Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19814 del 28/08/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 19814 Anno 2013
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: BLASUTTO DANIELA

SENTENZA

sul ricorso 8049-2011 proposto da:
MONTI ANITA ANGELA GIOVANNA nata ad ATINA il
30/0 3 /1959,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MUGGIA 21, presso lo studio dell’avvocato LIBERATORE
ROBERTO, che la rappresenta e difende, giusta delega
in atti;
– ricorrente –

2013

contro

1709

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA
RICERCA 80185250588 in persona del Ministro pro
tempore,

rappresentato

e difeso dall’AVVOCATURA

Data pubblicazione: 28/08/2013

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex
lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– controricorrente nonchè contro

ROSSI FILOMENA in proprio e quale Direttrice Didattica

FROSINONE già provveditorato agli studi di Frosinone;
– intimati –

avverso la sentenza n. 3711/2009 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 22/03/2010 R.G.N. 2880/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/05/2013 dal Consigliere Dott. DANIELA
BLASUTTO;
udito l’Avvocato RENDINA SIMONA per delega LIBERATORE
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO 2 che ha concluso per
il rinvio a nuovo ruolo, in subordine rigetto del
ricorso.

del Circolo di Atina, CENTRO SERVIZI AMMINISTRATIVI DI

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 22 marzo 2010 la Corte di
appello di Roma confermava la pronuncia di primo grado ) con
Angela Giovanna volta ad ottenere l’accertamento della
responsabilità

solidale del Ministero dell’Istruzione,

dell’Università e della Ricerca,

del Centro Servizi

Amministrativi di Frosinone e di Rossi Filomena, direttrice
didattica dell’Istituto scolastico di Atina dove n la
ricorrente aveva prestato servizio, per i danni conseguenti
a plurime azioni ritenute integrative di mobbing.
Nel respingere il gravame proposto dalla lavoratrice, la
Corte territoriale svolgeva le seguenti considerazioni:
– la vicenda era stata rappresentata con molte valutazioni ed
affermazioni personali irrilevanti ai fini della decisione,
come pure irrilevante era la conflittualità, sicuramente
sussistente, tra l’insegnante e la direttrice Rossi, in
difetto di prova di un intento persecutorio e vessatorio,
tanto più che la Monti, che riteneva di essere più preparata
e che voleva assumere all’interno del corpo insegnanti il
ruolo di “garante” delle regole, più volte aveva suscitato
reazioni accese ed esasperate della Rossi e talvolta, durante
il collegio dei docenti, una protrazione delle riunioni e
l’irritazione delle colleghe;
– delle sessantasei circostanze poste a base della domanda,
all’esito di analitica disamina, molte erano risultate
irrilevanti o addirittura incomprensibili; altre costituivano
una giustificata risposta ai comportamenti inadeguati tenuti
dalla Monti per inosservanza dei doveri di correttezza,
fedeltà e riservatezza propri di un pubblico dipendente;
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Udienza 14 maggio 2013
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cui era stata respinta la domanda proposta da Monti Anita

r.

altre ancora esprimevano un’interpretazione solo soggettiva
di determinati fatti;
– in conclusione, le risultanze dell’istruttoria testimoniale
contro

la

tendenza

personalizzazione, alla

mobbing,

dell’appellante

evidenziando di
all’eccessiva

vis polemica, alla continua censura

dell’operato della direttrice ed anche delle colleghe;
– la consulenza medico-legale d’ufficio aveva evidenziato un
modesto danno biologico (5%), rientrante nel concetto
generale di sofferenza endogena, verosimilmente ascrivibile a
tratti della personalità che condizionavano la percezione che
la ricorrente aveva delle proprie vicende lavorative.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso Monti
Anita Angela Giovanna sulla base di un solo articolato
motivo.
Resiste con controricorso il Ministero dell’Istruzione
dell’Università e della Ricerca.
Il Centro Servizi Amministrativi di Frosinone

