Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19808 del 04/10/2016


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Cassazione civile sez. I, 04/10/2016, (ud. 14/07/2016, dep. 04/10/2016), n.19808

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4863/2012 proposto da:

G.M.L., (c.f. (OMISSIS)), Q.C.S. (c.f.

(OMISSIS)), Q.C.A. (c.f. (OMISSIS)),

Q.C.M. (c.f. (OMISSIS)), Q.C.E.M. (C.F.

(OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NOMENTANA NUOVA

59, presso l’avvocato TOMMASO DEGLI ATTI, rappresentati e difesi

dall’avvocato ITALO ZANCHI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI RACALE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA POSTUMA 3, presso l’avvocato MONICA

SCONGIAFORNO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANGELO PETRACCA,

giusta procura a margine della memoria di costituzione;

– resistente –

avverso la sentenza n. 837/2011 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 06/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2016 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 6 marzo 2008 sia G.M.L., quale proprietaria esclusiva di un appezzamento di terreno di mq 12.566 circa, e sia la stessa G. con Q.C.A., E.M., M. e S., in veste di comproprietari di altro suolo di mq 10.000 circa, adivano la Corte di appello di Lecce ed esposto che in variante al P.d.F. il Comune di Racale con Delib. 9 gennaio 1978, n. 6, aveva insediato nelle suddette aree l’adottato P.I.P. e così apposto un vincolo preordinato all’esproprio, che a quella deliberazione erano seguiti provvedimenti amministrativi (approvazione della variante adottata, poi degli elaborati, adozione di altra variante e successiva riapprovazione, assegnazione dei lotti, piano particolareggiato, ecc.) tutti dello stesso segno (destinazione a P.I.P.), sicchè i loro immobili da circa 25 anni erano rimasti negativamente incisi nelle possibilità di edificazione, di commercializzazione e comunque di utilizzazione proficua. che per la “reiterazione del P.I.P. e quindi del vincolo di inedificabilità” era insorto in loro favore il diritto ad un congruo indennizzo alla stregua delle pronunce della Corte Costituzionale n. 575 del 1989 e n. 179 del 1999 e del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39, tanto premesso chiedevano la condanna del Comune di Racale al pagamento della somma di Euro 245.520,00 “per tre reiterazioni di vincolo” nonchè “al maggior indennizzo per i mancati miglioramenti agrario e commerciale e per conversione aziendale del predio e realizzazioni” – in entrambi i casi con rivalutazione ed interessi – ed alla rifusione delle spese processuali. Il convenuto Comune contrastava l’avversa pretesti – sui rilievi dell’intervenuta prescrizione dell’azione, della protrazione in capo agli attori della disponibilità del fondo e dell’insussistenza “di un atto, che abbia esplicitamente reiterato il vincolo urbanistico” – e nel quantum – in considerazione del continuato uso normale del bene da parte degli attori.

Con sentenza del 21.07-6.10.2011 la Corte di appello di Lecce rigettava la domanda La Corte territoriale osservava e riteneva anche che:

