Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19794 del 22/09/2020

Cassazione civile sez. trib., 22/09/2020, (ud. 26/02/2020, dep. 22/09/2020), n.19794

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosari – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14363-2014 proposto da:

MG ADVERTISING SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHINOTTO

1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO PACILEO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ERMANNO PRASTARO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 261/2013 della COMM. TRIB. REG. di ROMA,

depositata il 10/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/02/2020 dal Consigliere Dott. ROSARIA MARIA CASTORINA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

L’Agenzia delle Entrate emetteva sulla base di un processo verbale di constatazione della Guardia Di Finanza, un avviso di accertamento relativo alla dichiarazione IRPEG, IRAP e IVA per l’anno di imposta 2005 contestando la indebita deduzione di costi a seguito di utilizzo di fatture di acquisto per operazioni inesistenti tanto alla società MG Advertising s.r.l. che ai soci M.G., A.M.L. e M.S..

I contribuenti impugnavano gli avvisi davanti la CTP di Roma, la quale, con sentenza n. 171/41/2011 accoglieva il ricorso.

La CTR del Lazio con sentenza n. 261/14/13 depositata il 10.4.2013 accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate ritenendo che fosse provato che la società aveva posto in essere una serie di cartiere aventi il solo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti, al fine di creare costi fittizi.

MG Advertising s.r.l., M.G., A.M.L. e M.S. ricorrono per la cassazione della sentenza, affidando il loro mezzo a nove motivi, illustrati con memoria.

I ricorrenti unitamente alla memoria hanno depositato sentenza penale di assoluzione divenuta irrevocabile in data 26.10.2012.

L’Agenzia delle Entrate si è costituita al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Osserva preliminarmente il Collegio che la sentenza penale di assoluzione è divenuta irrevocabile nel corso del giudizio di appello e la stessa, pur potendolo, non è stata offerta in produzione alla CTR.

Secondo il consolidato l’orientamento di questa Corte “In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (tra le tante, Cass. n. 28174 del 2017); “Nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poichè in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna. Pertanto, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio” (Cass. n. 19786 del 2011; Cass. n. 10578/2015; Cass. 5546/2019).

Tale attività è preclusa al giudice di legittimità.

2. Va altresì disattesa l’eccezione di giudicato formulata nelle stesse memorie.

Ogni anno fiscale mantiene la propria autonomia rispetto agli altri e comporta la costituzione, tra contribuente e Fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi agli anni precedenti e successivi. Ne consegue che, qualora le controversie relative a diverse annualità d’imposta, ancorchè concernenti questioni in tutto o in parte analoghe, siano separatamente decise con più sentenze, ciascun giudizio mantiene la sua autonomia e la decisione ad esso relativa non è suscettibile di costituire cosa giudicata rispetto ai giudizi relativi alle altre annualità (Cass. 14125/2009 e 22197/2004). Nel processo tributario l’efficacia del giudicato trova, infatti, ostacolo nell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si sono verificati al di fuori dello stesso si giustifica in relazione agli elementi non aventi caratteristica di durata

e comunque variabili da periodo a periodo, come ad esempio la capacità contributiva, le spese deducibili, i ricavi. (Cass. 37/2019).

3. Con il primo motivo i ricorrenti deducono il difetto di motivazione della sentenza, motivazione apparente in relazione all’art. 360 c.p.c..

La censura è inammissibile.

Come chiarito da questa Corte anche a Sezioni Unite, La nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile nella specie) introdotta ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b) (conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (ex plurimis, Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053, Rv. 629831-01, e successive conformi tra le quali, tra le più recenti, anche Cass. sez. 2, 29/10/2018, n. 27415, Rv. 651020-01).

L'”esplicita scelta” del legislatore del 2012 “di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità”, ha limitato la censurabilità ai soli casi di omissione grafica, di motivazione apparente, di manifesta e irriducibile contraddittorietà “tale da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum” e infine di motivazione perplessa o incomprensibile.

Nella specie laddove si lamenta un vizio di insufficiente motivazione della sentenza il motivo è, come tale, inammissibile.

Non sussiste nemmeno il vizio di motivazione apparente.

Le censure motivazionali non conferiscono al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda, bensì la sola facoltà di controllare – sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale – le argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui “spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (ex multis, Cass. n. 742/2015).

