Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19816 del 22/09/2020

Cassazione civile sez. II, 22/09/2020, (ud. 18/02/2020, dep. 22/09/2020), n.19816

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19266/2016 proposto da:

S.G., rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO

CRISTOFERO ALESSI, e domiciliato presso la cancelleria della Corte

di Cassazione;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI PROVINCIA (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso

dall’avvocato DANIELA CASTRONOVO e domiciliato presso la cancelleria

della Corte di Cassazione;

e

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

IN ARCIONE n. 71, presso lo studio dell’avvocato STEFANO D’ERCOLE,

che la rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

COMUNE RIPOSTO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 153/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 26/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

RENZIS Luisa, la quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati ANTONIO CRISTOFERO ALESSI per parte ricorrente,

che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, e gli avvocati

DANIELA CASTRONOVO per il controricorrente I.A.C.P. e NICOLA

PALOMBI, in sostituzione dell’avvocato STEFANO D’ERCOLE, per R.F.I.

S.P.A., i quali hanno concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.G. conveniva in giudizio Rete Ferroviaria Italiana S.p.a. innanzi al Tribunale di Catania, sezione distaccata di Giarre, esponendo di aver posseduto per oltre vent’anni un alloggio siti in (OMISSIS) ed invocando l’accertamento dell’intervenuto acquisto in suo favore della proprietà di detto bene per usucapione.

Si costituiva in giudizio la società convenuta, chiedendo di essere autorizzata alla chiamata in causa dello I.A.C.P. di (OMISSIS) e del Comune di Riposto, resistendo alla domanda ed invocando la condanna dello I.A.C.P. da un lato a tenerla indenne dalle conseguenze negative dell’eventuale accoglimento della domanda, e dall’altro lato a risarcire il danno causato alla predetta R.F.I. per effetto della mancata acquisizione della proprietà superficiaria delle aree su cui insistevano gli immobili di cui è causa. Invocava inoltre l’emissione di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., produttiva degli effetti della convenzione che lo I.A.C.P. avrebbe dovuto stipulare con il Comune di Riposto, con trasferimento all’odierno ricorrente della proprietà dell’immobile dietro obbligo dello stesso di versarne il corrispettivo ad essa R.F.I..

Si costituiva in giudizio lo I.A.C.P., a seguito della sua chiamata in causa, eccependo la prescrizione delle pretese vantate da R.F.I. e resistendo comunque alla domanda attorea. Rimaneva invece contumace il Comune di Riposto.

Con sentenza n. 19/2012 il Tribunale accoglieva la domanda di parte attrice, dichiarando l’intervenuto acquisto per usucapione, in capo a quest’ultima, della proprietà del bene immobile e rigettando le domande proposte da R.F.I. nei confronti di I.A.C.P..

Interponeva appello avverso detta decisione R.F.I. e si costituivano in seconde cure l’originario attore e lo I.A.C.P., con separate difese, resistendo al gravame. Rimaneva invece contumace anche in secondo grado il Comune di Riposto.

Con la sentenza oggi impugnata, n. 153/2016, la Corte di appello di Catania accoglieva in parte l’impugnazione, rigettando la domanda di usucapione originariamente proposta dall’attore in prime cure e confermando, nel resto, la decisione del Tribunale. La Corte territoriale basava la propria decisione sulla ritenuta natura patrimoniale indisponibile del bene immobile oggetto di causa, e sulla conseguente impossibilità dell’acquisto per usucapione di diritti reali sul medesimo.

Propone ricorso avverso detta decisione S.G., affidandosi a quattro motivi.

Resistono con separati controricorsi R.F.I. e I.A.C.P. Il Comune di Riposto non ha invece svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

La parte controricorrente R.F.I. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Per motivi di pregiudizialità logico-giuridica va innanzitutto scrutinato il terzo motivo, con il quale il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 342 e 343 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di appello avrebbe omesso di rilevare la genericità dell’impugnazione proposta da R.F.I. e la conseguente formazione del giudicato interno sulla statuizione di primo grado che aveva accertato l’intervenuto acquisto per usucapione del bene immobile in favore del ricorrente.

