Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19806 del 09/08/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 09/08/2017, (ud. 30/01/2017, dep.09/08/2017),  n. 19806

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 15151/2012 R.G. proposto da:

Avv. F.A., in giudizio di persona, con domicilio

eletto presso il proprio studio legale, in (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

n. 287/02/2011, depositata in data 13 dicembre 2011.

Udita la relazione svolta alla pubblica udienza del 30 gennaio 2017

dal Cons. Dott. Lucio Luciotti;

udito, per il ricorrente, l’Avv. Marina Messina, per delega verbale

dell’avv. F.A.;

udito l’Avv. Pasquale Pucciariello, per l’Avvocatura Generale dello

Stato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del ricorso previa riunione con il ricorso iscritto

al n. 21524/12 R.G..

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle entrate emetteva, nei confronti dell’avvocato F.A., avviso di accertamento relativamente all’anno di imposta 2005 di maggiori redditi ai fini IRPEF e di maggiori ricavi ai fini IVA emersi a seguito della verifica delle movimentazioni bancarie effettuate dal predetto professionista nel periodo di imposta considerato, che non avevano trovato “riconciliazione” in sede di contraddittorio endoprocedimentale.

2. La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma, di rigetto del ricorso avverso il predetto atto impositivo, veniva confermata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, adita dal ricorrente, che, per quanto ancora di interesse, riteneva che il contribuente non aveva fornito alcun elemento concreto di riscontro “circa l’oggetto dell’operazione in entrata” nè “circa l’esatta individuazione del beneficiario” delle “rilevantissime operazioni in uscita” di “quasi 70.000 Euro”.

3. Avverso la sentenza di appello n. 287 del 13 dicembre 2011, il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., cui replica l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di censura, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 2 e 3, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, nonchè degli artt. 24 e 53 Cost..

1.1. Sostiene il ricorrente che i giudici di appello avevano omesso di rilevare d’ufficio la nullità dell’avviso di accertamento emesso ante tempus, prima del decorso del termine (di sessanta giorni) previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212 del 2000), peraltro omettendo di motivare le ragioni dell’urgenza.

2. Il motivo è inammissibile perchè con esso il ricorrente prospetta la questione della nullità dell’atto impositivo emesso ante tempus, per la prima volta – e quindi inammissibilmente (da ultimo, Cass. n. 27143 del 2016)-in sede di giudizio di legittimità, come confermato dalla contestata omessa rilevazione d’ufficio da parte dei giudici di appello della questione che il ricorrente avrebbe dovuto provare di aver tempestivamente proposto nell’originario ricorso introduttivo e di averlo riproposto come motivo d’appello.

Invero, essendo noto (come ribadito da Cass. n. 22662 del 2014) che 2

“il contenzioso tributario ha un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni comprese nei motivi di impugnazione avverso l’atto impositivo dedotti col ricorso introduttivo (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 18 e 24), i quali costituiscono la “causa petendi” rispetto all’invocato annullamento dell’atto (13934/2011) e la cui formulazione soggiace alla preclusione stabilita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, comma 2 (Cass. 9754/2003)”, era onere – nella specie non assolto – del ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, di indicare in maniera specifica il luogo in cui aveva dedotto il vizio dell’atto impositivo e di riprodurre la parte del ricorso introduttivo dinanzi al primo giudice in cui aveva introdotto le questioni sollevate nel motivo di ricorso per cassazione in esame, che nella specie è modalità di prospettazione del motivo imposta anche dal fatto che la sentenza di appello, nella parte espositiva dello svolgimento del processo, elenca in maniera dettagliata i motivi di impugnazione dell’atto impositivo e della sentenza di primo grado, tra i quali non è rinvenibile accenno alcuno alla nullità dell’avviso di accertamento per essere stato emesso ante tempus.

3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37 e 38, nonchè D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 58, sostenendo che, alla stregua del principio affermato da questa Corte nella sentenza n. 263 del 2012, “una corretta applicazione dell’art. 2697 c.c. avrebbe in ogni caso dovuto indurre il giudicante ad addossare all’Amministrazione l’onere della prova, posto che concretamente, prima ancora di potersi pervenire all’inversione dell’onere e dato atto delle spiegazioni del contribuente, l’Amministrazione stessa, avrebbe dovuto, come rilevato, comprovare i fatti costitutivi posti a base dei due accertamenti” (quello relativo all’anno di imposta 2005 e l’altro relativo all’anno 2006, oggetto di altro giudizio). Sostiene, inoltre, che “nel caso di specie, invece, l’Agenzia delle entrate si è solo limitata a ritenere rilevanti, ai fini dell’accertamento, tutte quelle partite contabili che, in qualche modo, non erano state giustificate”.

3.1. Nella fattispecie è accaduto che a seguito della verifica dei movimenti dei conti correnti bancari intestati al contribuente, l’Agenzia delle entrate con l’avviso di accertamento impugnato ha provveduto a recuperare a tassazione non solo i versamenti ma anche i prelievi (per oltre 70.000,00 Euro), considerandoli “compensi” conseguiti dall’attività libero professionale dal medesimo svolta, così come, al momento della pronuncia della sentenza impugnata (13 dicembre 2011), era previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, che, in relazione ai rapporti ed alle operazioni (anche) bancarie, stabiliva che “sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”.

4. Tale circostanza induce a qualche preliminare precisazione.

4.1. E’ noto l’intervento della Corte costituzionale in materia. Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della presunzione posta dall’ultima parte della sopra citata disposizione e dell’inversione dell’onere probatorio che ne discende, il Giudice delle leggi con sentenza 24 settembre 2014, n. 228 ha rilevato la contrarietà della medesima al principio di ragionevolezza e di capacità contributiva, ritenendo “arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, dichiarando, quindi, l’illegittimità costituzionale della sopra riportata disposizione “limitatamente alle parole “o compensi””.