e Rossi

Filomena sono rimasti intimati.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con unico motivo, articolato in plurime censure, la
ricorrente denuncia violazione degli artt. 2087 cod. civ.,
115 e 116 cod. proc. civ. e vizio di motivazione (art. 360
cod. proc. civ., nn. 3 e 5) per avere la Corte di appello
trascurato di considerare (a) che l’art. 2087 cod. civ.,
nell’imporre al datore di lavoro di adottare nell’impresa
tutte le misure occorrenti per tutelare l’integrità fisica e
la personalità morale dei prestatori di lavoro, considera tra
le fonti di rischio anche le “costrittività organizzative”,
ossia quelle deficienze della struttura organizzativa
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avevano escluso l’esistenza del

suscettibili di arrecare danni al lavoratore a prescindere da
qualsivoglia intento vessatorio. A tal fine la Corte di
appello avrebbe dovuto esaminare tutta la documentazione
allegata agli atti anziché limitarsi a valutare le sole
dalla

consulenza medico-legale potevano trarsi elementi di

prova indiretta per la riconducibilità del danno al fattore
lavorativo

con procedimento di

inferenza causale.

(c)

Inoltre, procedendo con analisi “atomistica” dei singoli
episodi denunciati, la Corte di appello non aveva colto
l’elemento unificatore attraverso il quale tali episodi
dovevano essere interpretati, da ravvisare nell’intento della
direttrice Rossi di delegittimare l’operato della ricorrente,
che considerava un ostacolo per la sua carriera.
Il ricorso è destituito di fondamento.
Secondo costante orientamento interpretativo di questa
Corte

(ex plurimis,

Cass. 17 febbraio 2009 n. 3785), per

mobbing si intende comunemente una condotta del datore di
lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta
nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente
di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di
prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio
fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini
della configurabilità della condotta lesiva del datore di
lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di
comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in
essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il

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deposizioni testimoniali. (b) Non era stato considerato che

dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della
salute o della personalità del dipendente; c) il nesso
eziologico tra la condotta del datore o del superiore
gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del
dell’intento persecutorio.
La sentenza impugnata non solo ha motivatamente escluso,
con dettagliato esame dei singoli episodi, l’esistenza di
atti a contenuto vessatorio, ma ha rilevato che i fatti
denunciati, molti dei quali comunque irrilevanti o rimasti
indimostrati, avevano assunto solo nella percezione
soggettiva della ricorrente una valenza lesiva della sua
personalità; le risultanze della prova testimoniale,
unitamente a quelle medico-legali espresse nella c.t.u.,
avevano tratteggiato – come motivato in sentenza – un
atteggiamento tendente a personalizzare come ostile ogni
avvenimento e tale da creare tensione nei rapporti di lavoro.
In tale contesto dovevano interpretarsi le iniziative assunte
dalla direttrice, che in taluni casi costituivano veri e
propri atti dovuti in presenza di comportamenti tenuti
dalla ricorrente contrari alle regole organizzative
dell’Istituto o che costituivano condotte non consone al
ruolo ricoperto; in ogni caso, non erano emersi elementi
idonei ad avvalorare la tesi di un intento vessatorio.
Nel ritenere insussistente il

mobbing,

la sentenza

impugnata ha dunque esaminato sia singolarmente, sia nel loro
insieme le condotte che la ricorrente aveva prospettato a
fondamento della domanda ed ha ravvisato – con ragionamento
immune da vizi logici e coerente con le risultanze
istruttorie assunte a fondamento della decisione

principalmente in fattori di ordine soggettivo la ragione

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lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè

della percezione dei fatti e delle vicende lavorative in
senso persecutorio.
In tema di valutazione delle risultanze probatorie, in
base al principio del libero convincimento del giudice, la
apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti
del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma,
numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla
lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di
causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 20 giugno
2006 n. 14267; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707). Il
vizio di motivazione non conferisce alla Corte di legittimità
il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma
solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e
della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta
dal giudice del merito al quale soltanto spetta di
individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale
scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la
concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle
ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v., tra
le più recenti, Cass. n. 6288 del 18/03/2011).
Del percorso argomentativo seguito dal giudice di appello
non sono state denunciate incoerenze argomentative o
contraddizioni, dovendosi osservare che il vizio di
motivazione che giustifica la cassazione della sentenza
sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti
lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire
l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della
decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far
valere il contrasto della ricostruzione con quella operata
dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati

