Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19801 del 28/09/2011

Cassazione civile sez. III, 28/09/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 28/09/2011), n.19801

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARLEO Giovanni – Presidente –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell’avvocato RIZZO CARLA,

rappresentato e difeso dagli avvocati FELISETTI DINO LUIGI, GIANOLIO

ALFREDO giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

TECNOGRAF S.R.L. (OMISSIS) in persona del legale rappresentante

pro tempore C.R., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DEI VALERI 1, presso lo studio dell’avvocato ROSSI GIOVANNA, che

la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MESCOLI

MARIASTELLA, MESCOLI PAOLA giusto mandato in atti;

S.S. (OMISSIS), considerato domiciliato “ex

lege” in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

rappresentato e difeso dagli avvocati DE STEFANO MAURIZIO, SPAGGIARI

MAURIZIO giusto mandato in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1002/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 17/06/2008, R.G.N. 2383/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2011 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato ALFREDO GIANOLIO;

udito l’Avvocato MAURIZIO DE STEFANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’evocare in giudizio dinanzi al tribunale di Reggio Emilia S.S. e la Tecnograf s.p.a. (poi Tecnograf s.r.l.) N.G. ne chiese la condanna in solido al risarcimento del danno cagionatogli dalla stampa e diffusione di un libro – scritto dal primo, edito dalla seconda – a suo dire contenente riferimenti falsi e offensivi della propria onorabilità e reputazione, conseguenti, in particolare, all’attribuzione alla sua persona – in sede di intervista circa una vicenda giudiziaria che, nel dopoguerra, lo aveva visto coinvolto nell’assassinio di un religioso – di frasi mai pronunciate o comunque dal significato non corrispondente a quello reale, così distorcendo la verità storica delle vicende narrate (in particolare, facendolo apparire come colui che aveva taciuto quanto a sua conoscenza circa la materiale identità degli esecutori del delitto, rassegnandosi a subire una condanna insieme con altri due partigiani ritenuti suoi complici).

Il giudice di primo grado respinse la domanda. La corte di appello di Bologna, investita del gravame proposto dal N., lo rigettò in toto, con ampia e articolata motivazione.

La sentenza è stata impugnata dall’appellante con ricorso per cassazione articolato in 6 motivi illustrati da memoria.

Resistono con controricorso la Tecnograf e lo S. (la cui difesa illustra a sua volta l’atto di resistenza con memoria ex art. 378 c.p.c.).

Il collegio ha disposto che la motivazione della sentenza fosse redatta in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve essere in limine disattesa l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità dell’odierna impugnazione sollevata dalla difesa del controricorrente S. (eccezione ulteriormente illustrata in memoria).

Osserva in proposito il collegio che, qualora, a norma dell’art. 330 c.p.c., comma 1, seconda parte la sentenza non risulti notificata (come nel caso di specie), l’impugnazione si notifica, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., presso il procuratore costituito, o nella residenza dichiarata, ovvero nel domicilio eletto, onde l’opzione tra le tre distinte ipotesi (in relazione, tra esse, di alternatività pura: Cass. ss. uu. 12593/93 e successive conformi) è (indifferentemente) rimessa tout court al notificante.

Il ricorso, sebbene ammissibile, è del tutto infondato. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione delle norme e dei principi sull’onere probatorio e del diritto alla prova, violazione dell’art. 2697 c.c., degli artt. 113 e 115 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Vero che l’onere probatorio su di un fatto negativo che l’attore deduce nell’agire in giudizio quale presupposto e riferibile ad una circostanza di falsità estrinseca e intrinseca di disconoscimento di dichiarazioni, si modella diversamente in capo al convenuto e in capo all’attore, ricadendo sul convenuto un onere maggiorato per aver questi invaso la sfera giuridica personale altrui, mentre minore è l’onere probatorio che ricade sull’attore il quale può dare prova con semplici presunzione non contrarie in assoluto al fatto negativo disconosciuto dalla genuinità della sua affermazione; vero quindi che ricade sul convenuto il rischio dell’onere disatteso, dovendo il giudice pronunciarsi a favore dell’attore per il mancato raggiungimento da parte del convenuto della prova impeditiva che elide il fatto presupposto all’azione dell’attore e ciò per la corretta applicazione del principio del diritto di difesa che sussiste anche in campo civile e delle norme sull’onere probatorio ex art. 2697 c.c. e sulla valutazione della prova ex artt. 113 e 115 c.p.c. e per uniformarsi ai principi correttamente intesi di reus in excipiendo fit actor e neganda non sunt probanda. Il quesito è palesemente inammissibile.