La censura è inammissibile perchè non riproduce il testo dell’atto di appello del quale si eccepisce la genericità. In argomento, va ribadito che “Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012, Rv. 622361-01). Ne deriva che il ricorrente aveva l’onere di riportare, nel motivo di censura, quantomeno i punti salienti dell’atto di impugnazione che assumeva esser privo del requisito di specificità.

Passando agli altri motivi, con il primo di essi il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 934 c.c. e della L. n. 605 del 1966, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che l’immobile oggetto di causa appartenesse al patrimonio indisponibile del Comune di Riposto. Ad avviso del ricorrente il giudice di secondo grado avrebbe dovuto valorizzare la circostanza che l’ente locale, con Delib. 22 marzo 1978, n. 70, aveva approvato “… il programma costruttivo da realizzare a cura dell’Iacp di (OMISSIS) per conto dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato, localizzato nell’ambito delle zone residenziali di edilizia pubblica …” espressamente rinunciando, in favore della predetta Azienda Autonoma, ad avvalersi del diritto di accessione di cui all’art. 934 c.c.. Per effetto di tale rinuncia unilaterale la proprietà degli edifici realizzati da IACP sulle aree destinate alla realizzazione di interventi di edilizia pubblica non si sarebbe mai consolidata in capo all’ente locale, e quindi i predetti beni non sarebbero mai entrati a far parte del patrimonio indisponibile dell’ente pubblico.

La censura è infondata.

Il ricorrente ha proposto azione per ottenere l’accertamento del proprio diritto di proprietà per intervenuta usucapione di un immobile compreso in un intervento di edilizia pubblica, che gli era stato assegnato con patto di futura vendita ai sensi di quanto previsto della L. n. 605 del 1966, artt. 6 ed 8. La Corte di appello ha ritenuto – richiamando i precedenti di questa Corte in materia di alloggi edificati con il contributo pubblico per le ricostruzioni post-terremoto – che la declassificazione del bene immobile e quindi il suo passaggio dal patrimonio indisponibile a quello disponibile dell’ente pubblico, e poi da quest’ultimo in favore del privato, avvenga soltanto alla conclusione del procedimento di assegnazione, e non prima, in funzione della natura unitaria e delle finalità del procedimento stesso.

In argomento, occorre prendere le mosse dal principio per cui “In materia di beni immobili, ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 830 c.c. e art. 828 c.c., comma 2, i beni del patrimonio indisponibile di un ente pubblico non territoriale possono essere sottratti alla pubblica destinazione soltanto nei modi stabiliti dalla legge, e quindi certamente non per effetto di usucapione da parte di terzi, non essendo usucapibili diritti reali incompatibili con la destinazione del bene dell’ente al soddisfacimento del bisogno primario di una casa di abitazione per cittadini non abbienti” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12608 del 28/08/2002, Rv. 557167).

Detto principio generale è stato ribadito da questa Corte in relazione alle ricostruzioni post-terremoto. Sul punto, si è infatti affermato che “Con riguardo agli alloggi costruiti con il contributo dello Stato in conseguenza di terremoti per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite dagli eventi sismici, la L. 30 marzo 1965, n. 225, art. 1, che ne prevede la cessione in proprietà, non declassifica in maniera automatica, nè espressamente, nè implicitamente, tali beni, ma si limita a disciplinarne l’assegnazione ai privati, la quale soltanto determina, in una con l’effetto traslativo, la perdita della qualità pubblica degli alloggi stessi. Ne consegue che questi ultimi, restando soggetti al regime del patrimonio indisponile fino alla conclusione del procedimento di assegnazione, non sono suscettibili di formare oggetto di usucapione della proprietà da parte dei soggetti occupanti”. Pertanto “La declassificazione dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile, la cui destinazione all’uso pubblico deriva da una determinazione legislativa, deve avvenire in virtù di atto di pari rango, e non può, dunque, trarsi da una condotta concludente dell’ente proprietario, postulando la cessazione tacita della patrimonialità indisponibile, così come della demanialità, che il bene abbia subito un’immutazione irreversibile, tale da non essere più idoneo all’uso della collettività, senza che a tal fine sia sufficiente la semplice circostanza obiettiva che detto uso sia stato sospeso per lunghissimo tempo. Ne consegue che, con riguardo agli alloggi costruiti a carico dello Stato per far fronte alle esigenze delle popolazioni colpite da eventi sismici, la cui inclusione nell’ambito del patrimonio indisponibile si ricava dagli artt. da 252 a 255 del Testo Unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica, deve escludersi la stessa ipotetica configurabilità di una declassificazione tacita per effetto dell’attività concludente posta in essere dall’ente proprietario, nonchè la possibilità che questa abbia anche soltanto innescato la sospensione dell’uso pubblico” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2962 del 27/02/2012, Rv. 621582-01 e Rv. 621582-02).