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violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è

di un valore e di un significato difformi rispetto alle
aspettative e deduzioni delle parti (Cass. 26 gennaio 2007 n.
1754).
Né sono fondate

le doglianze di omesso o insufficiente

In particolare, l’esistenza di una presunta “costrittività
organizzativa” costituisce un assunto di parte privo di
fondamento oggettivo, avendo la sentenza impugnata
motivatamente escluso l’esistenza di fattori ambientali che
potessero integrare una responsabilità dell’amministrazione
scolastica per violazione dell’art. 2087 cod. civ..
Quanto alle doglianze di omesso esame: a) dei verbali
delle riunioni collegiali; b) delle indicazioni scaturenti
dalla c.t.u. medico-legale dalle quali potere argomentare, in
via di inferenza logica, la prova del nesso causale tra il
danno accertato e il comportamento del datore di lavoro,
trattasi di censure inammissibili.
Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con
quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio
di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze
processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare
l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il
convincimento si è formato, onde la “ratio decidendi” venga a
trovarsi priva di base. Al riguardo è sufficiente osservare
che per poter configurare il vizio di motivazione su un
asserito punto decisivo della controversia è necessario un
rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume
trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da
far ritenere che quella circostanza, se fosse stata
considerata, avrebbe portato ad una decisione diversa.

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esame di fatti decisivi.

Nella specie, il ricorso è carente sotto l’indicato aspetto
in quanto non riporta il contenuto specifico degli atti
processuali cui si fa riferimento nella censura in esame e
non fornisce alcun dato valido per ricostruire, sia pure per
asseritamente trascurati e decisivi ai fini del decidere. Per
entrambe le fonti di prova vi è un difetto di
autosufficienza del ricorso.
Inoltre, come affermato da questa Corte nella sentenza 22
febbraio 2010 n. 4101, in tema di ricorso per cassazione per
vizio di motivazione, la parte che intende far valere in sede
di legittimità un motivo di ricorso fondato sulle risultanze
della consulenza tecnica espletata in grado di appello è
tenuta – in ossequio al principio di autosufficienza del
ricorso – ad indicare se la relazione cui si fa riferimento
sia presente nel fascicolo di ufficio del giudizio di merito
(specificando, in tal caso, gli estremi di reperimento della
stessa), ovvero a chiarire alla Corte il diverso modo in cui
essa possa essere altrimenti individuata, non potendosi
affidare al giudice di legittimità il compito di svolgere
un’attività di ricerca della relazione, in sede decisoria,
senza garanzia del contraddittorio ed in violazione del
principio costituzionale di ragionevole durata del processo.
Per il resto, le deduzioni svolte in ricorso si risolvono
in un diverso apprezzamento, inammissibile nei termini in cui
è proposto, degli esiti dell’accertamenti tecnici svolti dal
Consulente d’ufficio, il quale ebbe a concludere – come dà
atto la sentenza impugnata – affermando che l’accertato
modesto danno biologico (5%) rientrava “nel concetto generale
di sofferenza endogena senza riflessi causali con altri fatti
o eventi”.

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sintesi, i dati fattuali emergenti dai verbali e dalla c.t.u.

Conclusivamente, sono privi di fondamento sia i prospettati
errores in iudicando,

sia il vizio motivazionale.

Il rigetto dell’impugnazione comporta la condanna di parte
costituito,

alla

rifusione,

in

favore del Ministero

delle spese del giudizio di legittimità,

liquidate nella misura indicata in dispositivo.
Nulla va disposto quanto alle spese nei confronti delle
parti rimaste intimate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento, in favore del MIUR, delle spese del presente
giudizio, che liquida in euro 3.500,00 per compensi, oltre
spese prenotate a debito. Nulla per le spese nei confronti di
Rossi Filomena e del Centro Servizi Amministrativi di
Frosinone.
Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013
Il Consigliere est.

Il Presidente

ricorrente

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