Assoluta e irredimibile risulta, difatti, la carenza dei requisiti essenziali richiesti da questa corte, con giurisprudenza ormai consolidata, quanto a forma e contenuto del quesito in esame così come formulato a chiusura dell’esposizione del motivo di doglianza.

Questo giudice di legittimità ha già avuto modo di affermare che il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico- giuridica unitaria della questione, onde consentire alla Corte di cassazione l’enunciazione di una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (Cass. 25-3-2009, n. 7197). Ed è stato ulteriormente precisato (Cass. 19-2-2009, n. 4044) che il quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a corredo del ricorso per cassazione non può mai risolversi nella generica richiesta (quale quelle di specie) rivolta al giudice di legittimità di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, ma deve investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa di segno opposto con specifico riguardo alla fattispecie concreta; non senza considerare, ancora (ciò che appare decisivo per decretare la inammissibilità del quesito di cui si discorre), che le stesse sezioni unite di questa Corte hanno chiaramente specificato (Cass. ss. uu. 2-12-2008, n. 28536) che deve ritenersi inammissibile per violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ. il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi sia accompagnata dalla formulazione di un quesito di diritto che si risolve in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice. La corretta formulazione del quesito esige, in definitiva (in consonanza con il dictum di cui a Cass. 19892/09), che il ricorrente dapprima indichi, sia pur in sintesi, la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico, e soltanto all’esito di tale, ineludibile sinergia espositiva formuli la richiesta di enunciazione del principio giuridico di cui chiede l’applicazione, onde, va ribadito (Cass. 19892/2007) l’inammissibilità del motivo di ricorso il cui quesito si risolva (come nella specie) in una generica istanza di decisione sull’esistenza di una astratta violazione di legge denunziata nel motivo.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme sulla valutazione delle prove documentali ex art. 2702 e 2707 c.c. e, in materia di presunzione, ex art. 2727 e 2729 c.c..

Il motivo è inammissibile perchè (a tacere e prima ancora del rilievo dell’ulteriore profilo di inammissibilità rappresentato dalla totale astrattezza del quesito di diritto con cui si conclude) esso risulta articolato in palese spregio del principio di autosufficienza del ricorso, poichè non v’è cenno, nel corpo della doglianza, del contenuto – sia pur riportato per sintesi rilevante in parte qua – delle prove documentali in relazione alle quali si asserisce erronea la valutazione del giudice territoriale sub specie della loro decisiva rilevanza ai fini del giudizio.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. Il motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto:

Vero che, quando la motivazione della sentenza di appello ad relationem di quella di primo grado si esaurisce nella formulazione semplicistica di richiamo apodittico senza la riproduzione del percorso logico-giuridico su cui formulare il dispositivo e senza che vengano riprodotti i contenuti mutuati della motivazione della sentenza richiamata in modo tale che questi contenuti diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, per consentire anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto), essa motivazione è contraria al principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato risultando una omissione del giudizio sulla domanda attorea e pertanto censurabile sia dal punto di vista della violazione di norma del principio ex art. 112 c.p.c. sia per difetto di motivazione sul fatto controverso. Il motivo (al di là e prima ancora della sua totale infondatezza nel merito, avendo la corte territoriale, contrariamente all’assunto del ricorrente, ampiamente e approfonditamente argomentato l’iter logico-giuridico che l’ha condotta, con motivazione del tutto esente dai vizi lamentati, ad escludere ogni portata diffamatoria nella pubblicazione per la quale è ancor oggi processo) è del tutto inammissibile, perchè affetto dai medesimi (se non più gravi) irredimibili vizi di astrattezza e genericità già rilevati in sede di analisi della prima censura.

