di quella prevista, in modo da rispettare il prescritto distacco legale dalla preesistente costruzione; nel secondo caso, il prevenuto può chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (art. 874 c.c.) o realizzare la propria fabbrica in aderenza allo stesso (art. 877 c.c., comma 1); ove non intenda costruire sul confine, è tenuto ad arretrare il suo edificio in misura pari all’intero distacco legale; nella terza ipotesi considerata, il prevenuto può chiedere la comunione forzosa del muro e avanzare la propria fabbrica fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo avere interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro a confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 c.c.); in alternativa, può costruire in aderenza (art. 877 c.c., comma 2) o rispettando il distacco legale dalla costruzione del preveniente.

Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, il criterio della prevenzione non opera invece quando la disciplina regolamentare, integrativa delle regole codicistiche ex art. 873 c.c., u.p., imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini.

Infatti il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento comunale edilizio allorchè questo fissi la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche la distanza delle stesse dal confine, salvo che lo stesso consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio (Sez. 2, n. 23693 del 06/11/2014, Rv. 633061 – 01; Sez. 2, n. 18728 del 26/09/2005, Rv. 584791 – 01).

Il principio della prevenzione ex art. 875 c.c., è derogato nel caso in cui il regolamento edilizio stabilisca anche (o soltanto) la distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che in quest’ultimo caso l’obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come il corrispondente divieto di costruire sul confine, a meno che una specifica disposizione del regolamento edilizio non consenta espressamente di costruire in aderenza (Sez. 2, n. 8283 del 20/04/2005, Rv. 581792 – 01; Sez. 2, n. 627 del 17/01/2003, Rv. 559820 – 01; Sez. 2, n. 4895 del 05/04/2002, Rv. 553537 – 01).

La pronuncia antesignana è delle Sezioni Unite, n. 2846 del 28/11/1967, Rv. 330436 – 01, che riconobbe che il criterio della prevenzione non è applicabile quando le norme del regolamento edilizio locale stabiliscano imperativamente che le costruzioni si distacchino dal confine.

Viceversa il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicchè il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874,875 e 877 c.c. (Sez. U, n. 10318 del 19/05/2016, Rv. 639677 – 01).

2.3. Nella fattispecie le norme tecniche di attuazione del regolamento vigente nel Comune di Gravina di Catania prevedevano all’epoca della costruzione per la zona omogenea D2, in cui ricadeva l’area interessata, unicamente un distacco dal confine di metri 5,00, senza contemplare la possibilità della costruzione in appoggio o aderenza.

Si era quindi in presenza di una regolamentazione integrativa ex art. 873 c.c., che non consentiva alla IIS la costruzione sul confine.

2.4. La ricorrente sostiene però che il suo progetto del Centro Commerciale Etneo era stato approvato in variante rispetto alle previsioni urbanistiche generali, ai sensi del D.P.R. n. 447 del 1998, art. 5, con la Delib. Consiglio Comunale 25 luglio 2005, n. 60, previo parere favorevole dell’Assessorato Regionale al Territorio e all’Ambiente dell’11/7/2005, sul presupposto che nel piano di fabbricazione non fossero previste aree destinate all’insediamento di impianti produttivi come il centro commerciale in questione.

2.5. Il D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, ora abrogato dal D.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, art. 12, comma 7, conteneva il regolamento di semplificazione, tra l’altro, dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l’ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi.

Tale locuzione è stata intesa dalla giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Lombardia Milano, sez. II 14/11/2012 n. 2750; T.A.R. Abruzzo Pescara, sez. I, 07/11/2007, n. 875; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 24/3/2005, n. 160) come inclusiva degli impianti relativi a tutte le attività di produzione di beni e servizi, ossia le attività di impresa di cui all’art. 2082 c.c., ivi incluse le attività agricole, commerciali e artigiane, le attività turistiche e alberghiere, i servizi resi dalle banche e dagli intermediari finanziari, i servizi di telecomunicazioni, in forza del disposto del D.P.R. n. 447 del 1998, art. 1, comma 1 bis, aggiunto dal D.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440, art. 1.