Identico principio è stato applicato anche in materia di riforma fondiaria. In proposito “I terreni acquistati dagli enti di riforma fondiaria, essendo destinati all’attuazione della funzione istituzionale dei medesimi, ossia quella della redistribuzione della proprietà terriera ai contadini, come stabilito dalla L. n. 230 del 1950, art. 1, non possono, in quanto destinati a un pubblico servizio, essere sottratti a tale finalità se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, ai sensi dell’art. 830 c.c., comma 2 e art. 828 c.c., comma 2; ne consegue l’impossibilità giuridica di una loro acquisizione da parte di terzi per usucapione, ancorchè sia venuto a scadenza il termine ordinatorio previsto dalla medesima L. n. 230 del 1950, art. 20, per l’assegnazione delle terre acquisite” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4430 del 24/02/2009 Rv. 607041).

Anche in materia di alloggi ex INA-casa, si è ritenuto che “Gli assegnatari di alloggi INA-casa fino alla stipulazione del contratto di compravendita sono titolari di un rapporto di locazione, e, come tali, sono dei detentori e non dei possessori dell’immobile. Pertanto, se intendano trasformare la detenzione in possesso, devono necessariamente compiere dei validi Atti di interversione nei confronti dell’INA-casa” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4079 del 18/06/1986, Rv. 446886).

Dai precedenti appena richiamati consegue l’affermazione del principio per cui allorquando lo Stato, o altro ente pubblico, intervenga nel settore della proprietà, fondiaria o urbana, per assicurare il soddisfacimento di un interesse pubblico primario, quali l’esigenza di ridistribuzione della proprietà agraria (nel caso della L. n. 230 del 1950) ovvero l’assicurazione di una casa di abitazione per i cittadini non abbienti (nel caso dell’assegnazione degli alloggi di edilizia economica e popolare, nelle sue varie forme ed articolazioni) o ancora la ricostruzione post-terremoto (nel caso di cui alla L. n. 225 del 1968) la finalità perseguita assume una valenza primaria e prevalente rispetto alla posizione individuale di eventuali soggetti che si pongano in una mera relazione di fatto con la cosa. Pertanto il bene immobile interessato dall’intervento pubblico permane nel patrimonio indisponibile dell’ente, e non è quindi usucapibile a vantaggio del privato, sino all’intervenuto completamento dei diversi procedimenti amministrativi finalizzati alla realizzazione dell’interesse pubblico in concreto perseguito. Del resto, ove si accogliesse la soluzione inversa la stessa finalità pubblica dell’intervento rischierebbe di essere frustrata, in concreto, da eventuali ritardi nei procedimenti predetti.

Soltanto nei casi in cui l’intervento progettato non abbia avuto seguito, e non si sia quindi realizzato in concreto l’asservimento del bene alla finalità pubblica perseguita, può configurarsi una reviviscenza dell’interesse individuale rispetto a quello generale. In tal senso, in una fattispecie in cui un soggetto aveva agito per l’accertamento dell’intervenuta usucapione di un terreno destinato dal piano regolatore generale ad uso pubblico, sul presupposto che al momento dell’inizio del possesso utile all’usucapione fossero trascorsi più di dieci anni senza che del fondo vi fosse stata alcuna concreta utilizzazione, si è affermato che “L’appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile di un ente territoriale discende non solo dalla esistenza di un atto amministrativo che lo destini ad uso pubblico, ma anche dalla concreta utilizzazione dello stesso a tale fine, la cui mancanza deve essere desunta dalla decorrenza, rispetto all’adozione dell’atto amministrativo, di un periodo di tempo tale da non essere compatibile con l’utilizzazione in concreto del bene a fini di pubblica utilità” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26402 del 16/12/2009, Rv. 610544).

