Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19824 del 22/09/2020

Cassazione civile sez. I, 22/09/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 22/09/2020), n.19824

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28577/2017 proposto da:

V.A.M.G., elettivamente domiciliata in Roma, Viale

Angelico 38, presso lo studio dell’avvocato Sinopoli Vincenzo,

rappresentata e difesa dagli avvocati Lovelli Alfredo, Lovelli

Angelo Raffaele, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Taranto 95,

presso lo studio dell’avvocato Compagno Daniela, rappresentato e

difeso dagli avvocati Motolese Giovanni, Quaranta Ciro Antonio,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 280/2017 della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. di

TARANTO, depositata il 28/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/01/2020 da Dott. FIDANZIA ANDREA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato Lovelli Alfredo per il ricorrente, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito l’Avvocato Motolese Giovanni per il controricorrente, che ha

chiesto il rigetto.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 28 luglio 2017 la Corte d’Appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – rigettando l’appello proposto da V.A.M.G., ha confermato la sentenza del 19 maggio 2014 con cui il Tribunale di Taranto ha giudizialmente accertato che M.A. era figlio di V.C..

La Corte d’Appello ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado secondo cui le prove raccolte (consulenza immunogenetica, deposizioni di testi non legati da vincoli di parentela e/o affinità, verbale di testamento olografo) integrano plurimi indizi gravi, precisi e concordanti nell’unico senso che M.A. è figlio di V.C..

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione V.A.M.G. affidandolo a due motivi.

M.A. si è costituito in giudizio con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo V.A.M.G. ha dedotto la violazione e falsa applicazione del R.D. 8 maggio 1927, n. 798, art. 9, artt. 190 e 191 c.c. del Regno d’Italia, D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, art. 269 c.c., D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta la ricorrente che nel bilanciamento dei contrapposti interessi del figlio di accedere alle informazioni sulle proprie radici e della madre all’anonimato, deve attribuirsi prevalenza al secondo ove la scelta iniziale dell’anonimato non sia stata revocata.

Peraltro, nell’ipotesi in cui la madre sia morta e non abbia mai revocato la scelta dell’anonimato, il diritto del figlio di conoscere le generalità della madre non può più essere esercitato, anche perchè il legislatore ha fissato in cento anni il termine per l’accesso ai dati.

Ne consegue l’inammissibilità della domanda proposta dal sig. M..

2. Il primo motivo non è fondato.

Va preliminarmente osservato che il diritto della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto – invocato, nel caso di specie, dalla ricorrente per impedire l’accertamento giudiziale della maternità nei confronti della propria madre premorta – trova il proprio riconoscimento nel nostro ordinamento in una pluralità di norme che, integrandosi tra loro, ne consentono la tutela nel modo più ampio:

– il D.P.R. 3 novembre 2000, art. 30, comma 1, secondo cui “la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”;

– il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, comma 1 (codice in materia di dati personali), secondo cui “il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”;

– La L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, secondo cui “L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”;

– l’allegato del D.M. 16 luglio 2001, n. 349, prescrive in caso di donna che vuole partorire in anonimato (figlio non riconosciuto o di filiazione ignota) che si deve indicare il codice 999 per “Donna che non vuole essere nominata”.

Il diritto della madre all’anonimato è stato oggetto anche di un intervento della Consulta, che nella sentenza n. 278/2013, nel riconoscerne il fondamento costituzionale, ha evidenziato che riposa sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perchè la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili. La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per se stessa, la genitorialità naturale.

Se è pur vero che nella stessa sentenza sopra citata la Corte Costituzionale ha cercato di conciliare l’esigenza di riservatezza della identità della madre con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini (riconosciuto dall’art. 8 CEDU per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 25 settembre 2012, Godelli contro Italia), giungendo a dichiarare costituzionalmente illegittimo la L. n. 184 del 1983, art. 28 comma 7, come sostituito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre (che ha dichiarato di non voler essere nominata) su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, tuttavia, tale statuizione non ha affatto inteso comprimere in alcun modo la pienezza del diritto all’anonimato riconosciuto alla madre. E’ stata, infatti, da un lato, contemplata la possibilità di revoca di tale scelta solo se ciò corrisponde alla reale volontà della stessa genitrice, e, dall’altro, è stato correttamente rilevato che la previsione della irreversibilità della scelta può non corrispondere affatto all’effettivo interesse della stessa madre, venendosi sostanzialmente ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione, “trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio”.

Nell’esame degli interessi che vengono in considerazione nel presente procedimento, non secondario rilievo deve, d’altra parte, attribuirsi anche al diritto (nel caso di specie rivendicato dal controricorrente) all’accertamento dello status filiationis.