L’art. 5 del citato regolamento (oggi trasposto nel D.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, art. 8, con espressa esclusione delle procedure afferenti alle medie e grandi strutture di vendita di cui al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, artt. 8 e 9 o alle relative norme regionali di settore) prevedeva che qualora il progetto presentato fosse in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richiedesse una sua variazione, il responsabile del procedimento rigettasse l’istanza; tuttavia, se il progetto era conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro e lo strumento urbanistico non individuava aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste erano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento poteva motivatamente convocare una conferenza di servizi, disciplinata dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 14, come modificato dalla L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente pubblico avviso. Alla conferenza poteva intervenire qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonchè i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell’impianto industriale.

Se l’esito della conferenza di servizi comportava la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituiva proposta di variante sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della L. 17 agosto 1942, n. 1150, si pronunciava definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale, senza che fosse richiesta l’approvazione della regione, le cui attribuzioni erano fatte salve dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 14, comma 3-bis.

2.6. Secondo la condivisibile giurisprudenza dei superiori giudici amministrativi la cosiddetta “variante semplificata”, introdotta nel panorama ordinamentale dal D.P.R. n. 447 del 1998, art. 5, è un istituto alternativo ed eccezionale, che comporta una rilevante deroga al modello ordinario di approvazione di una variazione allo strumento urbanistico, in funzione anticipatoria e sostitutiva delle capacità revisionali delle esigenze di sviluppo del territorio, in attuazione dell’interesse pubblico ad assecondare con prontezza insediamenti produttivi. La variante semplificata di cui al D.P.R. n. 447 del 1998, art. 5, ha carattere eccezionale e derogatorio e non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale e l’interpretazione applicativa della norma deve essere ristretta a quanto espressamente previsto o ad esso facilmente riconducibile, che non può estendersi a situazioni ulteriori e diverse da quelle contemplate dalla legge (Consiglio di Stato, Sez. IV 12/9/2007 n. 4821; Sez. IV, 08/01/2016, n. 27; Sez. VI, 03/06/2014, n. 2842).

Peraltro l’approvazione del progetto in deroga allo strumento urbanistico vigente, carente della previsione di aree destinate all’insediamento di impianti produttivi, con la predetta procedura della variante semplificata, che inverte l’attività di impulso attribuendola al privato rispetto all’ente pubblico, può attuare una valida deroga agli strumenti urbanistici vigenti nel senso di legittimare l’attività costruttiva altrimenti non consentita e introduce una deroga di carattere generale al piano di fabbricazione.

2.7. In ogni caso, come osserva la stessa ricorrente e risulta ex actis la variante D.P.R. n. 447 del 1998, ex art. 5, in deroga al risalente Piano di fabbricazione è stata approvata quando l’iter del nuovo Piano regolatore generale era ancora in itinere e si è incrociata con esso.

Il parere dell’Assessorato Regionale, che ritenuto l’edificazione in linea con le previsioni del nuovo PRG in itinere è dell’11/7/2005; la Delibera autorizzativa del Consiglio Comunale di Gravina che ha approvato la variante al precedente Piano di fabbricazione, relativa al progetto di centro commerciale ex art. 5 è del 25/7/2005; il nuovo Piano regolatore generale era stato approvato dal Consiglio Comunale con Delib. 4 luglio 2005, n. 51, ma doveva, ovviamente, avere ancora l’approvazione regionale.

All’epoca inoltre non era ancora entrata in vigore la nuova disciplina che vieta la procedura di variante semplificata per le strutture medie e grandi di vendita.

2.9. La sentenza impugnata, a pagina 5, penultimo capoverso, afferma con statuizione che è rimasta indenne dalle censure della ricorrente e che comunque appare ineccepibile, che per la determinazione delle distanze legali nelle costruzioni non occorreva riferirsi, come aveva sostenuto l’appellata IIS, all’epoca del rilascio del titolo edilizio autorizzativo, privo di influenza ai fini privatistici, ma alla data della costruzione.

All’epoca della costruzione, secondo la Corte territoriale e il consulente tecnico sulla cui relazione si è fondata la decisione, pacificamente era in vigore il nuovo Piano regolatore generale (affermazione anche questa indenne da censure); la normativa in materia di distanze contenuta nel nuovo Piano regolatore generale, integratrice delle disposizioni del codice civile è stata applicata dalla Corte di appello.