– la L. n. 1150 del 1942, art. 7, nn. 2, 3 e 4, prefigurava la possibilità di escludere l’edificabilità su determinate aree attraverso imposizioni a titolo particolare. Su tale disciplina intervenne la Corte Costituzionale con le sentenza n. 38 del 1966 e n. 55 del 1968, con le quali ritenne, da un lato, la conformità all’art. 42 Cost., della previsione di cui all’art. 7 L. cit., dall’altro non coerente nella parte in cui non prevedeva limiti di tempo entro i quali potessero operare i vincoli che attingevano la proprietà privata nè le indennità per i beni privati ad essi assoggettati: in particolare – per quel che può interessare – la Corte Costituzionale. partendo dal vigore a tempo indeterminato del P.R.G., rilevò la situazione di totale incertezza in cui versava il proprietario, di beni, per i quali erano presupposti trasferimenti di proprietà (in genere le aree da adibire ad usi pubblici o ad opere pubbliche) ovvero trasformazioni a cura del proprietario medesimo senza che in tali casi fosse destinatario di un indennizzo. Conseguentemente, secondo la Corte, agli atti di imposizione occorreva correlare un indennizzo. Il principio dell’indennizzo – come precisato – non si poneva, tuttavia, in tutti i casi, restando al di fuori di esso le disposizioni dello strumento urbanistico, riguardanti intere categorie di beni con ricaduta sulla generalità dei soggetti, in quanto le relative previsioni finivano per incidere su tutti i beni della categoria senza distinzioni, sottoponendoli ad un particolare regime. Siffatta ricostruzione scaturì dalla – e nel contempo chiarì la – distinzione tra vincoli preordinati all’esproprio e vincoli di tipo conformativo a secondo – rispettivamente – se incidevano su singoli beni, comprimendoli nella loro fruizione, ovvero su categorie di beni conservandone il contenuto; in disparte l’esclusione della proprietà privata per determinati beni, veniva, pertanto, attribuito al Legislatore il potere di caratterizzare il contenuto degli altri mediante limitazioni in via generale su categorie ovvero in via particolare su singoli beni con conseguente restrizione quanto a questi ultimi delle facoltà di godimento e di disposizione. A seguito delle pronunce della Corte Costituzionale, il Legislatore con la L. n. 1187 del 1968, previde – all’art. 2 – che le indicazioni del P.R.G. nella parte in cui apponevano vincoli preordinati all’esproprio o di inedificabilità divenivano inefficaci qualora nel termine di cinque anni dall’approvazione dei piano non avessero fatto seguito i piani particolareggiati ovvero autorizzati i piani di lottizzazione convenzionata, fermo restando che l’efficacia dei vincoli non poteva protrarsi oltre il termine di attuazione dei piani suddetti: ne derivava, in sintesi, un termine complessivo per detti vincoli pari nel massimo a 15 anni (5 anni + 10 di durata massima dell’effetto del piano attuativo). Sul piano legislativo furono emanate ulteriori normative sull’efficacia e la proroga dei vincoli (L. n. 756 del 1973, D.L. n. 562 del 1975 conv. in L. n. 596 del 1975, D.L. n. 781 del 1976 conv. in L. n. 6 del 1977): il quadro rimase immutato lino all’entrata in vigore della L. n. 10 del 1977 (c.d. Bucalossi), che, tuttavia, non conteneva alcuna previsione sui vincoli urbanistici. Tralasciando l’impostazione di fondo della legge da ultimo citata circa lo jus edificandi ed il nuovo intervento su quella impostazione della Corte Costituzionale con la sentenza n. 5 del 1980, andava segnalato che la giurisprudenza si orientò nel senso di ritenere che la previsione della L. n. 1187 del 1968, non avesse natura di norma transitoria, ma fosse entrata a regime: ne conseguiva che il termine quinquennale di durata del vincolo costituiva parte integrante della disciplina urbanistica, che poteva essere motivatamente reiterato ovvero, se protratto a tempo indeterminato, che doveva essere indennizzato, sicchè, in definitiva, si sanciva il principio dell’alternatività tra reiterazione motivata del vincolo (temporaneo) e previsione dell’indennizzo in caso di reiterazione indefinita nel tempo. Su questo quadro – non risolutivo, funditus della questione sulla reiterabilità dei vincoli – fu chiamata nuovamente a pronunciarsi la Corte Costituzionale a seguito di ordinanza di rimessione dell’A.P. del Consiglio di Stato n. 10/1996. La Corte, con sentenza n. 179 del 1999, dichiarò l’illegittimità costituzionale della L. n. 1150 del 1942, art. 7, n. 2, 3 e 4 e art. 40 e della L. n. 1187 del 1968, art. 2, comma 1, nella parte in cui consentivano alla PA. di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione e che comportavano l’inedificabilità senza previsione di indennizzo. Con tale pronuncia, dunque, la Corte, ritornando sulla questione, già in precedenza esaminata – ribadì che la reiterazione in via amministrativa di vincoli scaduti (ovvero la loro proroga in via legislativa) non costituiva fenomeno inammissibile sotto il profilo della legittimità costituzionale, potendo ricorrere ragioni giustificative da esplicitare con adeguata motivazione