Quanto poi al lamentato difetto di motivazione – di cui è formalmente cenno soltanto al folio 22 del ricorso, nelle ultime due righe del motivo in esame (ma di cui non v’è traccia nell’intestazione del motivo) -, esso si risolve in un mero flatus vocis, del tutto carente sotto il profilo espositivo, volta che questa corte ha già avuto modo di affermare (Cass. ss.uu. 20603/07), con riferimento al denunciato vizio motivazionale, che, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., la sintesi necessaria per l’esame del vizio di motivazione postula indefettibilmente la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione stessa si assuma omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la sua dedotta insufficienza la renda inidonea a giustificare la decisione: la relativa censura deve contenere, cioè, un momento di sintesi (specularmente omologo a quello richiesto per il quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Con il quarto motivo, si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il motivo si conclude con una indicazione, in guisa di fatto controverso decisivo ex art. 366 bis c.p.c., del seguente tenore:

Il N. ha pronunciato quelle frasi a lui attribuite o non le ha pronunciate.

Alla luce della giurisprudenza delle sezioni unite di questa corte regolatrice di cui si è detto poc’anzi, il motivo è chiaramente inammissibile, atteso il divieto, per il giudice di legittimità, di qualsivoglia attività di etero-integrazione della sintesi espositiva di cui all’art. 366 bis c.p.c. attraverso il ricorso a contenuti argomentativi ulteriori, sia pur esposti nel corpo del motivo stesso.

Con il quinto motivo, si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa altro fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il motivo si conclude con l’indicazione quale fatto controverso decisivo, della seguente circostanza:

“Quindi risulta agli atti il fatto che N. ha sempre disconosciuto, con specifiche contestazioni – ante giudizio nel giudizio penale, nel giudizio di primo grado e secondo grado – di essere stato a conoscenza anche approssimativa di verità attinenti al delitto di don P., e che N. fosse ignaro di tali supposte verità sottaciute”.

Con il sesto motivo, si denuncia, infine, violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e art. 2059 c.c., e 2047, 2048, 2049, 2051, 2054, 20556 e 2058 c.c. in relazione con la corretta applicazione del principio immediatamente precettivo dell’art. 2 Cost. circa la salvaguardia e inviolabilità della persona nella sua estrinsecazione al diritto all’onore e all’immagine.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati attesane la intrinseca connessione, sono del tutto infondati.

Premessa la assoluta inconferenza del richiamo alle norme di cui agli art. 2047, 2048, 2049, 2051, 2054, 2056 e 2058 c.c. (che disciplinano tutt’altre fattispecie rispetto a quella oggi in esame), dalla motivazione della sentenza impugnata emerge, difatti, che la circostanza della mancata conoscenza della verità circa l’omicidio di Don P. non ha, in concreto, costituito oggetto di partito esame, sotto il profilo diffamatorio, da parte del giudice di merito, attesane la non rilevanza ai fini della decisione della controversia, decisione che, va ripetuto, la corte di merito ha assunto con motivazione del tutto esente da vizi logico-giuridici, la cui ampiezza ed esaustività non lascia spazio ad alcuna delle critiche mossele con le censure in esame, irrimediabilmente destinate ad infrangersi sul corretto e rigoroso impianto argomentativo adottato dal giudice d’appello. Entrambi i motivi, nel loro complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità. Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue – giusta il principio della soccombenza – come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 3200,00, di cui Euro 200,00 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2011

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