Allo stesso modo, quando il bene sia ab origine compreso nel patrimonio disponibile dello Stato e sia stato fatto oggetto di utilizzazione uti domini da parte di un privato, che se ne sia impossessato occupandolo per sopperire ad esigenze abitative primarie conseguenti ad eventi bellici (nella fattispecie, si trattava di una occupazione risalente al 1946) ed abbia provveduto alla realizzazione degli impianti di cui il bene era inizialmente privo, rendendolo abitabile, senza alcuna opposizione da parte della P.A. per oltre cinquant’anni, “… il potere di fatto dagli stessi esercitato corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà (presumendosi l’animus possidendi, indipendentemente dall’effettiva esistenza del relativo diritto o dalla conoscenza del diritto altrui) non può considerarsi viziato per contrasto con la volontà della P.A., dal momento che il comportamento accondiscendente della stessa Amministrazione, tenuto durante tutto il lungo periodo trascorso del possesso esercitato, in relazione ad un bene del suo patrimonio disponibile, è idoneo a dimostrare, per facta concludentia, la volontà di non opporsi all’altrui possesso” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5158 del 10/03/2006, Rv. 587175).

Il punto di equilibrio del sistema è quindi rappresentato da un lato dall’individuabilità di un interesse pubblico di portata generale, alla cui realizzazione sia finalizzato l’intervento dello Stato o altro ente pubblico nel settore della proprietà, urbana o fondiaria. Laddove tale interesse sia configurabile, esso tendenzialmente prevale sulla posizione del privato, titolare di un rapporto di fatto con la res compresa nell’intervento stesso. Dall’altro lato, tuttavia, l’interesse della P.A. al bene immobile deve manifestarsi in un tempo congruo, e quindi laddove il progettato intervento non abbia mai avuto inizio, ovvero il bene sia stato de facto abbandonato da tempo immemore dall’ente pubblico, non ha più ragion d’essere la soggezione della posizione individuale rispetto ad un interesse pubblico che, in concreto, non si è mai realizzato.

Nel caso di specie è pacifico che l’attore sia stato immesso nel possesso dell’immobile a seguito di assegnazione dello stesso con patto di futura vendita, avvenuta il 5.11.1982 (cfr. pag. 8 del ricorso). Del pari pacifico è che l’immobile sia stato realizzato dallo I.A.c.p. di (OMISSIS) nell’ambito di un intervento costruttivo da realizzare, ai sensi della L. n. 605 del 1966 e dei D.M. Trasporti e Aviazione Civile 26 novembre 1969, n. 29941 e D.M. Trasporti e Aviazione Civile 26 luglio 1972, n. 7078, per conto dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato (oggi, R.F.I. S.p.A.); che detto intervento edilizio, approvato dal Comune di Riposto con Delib. 22 marzo 1978, n. 70, prevedeva l’assegnazione delle aree interessate da parte dell’ente locale, con concessione del diritto di proprietà superficiaria alla predetta Azienda Autonoma; che l’assegnazione suddetta avrebbe dovuto realizzarsi mediante apposita convenzione da stipularsi tra Comune e Azienda Autonoma, mai conclusa (cfr. pagg. 11 e 12 del ricorso). Di conseguenza, il procedimento complesso previsto dalla L. n. 605 del 1966 e dalla Delib. Comune di Riposto n. 70 del 1978, non si è mai ultimato e, quindi, la proprietà superficiaria delle aree interessate dall’edificazione di cui è causa non è mai transitata dal patrimonio indisponibile del Comune al patrimonio, evidentemente disponibile, dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato (oggi, R.F.I. S.p.A.). Essendo dunque rimaste, dette aree, nel patrimonio indisponibile del Comune, la Corte di appello ne ha – del tutto correttamente – esclusa in radice la usucapibilità.