dall’amministrazione, deputata alla gestione del territorio, ovvero apprezzabili dal legislatore entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà: limiti questi da ritenere superati in presenza di indefinita reiterazione o proroga sine die o difetto di termine certo, preciso e sicuro: ovviamente, in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo, una volta decorso il c.d. periodo di franchigia. La giurisprudenza della Corte Costituzionale aveva avuto. altresì, modo di sottolineare che ai fini della indennizzabilità occorreva: che si trattasse di vincoli preordinati all’esproprio ovvero che avessero carattere sostanzialmente espropriativo, vicende queste in concreto ravvisabili quando producessero l’effetto pratico dello svuotamento di rilevante entità ed incisività del contenuto della proprietà attraverso imposizioni a titolo particolare su determinati beni, comportanti l’inedificabilità assoluta; che superassero la durata limite, che il Legislatore era tenuto a fissare in maniera non irragionevole e non arbitraria come sopportabile dal proprietario del bene, attinto dal vincolo, semprechè non venisse iniziata la procedura attuativa – funzionale all’esproprio – mediante l’approvazione dei piani particolareggiati o di esecuzione, forniti, a loro volta, di termini massimi di attuazione; che superassero sotto un profilo quantitativo la normale tollerabilità alla luce dell’art. 42 Cost., che permeava la concezione della proprietà regolata dalle leggi per i modi di godimento nei limiti, collegati alla funzione sociale della proprietà stessa. In base alla giurisprudenza della Corte Costituzionale nonchè all’orientamento del giudice di legittimità e di autorevole dottrina, restavano fuori dal campo della temporaneità e indennizzabilità: A) i vincoli di carattere generale incidenti in modo obiettivo ed indifferenziato su intere categorie di beni, imposti direttamente dalla legge o con procedimento amministrativo, aventi appunto carattere di generalità in quanto beni ricompresi in una determinata categoria, che subivano limitazioni al libero esercizio dell’attività edilizia per ragioni svariate che potevano essere di tipo culturale, igienico di decoro, ambientale, ecc. (tipo i vincoli paesistici a quelli posti a tutela di beni d’interesse storico, artistico, archeologico); B) i vincoli urbanistici conformativi (v. anche Corte Costituzionale: sent. n. 148 del 2003), che attingevano beni con una serie di prescrizioni riconducibili alla pianificazione urbanistica di intere porzioni del territorio comunale secondo la logica della zonizzazione (cui si contrapponeva quella della localizzazione, integrante il vincolo preordinato all’esproprio): si trattava di vincoli, connaturati alla proprietà e che si esaurivano in semplici limitazioni delle facoltà dominicali ancorchè potessero preludere in determinati casi all’acquisizione da parte della P.A., senza con ciò configgere con la destinazione programmatica di contenuto conformativo (si pensi alle zone con tipizzazione “pubblica ad uso pubblico per attrezzature c d’impianti pubblici e di interesse generale secondo gli standard di cui al D.M. n. 1444 del 1968); C) i vincoli che importavano una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico – privata e che permettevano quindi interventi realizzabili ad iniziativa privata o mista, secondo il modulo, in quest’ultimo caso, della c.d. urbanistica contrattata (tipo in via esemplificativa parcheggi, impianti sportivi centri commerciali, strutture sanitarie, ecc.) attraverso interventi che non comportavano necessariamente espropriazioni e realizzazioni a cura solo della mano pubblica; D) ragionando a contrario, i vincoli che non superavano la normale tollerabilità e quelli non eccedenti il periodo di franchigia (quindi, in questo caso, temporanei). Il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39 “in attesa di una organica risistemazione della materia” – entrato in vigore il 30 giugno 2003 – disciplinava la materia, prevedendo “nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o sostanzialmente espropriativo” la corresponsione al proprietario di “una indennità commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto”. Ciò posto, la prima questione che andava affrontata – preliminare a tutte le altre – atteneva alla qualità del vincolo, attribuibile al P.I.P., approvato: se trattavasi di vincolo conformativo ovvero preordinato all’esproprio o sostanzialmente espropriativo, giacchè, solo in quest’ultimo caso, si poneva l’ulteriore problematica, concernente la “reiterazione”. Si trattava di vincolo confermativo, la cui nozione si era sopra delineata alla lettera B). Come più volte rilevato, ricorreva la fattispecie del vincolo conformativo le quante volte la prescrizione di piano, anche ove introdotto con variante – come nella specie – mirasse alla zonizzazione del territorio comunale o di parte di esso in modo da incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti, così conferendo una determinata destinazione alla zona in cui i beni ricadevano.