Nel rapporto civilistico fra privati non rileva la liceità urbanistica edilizia della costruzione sancita dal rilascio dell’autorizzazione, che non può pregiudicare i diritti dei terzi (Sez. 2, n. 9869 del 14/05/2015, Rv. 635492 – 01; Sez. U, n. 13673 del 16/06/2014, Rv. 631630 – 01); inoltre la regolarità edilizia garantita dalla autorizzazione edilizia, in questo caso concessa con la procedura di variante semplificata, non comporta la legittimità del mancato rispetto delle distanze delle costruzioni nel rapporto privatistico con il vicino.

Neppure la ricorrente deduce che la variante esonerasse dal rispetto delle distanze nelle costruzioni; in ogni caso quand’anche la variante semplificata fosse stata capace di realizzare una valida modifica delle norme regolamentari vigenti (Piano di fabbricazione preesistente) all’epoca della costruzione pacificamente era già vigente il nuovo Piano regolatore recante le norme integrative del codice civile in tema di distanze nelle costruzioni, per loro natura generali ed astratte e idonee a disciplinare le modalità edificatorie nell’intero territorio comunale, che sono state applicate dalla Corte territoriale.

Le norme degli strumenti urbanistici integrano la disciplina dettata dal codice civile nelle materie regolate dagli artt. 873 c.c. e segg., ove tendano ad armonizzare l’interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico del territorio con l’interesse privato relativo ai rapporti intersoggettivi di vicinato, sicchè vanno incluse in tale novero le disposizioni del piano regolatore generale dell’ente territoriale che stabiliscano la distanza minima delle costruzioni dal confine del fondo e non tra contrapposti edifici (cfr. Sez. un. 24/9/2014, n. 20107).

Non può quindi ritenersi che attraverso l’approvazione della variante semplificata e del progetto edilizio, il Comune, oltre ad autorizzare l’insediamento progettato, gli abbia consentito di derogare alle regole generali in tema di distanze con cui, in funzione integrativa della disciplina codicistica, ha inteso disciplinare l’attività costruttiva sul suo territorio, in modo generale ed astratto.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denuncia, in subordine, omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti con riferimento alla circostanza, oggetto del precedente secondo motivo di ricorso, del fondamento dell’intervento urbanistico di IIS esclusivamente nel progetto di variante del D.P.R. n. 447 del 1998, ex art. 5.

Il motivo è inammissibile perchè non attiene al mancato esame di un fatto storico decisivo, ma semmai alla mancata applicazione di una norma di legge, esaminata e decisa con la delibazione del precedente secondo motivo di ricorso.

Inoltre la ricorrente non chiarisce quando e come la questione sia stata oggetto di discussione fra le parti e si limita, genericamente, a sostenere che si trattava di “circostanza ampiamente dedotta” (ricorso, pag. 14), dopo aver evidenziato il tenore di vari documenti relativi alla predetta variante semplificata, ma non il contenuto degli atti difensivi attinenti alla “discussione” della questione.

4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, il ricorrente denuncia nullità del procedimento di appello per violazione dell’art. 112 c.p.c..

4.1. Secondo la ricorrente, la domanda principale di demolizione parziale del muro, respinta in primo grado, con statuizione non impugnata dalla appellante, e non riproposta in secondo grado, era passata in cosa giudicata e ciò avrebbe determinato il passaggio in giudicato della sentenza anche in relazione alla domanda subordinata di arretramento del muro, che si fondava, al pari della prima, sullo stesso presupposto logico giuridico, ossia su di una illecita edificazione di un muro di confine.

4.2. La tesi della ricorrente è palesemente infondata.

La sig.ra G. ha coltivato con l’appello la sola domanda subordinata (di arretramento e non di demolizione parziale del muro), pur basata sullo stesso presupposto logico giuridico della illegittimità dell’erezione del manufatto a distanza inferiore a quella legale; in tal modo sulla base della stessa causa petendi, ha circoscritto il petitum, ma non ha prestato alcuna acquiescenza alla pronuncia di primo grado circa la legittimità della costruzione, invece puntualmente avversata con l’atto di appello.

Non può quindi ravvisarsi la formazione del giudicato interno in un caso, come il presente, in cui la parte soccombente abbia impugnato la sentenza di primo grado, coltivando la sola domanda subordinata fondata sugli stessi presupposti di fatto e di diritto della domanda principale non riproposta.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate nella somma di Euro 7.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 3 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2020

 

 

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