In particolare, questa Corte ha già statuito (vedi Cass. n. 24292/2016; conf. Cass. n. 11887/2015, Cass. n. 4020/2017) che “il diritto del figlio ad uno “status” filiale corrispondente alla verità biologica costituisce una delle componenti più rilevanti del diritto all’identità personale che accompagna senza soluzione di continuità la vita individuale e relazionale non soltanto nella minore età, ma in tutto il suo svolgersi. L’incertezza su tale “status” può determinare una condizione di disagio ed un “vulnus” allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità riferibile ad ogni stadio della vita. La sfera all’interno della quale si colloca il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente a verità attiene al nucleo dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU) intesi nella dimensione individuale e relazionale”. Con tali articolate e condivisibili argomentazioni questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., sollevata in quel giudizio dalla parte ricorrente, che aveva lamentato che la previsione di imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale della paternità o maternità, escluderebbe qualsiasi possibilità di valutazione da parte del giudice della domanda di dichiarazione giudiziale nei casi in cui l’azione sia proposta con notevole ritardo (in quella fattispecie circa quaranta anni), con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, imponendogli a distanza di molto tempo un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessato avrebbe potuto richiedere prima.

In realtà, proprio la previsione della imprescrittibilità dell’azione di accertamento giudiziale sia della maternità che della paternità – unitamente a quella che la prova può essere data con ogni mezzo, a norma dell’art. 269 c.c., comma 2 – dimostra come il legislatore abbia inteso assicurare una piena tutela a tale diritto, riconoscendo l’interesse all’accertamento dello status di filiazione corrispondente alla verità biologica, in quanto componente essenziale del diritto all’identità personale, in ogni momento della vita di una persona e quindi anche in età adulta.

Deve, tuttavia, osservarsi che, ad avviso di questa Collegio, nel bilanciamento dei valori di rango costituzionale che si impone all’interprete, al cospetto del diritto al riconoscimento dello status di filiazione, quello della madre a mantenere l’anonimato al momento del parto si ponga comunque in posizione preminente. Quest’ultimo diritto, infatti, come sopra già evidenziato, è finalizzato a tutelare i beni supremi della salute e della vita, oltre che del nascituro, della madre, la quale potrebbe essere indotta a scelte di natura diversa, fonte di possibile forte rischio per entrambi, ove, nel momento di estrema fragilità che caratterizza il parto, la donna che opta per l’anonimato avesse solo il dubbio di poter essere esposta, in seguito, ad un’azione di accertamento giudiziale della maternità.

Dunque, in tale prospettiva e per garantire ampia tutela alla donna che compie tale difficile scelta, il diritto all’anonimato non può essere in alcun modo sacrificato o compresso per tutta la durata della vita della madre.

Tale regola può essere, al limite, derogata (consentendo quindi l’esercizio dell’accertamento giudiziale della maternità) solo ove fosse stata proprio la madre – come, peraltro, è accaduto nel caso che forma oggetto del presente procedimento – con la propria inequivocabile condotta, ad aver manifestato la volontà di revocare nei fatti la scelta, a suo tempo presa, di rinuncia alla genitorialità giuridica, accogliendo nella propria casa il bambino come un figlio.

Tuttavia, al di fuori del caso limite sopra enunciato, la tutela del diritto all’anonimato della madre, per tutta la durata della vita della stessa, deve essere, come detto, massima.

A diverse conclusioni si deve, invece, addivenire con riferimento al periodo successivo alla morte della madre, in relazione al quale il diritto all’anonimato in oggetto è suscettibile di essere compresso, o indebolito, in considerazione della necessità di fornire piena tutela – a questo punto – al diritto all’accertamento dello status di filiazione.

E’ pur vero che questa Corte, con la sentenza n. 22838/2016, ha espressamente affermato che ogni profilo di tutela dell’anonimato non si esaurisce con la morte della madre, non dovendosi escludere la protezione dell’identità “sociale” costruita in vita da quest’ultima, in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato (e proprio in relazione a tale esigenza è stato statuito che il trattamento delle informazioni relative alle origine del figlio deve essere circondato da analoghe cautele e in modo corretto e lecito, senza cagionare danno anche non patrimoniale all’immagine, alla reputazione, e ad altri beni di primari rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati, come discendenti e/o familiari).

Tuttavia, non vi è dubbio che, in relazione a quanto sopra illustrato con riferimento all’ampiezza del diritto all’accertamento dello status di figlio naturale, nel bilanciamento dei valori di rango costituzionale che si impone all’interprete per il periodo successivo alla morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l’anonimato non può che essere recessiva rispetto a quella del figlio che rivendica il proprio status.