Di conseguenza, il preteso vizio di motivazione “può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame dei punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione” (ex multis, Cass. n. 8718/2005). Inoltre, l’omissione o insufficienza della motivazione resta integrata solo a fronte di una totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero di una palese illogicità del tessuto argomentativo, ma non anche per eventuali divergenze valutative sul significato attribuito dal giudice agli elementi delibati, non essendo il giudizio per cassazione un terzo grado di merito (Cass. S.U. n. 24148/2013; Cass. n. 12779/2015 e n. 12799/2014).

Del resto, esercitandosi l’ufficio motivazionale su un percorso argomentativo che presuppone, in ragione della natura presuntiva dell’accertamento, la selezione del materiale indiziario e quindi la valutazione degli elementi provvisti della necessaria concludenza probatoria, il riesame di essi che si richiede, laddove non siano evidenziabili vizi logici, costituisce accertamento di merito che esula notoriamente dai limiti del controllo di logicità della motivazione affidato a questa Corte.

La CTR ha dato conto di avere esaminato gli elementi forniti ed ha effettuato una adeguata disamina della realtà fattuale, rendendo, così, possibile il controllo sulla logicità del ragionamento sviluppato per giungere alla rassegnata decisione.

2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56 e dell’art. 346 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c. per non avere la CTR valutato la preliminare eccezione di inammissibilità dell’appello dell’ufficio per difetto di specificità.

La censura non è fondata.

Questa Corte ha più volte affermato che nel processo tributario la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni inizialmente poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della dedotta legittimità dell’accertamento (per l’Amministrazione finanziaria), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci (Cass. 32954/2018).

3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in relazione all’art. 360 c.p.c. lamentando il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento.

La censura non è fondata.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte, l’avviso di accertamento, costituente l’atto con il quale l’Amministrazione esercita la propria pretesa tributaria nei confronti del contribuente, soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente medesimo in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur”. Tale atto deve ritenersi, pertanto, correttamente motivato – anche nel regime di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7 – ove esso faccia riferimento ad un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza regolarmente notificato o consegnato all’intimato, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria non è tenuta affatto ad includere nell’avviso di accertamento notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, nè a riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto (Cass. 6232/03; 7360/11; altresì cfr. Cass. V, 26472/14; ed ancora Cass. VI – 5 n. 9008/17).

4.Con il quarto motivo si deduce la omessa e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c.; carenza di prova dell’accertamento.

Lamentano che il giudice di appello aveva omesso di vagliare le tesi e la documentazione prodotta dai ricorrenti.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono violazione di legge, illogicità, difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c..

Lamentano che la CTR non aveva valutato che, per produrre ricavi, ogni costi.

6. Con il sesto motivo i ricorrenti deducono violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 6, 19 e 21, in relazione all’art. 360 c.p.c. lamentando che la CTR non aveva accertato che l’Iva andava comunque detratta e non poteva essere recuperata.

La censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse non sono fondate.

6.1. La giurisprudenza che si è andata consolidando sulla problematica relativa alla detraibilità dell’IVA e alla deducibilità dei costi nel caso di fatture per operazioni inesistenti è stata oggetto di numerose pronunce di questa Corte ed è stata ripercorsa da Cass. n. 24426 del 30/10/2013. La fattura, di regola, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deducibilità dei costi; spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto. La dimostrazione può consistere in presunzioni semplici, poichè la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 06/06/2012). Nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o deduzione dei costi, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”); l’amministrazione per disattendere la contabilità del contribuente, deve indicare qualche elemento, anche indiziario, che infici la contabilità e non può limitarsi a una generale ed apodittica non accettazione della documentazione del contribuente (Cass. n. 21953/2007; Cass. n. 1727/2007). A quel punto grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettività delle operazioni contestate. Quest’ultima prova non potrà consistere, però, nella esibizione della fattura, nè nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (tra le altre, Cass. n. 15228 del 03/12/2001; Cass. n. 12802 del RGN L.5.11/11 10/06/2011). E’ poi evidente che, in caso di accertata assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente (il quale sa bene se ha effettivamente ricevuto o meno una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi) (Cass. n. 18118 del 14/09/2016).