A quanto precede va aggiunta la doverosa considerazione che, anche nei rapporti tra privati, è ormai pacifico il principio per cui “Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Pertanto la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem, salvo la dimostrazione di un’intervenuta interversio possessionis nei modi previsti dall’art. 1141 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1296 del 25/01/2010, Rv. 611222; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9896 del 26/04/2010, Rv. 612577; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016, Rv. 639209). Quindi in ogni ipotesi in cui si configuri un titolo di legittimazione del rapporto di fatto costituito tra un soggetto ed un bene, anche in relazione ad un progettato trasferimento della proprietà di un immobile che poi non venga, per qualsiasi ragione, portato a termine, non v’è spazio per ipotizzare una situazione di possesso, e quindi non si realizza una fattispecie astrattamente idonea ad usucapionem, a meno che il detentore non compia, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1141 c.c., un atto di interversione idoneo, appunto, a trasformare la sua condizione di mera detenzione in possesso.

Nel caso di specie è pacifico che non si sia realizzato alcun atto di interversione del possesso, poichè la stessa parte ricorrente collega il suo preteso acquisto della proprietà per usucapione direttamente alla circostanza che il Comune di Riposto abbia rinunciato ad avvalersi del diritto di accessione con la Delib. n. 70 del 1978 e non ad un atto successivo. Una volta appurato, dunque, che quella deliberazione non è idonea a costituire il momento iniziale del possesso, poichè quest’ultimo non può sorgere se non per effetto, alternativamente, del completamento del procedimento complesso previsto dalla legge (nella specie, mai avvenuto) o di un atto di interversione idoneo ex art. 1141 c.c. (nella specie, mai invocato e comunque non provato), è evidente che nessun possesso utile ad usucapionem può, in concreto, essere configurato in capo all’odierno ricorrente.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di appello avrebbe deciso dando rilievo ad una circostanza (la rinuncia, da parte del Comune, ad avvalersi del diritto di accessione) che non era stata oggetto di specifica impugnazione.

Ad avviso del collegio anche questa censura è infondata. Va infatti considerato che la Delib. Comune di Riposto n. 70 del 1978, costituisce parte del procedimento complesso descritto in occasione dello scrutinio del primo motivo; il suo esame, quindi, era inevitabile nell’ambito della più ampia disamina circa la natura, patrimoniale indisponibile ovvero disponibile, del bene di cui è causa, e quindi circa la sua usucapibilità o inusucapibilità. In argomento, va ribadito che “Non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tuttavia da ritenersi tacitamente proposta per essere in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate, delle quali costituisca l’antecedente logico e giuridico” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 5134 del 12/03/2004, Rv. 571075; Cass. Sez. L, Sentenza n. 2372 del 05/02/2007, Rv. 594671; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 13964 del 23/05/2019, Rv. 654088).

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta infine la violazione dell’art. 2643 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di appello non avrebbe tenuto conto delle risultanze dei registri immobiliari, nei quali la proprietà del bene oggetto di causa risulterebbe in capo a R.F.I. S.p.A. e non al Comune di Riposto. Ad avviso del ricorrente, ciò confermerebbe la natura patrimoniale disponibile dell’immobile, e quindi la possibilità di usucapirne la proprietà.

La censura è inammissibile. A prescindere dal rilievo che “In tema di prova dei diritti reali, la nota di trascrizione, quale documentazione amministrativa, non costituisce nè “atto di parte”, nè valida fonte di prova in ordine al contenuto del titolo cui si riferisce, ma uno degli elementi sui quali il giudice può fondare il proprio convincimento” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14577 del 22/06/2007, Rv. 597984; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20641 del 09/09/2013, Rv. 627919), va evidenziato che la censura difetta comunque della necessaria specificità, poichè il ricorrente fa riferimento ad una questione che sarebbe stata sottoposta all’esame del giudice di merito con “specifica memoria” (cfr. pag. 34 del ricorso), senza tuttavia aver cura di trascrivere detto atto, nè di indicarne il contenuto, nè di precisare il momento processuale in cui esso sarebbe stato depositato.

In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza nei confronti dei due controricorrenti. Nulla invece per il Comune di Riposto, intimato, in assenza di svolgimento di attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200, di cui Euro 200 per esborsi, in favore della controricorrente R.F.I. S.p.A. ed in Euro 6.200, di cui Euro 200 per esborsi, in favore del controricorrente I.A.C.P., oltre rimborso delle spese generali in misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2020

 

 

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