In conclusione, venendo meno per effetto della morte della madre, l’esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell’anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione (come affermato da Cass. 15024/2016 e Cass. 22838/2016), ma anche per la proposizione dell’azione volta all’accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c..

Tale soluzione si impone anche per una lettura costituzionalmente orientata della norma sopra citata – alla luce degli artt. 2 e 30 Cost., ma anche art. 24 Cost. – oltre che internazionalmente orientata (art. 117 Cost.). In proposito, l’art. 8 CEDU, nella lettura datane dalla Corte EDU (Corte EDU, 22/09/2012, Godelli c. Italia, Corte EDU, 13/02/2003, Odievre c. Francia), tende essenzialmente a premunire l’individuo contro ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non contentandosi di ordinare allo Stato di astenersi da simili ingerenze, ma aggiungendovi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata; tra questi non può non rientrare il diritto a proporre le azioni che lo stesso ordinamento nazionale offre per il riconoscimento dello status di figlio naturale di una persona.

Ne consegue che, nel caso di specie, l’azione di accertamento giudiziale della maternità proposta da M.A. dopo il decesso della madre è pienamente ammissibile per due ordini di ragioni:

– è stata proposta dopo che il diritto della madre premorta a mantenere l’anonimato si era, per le ragioni sopra illustrate, indebolito;

– in ogni caso, è stata proposta per ottenere l’accertamento della maternità nei confronti di una donna che aveva dimostrato nei fatti – come sarà evidenziato nell’ulteriore corso della trattazione – di aver superato essa stessa l’originaria scelta dell’anonimato, trattando l’odierno controricorrente come uno dei suoi figli.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 269 c.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta la ricorrente che le circostanze di fatto in base alle quali la Corte d’Appello ha accertato il rapporto di filiazione per cui è procedimento sono del tutto diverse rispetto a quelle normativamente richieste, che presuppongono l’accertamento della identità di colui che si pretende essere il figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si assume essere madre.

In particolare, i giudici di merito non hanno accertato lo stato di gravidanza di colei che si sostiene essere madre nei mesi che precedettero la nascita del sig. M., nè che V.C. abbia partorito un figlio nel gennaio 1934.

In mancanza di tali imprescindibili accertamenti, la prova specifica della maternità non è stata conseguita dal richiedente, avendo la Corte d’Appello fondato la decisione su semplici indizi e non su una prova.

4. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che è costante orientamento di questa Corte che, in tema di mezzi utilizzabili per provare la paternità naturale – analogo ragionamento vale per la maternità naturale – l’art. 269 c.c., ammette anche il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'”id quod plerumque accidit”, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità, sicchè risultano utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l’accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di paternità (cd. “tractatus”), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. “fama”), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti (nella specie, madre e fratello) del preteso genitore. (Cass. n. 1279/2014).

Inoltre, il principio della libertà di prova, sancito dal citato art. 269 c.c., comma 2 – e riferibile anche alla maternità naturale – non tollera surrettizie limitazioni, nè mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, nè, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di merito di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del “tipo” di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge (Cass. 6694/2006; Cass. 14976/2007; Cass. 12971/2012; Cass. 3479/2016).

I giudici di merito hanno fatto buon uso di tali principi, accertando il rapporto di filiazione del sig. M. con la sig.ra V. all’esito della valutazione di un complesso di circostanze, quali la consulenza immunogenetica, che ha concluso per un sicuro rapporto di parentela biologica tra i due, nonchè le deposizioni di testi non legati da vincoli di parentela e/o affinità (ad eccezione di uno) con il richiedente, da cui sono emersi sia il “tractatus”, ovvero che sin dalla tenera infanzia il M. era stato trattato dalla V. come uno dei suoi figli (che lo aveva accolto nella propria casa), sia la “fama”, essendo opinione comune in paese che il M. fosse figlio della V., tanto è vero che alla morte di Vi.Ci., figlio di V.C., fu chiamato dai Carabinieri lo stesso M. per il riconoscimento del cadavere, essendo ritenuto dalla comunità “fratello” del defunto.

Non vi è dubbio che le censure della ricorrente – che vuole circoscrivere le circostanze di fatto in base alle quali valutare il rapporto di filiazione a quelle strettamente inerenti alla fase dello stato di gravidanza ed alla nascita – si pongano in netto contrasto con l’art. 269 c.c., comma 2, che consente di provare la maternità con ogni mezzo, oltre ad essere inammissibili, in quanto di merito, essendo finalizzate a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito e ad accreditare una diversa ricostruzione della vicenda processuale.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, sussistendo, in ragione della novità delle questioni trattate, giusti motivi per una compensazione integrale delle spese di lite.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Compensa tra le parti le spese di lite.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

“Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a)”.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2020

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