6.2.0sserva il Collegio che principi più articolati trovano applicazione in relazione al caso in cui l’Amministrazione contesti che la fatturazione attenga ad operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente è stato realmente destinatario). In relazione al tema delle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, sorge, peraltro, l’esigenza della tutela della buona fede del contribuente, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

Orbene, in tema di indebita detrazione di fatture ai fini i.v.a. in quanto relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell’Amministrazione finanziaria fornire la prova, anche mediante presunzioni semplici, che la prestazione, oggetto della fattura, non è stata resa dal fatturante e che il cessionario non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella realizzata da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’1.v.a. (cfr. Corte Giust. 22 ottobre 2015, causa C277/14; Corte Giust. 6 luglio 2006, cause C-439/04 e C- 440/04); è, dunque, sufficiente la dimostrazione che il cessionario poteva avere conoscenza dell’esistenza della frode fiscale e, conseguentemente evitare di restarne coinvolto attraverso possibilità l’adozione di tutte le misure esigibili secondo l’ordinaria diligenza, mentre non è richiesta anche la prova della effettiva consapevolezza della frode, nè, tanto meno, della partecipazione alla stessa da parte del cessionario medesimo; – nelle ipotesi più complesse (come la cd. “frode carosello”, caratterizzata da una catena di passaggi, con fatturazioni per operazioni sia oggettivamente che soggettivamente inesistenti, nonchè interposizioni strumentali di società cd. “filtro”), l’amministrazione deve dimostrare gli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la partecipazione ad essa, o la consapevolezza di essa, da parte del contribuente e può trarre utili elementi dal coinvolgimento di una società cd. “cartiera”, dalla presenza di una o più società filtro e dal meccanismo dell’operazione e dagli scopi che si propone (cfr. Cass.12727/2018; Cass. 12712/2018; Cass. 9 settembre 2016, n. 17818; Cass. 5 dicembre 2014, n. 25578; Cass. 20 giugno 2012, n. 10167). In quelle più semplici (operazioni soggettivamente inesistente di tipo triangolare) tale onere può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione, poichè l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’1.v.a. a soggetto non legittimato alla rivalsa nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta (cfr. Cass. 21 aprile 2017, n. 10120; Cass. 30 ottobre 2013, n. 24426). Nella specie la CTR ha evidenziato che dal p.v.c. della G.d.F., peraltro riprodotto nel ricorso, si evinceva che le società fornitrici di servizi non avevano esibito alcun tipo di documentazione, non avevano personale alle dipendenze, avevano presentato dichiarazioni dei redditi con dati fittizi oppure avevano omesso la presentazione della dichiarazione, non avevano versato imposte, non avevamo a disposizione nè mezzi nè beni idonei allo svolgimento dell’attività. Inoltre, la maggior parte dette società erano amministrate dagli stessi soci o da parenti degli stessi e spesso da persone che ignoravano perfino le attività svolte.

Da tutto ciò la CTR ha ricavato un giudizio di inattendibilità complessiva delle fatture. Tale circostanze appaiono, di per sè, idonee a determinare il ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente.

6.3. Ai fini della prova dell’esistenza di un’operazione non è sufficiente produrre la relativa fattura in quanto l’emissione della fattura può prescindere dall’effettiva prestazione; perciò il contribuente, a fronte della contestazione dell’Amministrazione circa l’inesistenza di un’ operazione, ha l’onere di dimostrare la effettività del contratto e non può limitari a dar prova dell’emissione della fattura che per la sua formazione unilaterale e la sua inerenza a un rapporto già formato tra le parti, ha natura di atto partecipativo e non di prova documentale. (Cfr Cass. 27 ottobre 2010 n. 21949).