Osserva il Collegio che nella citata sentenza del Giudice delle leggi sembrerebbe essere rinvenibile una discrasia tra motivazione e dispositivo, nella prima avendo fatto chiaramente riferimento ai soli prelevamenti dai conti bancari e nella seconda, invece, avendo sancito in maniera perentoria l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), “limitatamente alle parole “o compensi””, che nell’architettura della citata disposizione è posta con riferimento ai prelevamenti, ma anche agli “importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”, che potrebbero far pensare ai versamenti. Tanto ha rilevato anche un’attenta dottrina che ha, altresì, precisato che dalla lettura isolata della parte conclusiva della motivazione della sentenza della Corte costituzionale e del suo dispositivo, si potrebbe essere indotti a credere che la pronuncia di incostituzionalità si riferisca, con riguardo ai lavoratori autonomi, ad entrambe le presunzioni, ovvero sia a quella relativa ai prelevamenti che ai versamenti.

4.2. Orbene, ancorchè alcune pronunce di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 5^, sent. n. 23041 del 2015, n. 16440, n. 12779 e n. 12781 del 2016; Sez. 6-5, ord. n. 24862 e n. 19970 del 2016) abbiano, più o meno esplicitamente, interpretato in tal modo il citato pronunciamento del Giudice delle leggi e, quindi, ritenuto essere venuta meno la presunzione di imputazione ai “compensi” dei lavoratori autonomi o dei professionisti intellettuali sia dei prelevamenti che dei versamenti operati sui conti bancari (la citata sentenza n. 23401/2015, richiamata in tutte le altre pronunce citate, è così massimata: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l’inclusione nella base imponibile oppure l’estraneità alla produzione del reddito, si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi o professionisti intellettuali, essendo venuta meno, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, la modifica della citata disposizione, apportata dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402, sicchè non è più sostenibile l’equiparazione, ai fini della presunzione, tra attività d’impresa e professionale per gli anni anteriori”), ritiene il Collegio che vada invece seguito e ribadito il diverso orientamento secondo cui “In tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicchè questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti” (cfr. Cass. Sez. 5, n. 16697 del 2016; in senso analogo, Cass. Sez. 5, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 11776, n. 6093 del 2016; n. 23575 del 2015 nonchè, più recentemente, n. 5152 e n. 5153 del 2017; Sez. 6-5, ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016; Cass. Sez. 5″, n. 18126, n. 18125, n. 16929, n. 13470, n. 12021 del 2015).

4.3. La maggior coerenza di tale orientamento con la sentenza della Corte costituzionale discende dalla considerazione che la sopra rilevata discrasia tra motivazione e dispositivo della stessa non si traduce in un vero e proprio contrasto tra le due parti della pronuncia, il che comporta che la sua portata precettiva debba essere individuata integrando il dispositivo con la motivazione (arg. da Cass. Sez L, n. 12841 del 2016). Ed in questa è chiaramente desumibile, anche alla stregua della questione di costituzionalità sollevata dal giudice remittente, che la Corte costituzionale ha inteso escludere l’operatività della presunzione legale basata sugli accertamenti bancari, nei confronti dei lavoratori autonomi, solo ed esclusivamente ai prelevamenti. E lo si ricava dalle argomentazioni svolte dal Giudice delle leggi nel corpo motivazionale della pronuncia (punti 4, 4.1 e 4.2) e dalla conclusione tratta al punto 5, ove si afferma che “Pertanto nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonchè della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, nessun accenno venendo fatto in tali sviluppi argomentativi ai “versamenti” in conto.

5. Ciò precisato e venendo, quindi, al motivo di ricorso in esame, indiscussa l’efficacia retroattiva della sentenza di accoglimento della questione di legittimità costituzionale pronunciata dalla Corte costituzionale (Cass. n. 10958 del 2010), in quanto il mutamento normativo prodotto da una tale si configura come ius superveniens, che “impone, anche nella fase di cassazione, la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della disciplina risultante dalla decisione anzidetta” (Cass. Sez. L, sent. n. 4349 del 1995 e Sez. 5, sent. n. 12779 del 2016), salvo il limite del giudicato (nella specie non sussistente), osserva il Collegio che al caso di specie ben si attaglia la predetta decisione, avendo il contribuente posto in discussione la legittimità dell’accertamento sotto il profilo dell’utilizzazione della presunzione quanto ai prelevamenti effettuati dai conti correnti e considerati dall’ufficio come redditi, e della conseguente incidenza sul riparto dell’onere probatorio, ricadente sull’amministrazione finanziaria.

5.1. Il motivo va quindi accolto e la sentenza cassata con rinvio ai giudici di appello per la rivalutazione dell’intera vicenda processuale alla stregua dei principi sopra enunciati.

6. Il terzo motivo di ricorso, con cui viene dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di motivazione della sentenza impugnata per omesso ed insufficiente esame analitico delle puntuali e documentate giustificazioni fornite per illustrare i movimenti bancari contestati, che il ricorrente sostiene essere state pretermesse sia dall’ufficio finanziario che dai giudici di merito, è, all’evidenza, assorbito dalla statuizione assunta sul precedente mezzo di cassazione.

7. Conclusivamente, quindi, ritenuto di disattendere la richiesta di riunione avanzata dal P.M., va dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso, accolto il secondo, assorbito il terzo, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2017

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