Per converso il vincolo andava considerato espropriativo allorchè esso si appuntava su uno specifico bene in funzione della localizzazione dell’opera pubblica o di impianti di interesse generale: in questo caso il vincolo apposto non rispondeva al modo di essere della proprietà dominicale, ma ad evidenti esigenze pubblicistiche, che non potevano convivere con il privato e che reclamavano per il soddisfacimento dell’interesse collettivo il sacrificio del singolo per impossibilità di coesistenza del pubblico con il privato.

Nella specie, come si desumeva dagli assunti concordi delle parti, i suoli degli attori estesi poco più di 2 ettari circa furono inclusi (insieme con suoli di terzi) nel comprensorio P.I.P. sicchè si era in presenza di una nuova zonizzazione del territorio comunale, introdotto tramite il P.I.P., che del P.R.G. o altro strumento generale, costituiva una variante, cui andava attribuito carattere programmatorio e conformativo. Il P.I.P., infatti, integrava un vero e proprio piano di zona e, quindi, un piano urbanistico attuativo o di terzo livello. – equivalente al piano particolareggiato o di lottizzazione – che, in base alla L. n. 167 del 1962, doveva di regola trovare insediamento nelle aree previste come zone di espansione dell’aggregato urbano, ancorchè non ancora edificate, destinate agli insediamenti industriali; peraltro, ove la zona oggetto del piano non fosse già prevista come zona destinata a tali insediamenti (o in caso di P.E.E.P. all’edilizia residenziale), come nel caso in cui avesse destinazione agricola nel P.R.G. (e nel P.d.F.), l’approvazione del P.I.P. (come nel P.E.E.P.) avrebbe avuto effetto di variante dello strumento urbanistico fondamentale ed approvazione del piano di zona attuativo, atteggiandosi pur sempre come conformativo – in via generale ed astratta – della proprietà privata con conseguente ricaduta sulla acquisizione da parte dei suoli, inclusi nel P.I.P. (o nel P.E.E.P.) della natura edificatoria quale che fosse la destinazione pregressa: dato questo elle riscontrava la natura confermativa del vincolo, che valeva ad escludere, per le ragioni innanzi addotte, la indennizzabilità, nonchè gli altri ristori invocati. La domanda anelava, pertanto, rigettata.

Avverso questa sentenza la G. ed i Q.C. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi e notificato il 13.02.2012 al Comune di Racale che si è limitato a depositare una – memoria di costituzione” con annessa procura speciale al difensore.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

A sostegno del ricorso la G. ed i Q.C. denunziano:

1. “art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del combinato disposto della L. n. 1187 del 1968, art. 2, come emendato dalla sentenza della Corte Cost. n. 179/1999 e D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39”.

2. “art. 360 c.p.c., n. 5, per motivazione insufficiente e irrazionale”.

3. “art. 360 c.p.c., n. 3, per ulteriore violazione della L. n. 1187 del 1968, art. 2, come emendato dalla Corte Cost. 179/1999 e D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39.

4. “art. 360, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, artt. 2 e 3″.

5. – art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione della L. n. 1187 del 1968, art. 2 e D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39, alla luce delle sentenze della Corte Cost. n. 260/1976, 179/99 e 411/2001.

Art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa motivazione”.

6. “art. 360, n. 3, per violazione sotto altri profili, della L. n. 1187 del 1968, art. 2, come emendato dalla Corte Cost. e D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39”.

7. “Art. 360, n. 3, per ulteriore violazione della L. n. 1187 del 1968, art. 2, come emendato dalla Corte Cost. e D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39. Art. 360, n. 5, per motivazione insufficiente”.