Infatti non è detraibile l’iva per operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto l’IVA che il cessionario assume di avere pagato al preteso cedente per tali operazioni – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa, giacchè non era (almeno in astratto, salva la previsione del D.P.R., art. 21, comma 7, che mira a recuperare comunque, in concreto, all’Erario il relativo importo) neppure assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta – non può essere detraibile ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19. L’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente, invero, il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista. Siffatta alterazione determina, infatti una duplice conseguenza negativa per l’Erario. La prima consiste nell’indebito vantaggio fiscale per il cessionario dei beni o dei servizi, che fruisce di una detrazione non dovuta, dal momento che la mera corresponsione dell’imposta al cedente apparente dei beni o dei servizi non vale a realizzare il presupposto della detrazione, finalizzata a affrancare l’imprenditore dal carico dell’IVA sulle operazioni passive poste in essere, richiedendosi altresì l’inerenza di tali operazioni alla stessa attività di impresa che il meccanismo della detrazione mira a sgravare sul piano fiscale. Tale requisito è carente in relazione all’IVA corrisposta al soggetto interposto, trattandosi di un costo che – com’è ovvio – non inerisce all’istituzionale attività di impresa, ma che costituisce potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse. Senza dire che la provenienza della merce (o del servizio) da un soggetto diverso da quello figurante sulle fatture integra una circostanza tutt’altro che indifferente ai fini IVA, anche sotto il profilo dell’incidenza della qualità del venditore sulla misura dell’aliquota e, di conseguenza, sull’entità dell’imposta detraibile dall’acquirente. (Cass. Sent. n. 23078 del 14 dicembre 2012).

Come sopra rilevato, in ipotesi di fatturazione per operazione soggettivamente inesistente consistita nella diretta acquisizione della prestazione da soggetto certamente diverso da quello che ha emesso fattura e percepito l’iva in rivalsa, la prova che la prestazione non è stata effettivamente eseguita dal fatturante, essendo questo privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione medesima, costituisce di per sè elemento idoneamente sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente (nel senso sopra precisato), poichè l’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore – fatturante – cessionario o committente) induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’iva a soggetto non legittimato alla rivalsa nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta; con l’effetto che, in tal caso, sarà il contribuente a dover provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri.

6.4.Quanto ai costi, si osservi che i ricorrenti non hanno invocato, già in sede di appello, pur potendolo fare, l’ius superveniens di cui al D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, (convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44), a mente del quale “la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, è sostituito dal seguente: “4-bis. Nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 cod. cit. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p…..””;

Nel giudizio di legittimità, di regola lo “jus superveniens” che introduca una nuova disciplina del rapporto può trovare applicazione solo quando la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del ricorso per cassazione, e ciò perchè, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti legali che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti. Allorquando, invece, la nuova normativa sia intervenuta prima della proposizione del ricorso, in difetto di una specifica censura del ricorrente che denunci il contrasto delle norme di diritto applicate nelle fasi di merito con la nuova disciplina del rapporto in contestazione, la Corte non può rilevare d’ufficio tale contrasto, così come non può, senza specifica censura, rilevare la violazione di altre norme di diritto (Cass. 19617/2018; Cass. 3492/2005).

7. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge, difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c. lamentando che la CTR aveva disatteso l’eccezione di difetto di legittimazione passiva dei soci sebbene l’avviso di accertamento nulla riferisse circa la motivazione della notifica ai soci.

8. Con l’ottavo motivo i ricorrenti deducono violazione di legge e del diritto di difesa; illogicità e difetto di motivazione, lamentando che la CTR non aveva accertato che l’avviso non faceva alcun riferimento ai soci.

Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse non sono fondate.

In materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è ammessa la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria (da ultimo Cass. 33979/2019), che la CTR ha ritenuto non adeguatamente fornita.

9. Con il nono motivo i ricorrenti deducono omessa pronuncia circa un fatto controverso e decisivo ai fini del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 lamentando che la CTR non aveva esaminato l’eccezione di non utilizzabilità dei dati raccolti dalla Guardia di Finanza per permanenza degli operatori oltre il termine di legge.

La censura non è fondata.

La CTR ha rigettato l’eccezione evidenziando che la protrazione della verifica oltre l’arco temporale normativamente previsto era legittima in quanto le operazioni si erano svolte presso gli uffici della Guardia di Finanza e non avevano influito sulla normale attività di gestione dell’impresa.

In ogni caso questa Corte ha più volte affermato che in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, nè la nullità di tali atti può ricavarsi dalla “ratio” delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione” (Cass. 11878/2017; Cass. 10481/2017n. 17002 del 2012; negli stessi termini Cass. n. 14020 del 2011 e Cass. n. 19338 del 2011).

Il ricorso deve essere, conseguentemente, rigettato.

Nulla sulle spese in considerazione del fatto che l’Agenzia non ha svolto difese, essendosi costituita solo al fine della partecipazione all’udienza di discussione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2020

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