Con le dedotte censure i ricorrenti si dolgono. anche per il profilo motivazionale, del diniego dell’indennizzo accordato dall’art. 39 del T.U. espropriazioni, assumendo in sintesi l’erroneità della riconduzione del PIP all’ambito dei vincoli conformativi e non espropriativi, dei quali ultimi lamentano pure la mancata definizione. Assumono ancora che le Zone urbanistiche contraddistinte dalla lettera D (D.M. n. 1444 del 1968, art. 2) se attuabili solo ad iniziativa privata si sostanziano in vincoli espropriativi, perciò implicando l’obbligo d’indennizzo in caso di reiterazione, cd ancora che i vincoli non indennizzabili vanno riferiti a determinate categorie di beni e non a pluralità indifferenziate.

Tutti i motivi del ricorso non meritano favorevole apprezzamento.

Il fatto che l’allocazione del PIP in Zona territoriale omogenea si risolva nella conferma rinveniente dall’inserimento in Zona D dello strumento generale di pianificazione (cfr. Cass. n. 15658 del 2011) o comunque nell’attribuzione in variante urbanistica (cfr. Cass. n. 5874 del 2004: n. 19128 del 2006: n. 9891 del 2007) della positiva qualifica dell’edificabilità legale ai suoli in quel Piano inclusi, esclude già in linea generale che i ricorrenti siano stati attinti da previsioni urbanistiche di pregiudizievole contenuto sostanzialmente espropriativo rispetto alle loro facoltà dominicali, e perciò suscettibili d’indennizzo ai sensi degli artt. 9 e 39 del citato T.U..

In ogni caso, sui criteri d’individuazione dei vincoli conformativi rispetto ai vincoli espropriativi o d’inedificabilità assoluta, la conclusione attinta dalla Corte d’appello si rivela irreprensibile rispetto al dettato normativo ed alla relativa elaborazione giurisprudenziale (cfr. da ultimo Cass. n. 3620 del 2016) e sostenuta da puntuali argomentazioni. di contro solo genericamente ed apoditticamente avversate dai ricorrenti.

D’altra parte nè l’art. 39 T.U. nè le decisioni nel tempo rese sul tema dalla Corte Costituzionale hanno mai posto l’equazione vincoli di inedificabilità= indennizzo: ma hanno richiesto la ricorrenza di una delle due fattispecie individuate dalla norma, le quali: a) presuppongono comunque che l’imposizione sia a titolo particolare (l’art. 39 ripete da ultimo che il vincolo deve incidere su “particolari aree”) perciò contrapponendola alle imposizioni di carattere generale (tra cui in effetti rientra proprio il PIP): b) hanno come funzione la preordinazione all’espropriazione ovvero un regime equivalente (quale esemplificativamente quello delle servitù pubbliche che rendono la proprietà meramente nominale). Da qui la conseguenza che il requisito sub b) ipotizzabile soltanto nell’ambito delle imposizioni a titolo particolare e non anche nella categoria contrapposta dei vincoli conformativi, esemplificata proprio dalle zone omogenee generali ed astratte (quale la D)) di cui all’art. 2 (e non 3) del D.M. n. 1444 del 1968. Il che esclude qualsiasi rilievo nel caso concreto alla contrapposizione iniziativa solo pubblica-iniziativa privata (o promiscua), la quale vale a rendere insensibile alla dicotomia avanti indicata tutti i vincoli realizzabili ad iniziativa pubblico-privata, sottraendoli a decadenza, ma non anche a rendere comunque preordinati all’esproprio (ed a superare la relativa ripartizione) quelli attuabili solo ad iniziativa pubblica.

Il fatto poi che. pure alla luce degli artt. 8, 9, 10 e art. 12, comma 1, lett. a) del T.U. di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, il PIP previsto dalla L. n. 865 del 1971, art. 27, non integri vincolo espropriativo è stato di recente argomentatamente riaffermato anche nella sentenza n. 2878 del 2015 resa dal Consiglio di Stato.

In conclusione il ricorso deve essere respinto.

Non deve statuirsi sulle spese di legittimità non avendo l’intimato Comune resistito al ricorso nè partecipato alla discussione orale.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2016

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