Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19786 del 27/09/2011

Cassazione civile sez. trib., 27/09/2011, (ud. 23/06/2011, dep. 27/09/2011), n.19786

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. FERRUA Giuliana – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21568/2006 proposto da:

RICCARDO GAY MODEL MANAGEMENT SRL in persona dell’Amministratore e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA

FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MARONGIU GIOVANNI, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 202/2005 della COMM.TRIB.REG. di MILANO,

depositata il 22/12/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato MARONGIU, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato GIORDANO, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

1. Con sentenza n. 202/06/05, depositata il 22.12.05 e notificata il 17.5.06, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla Riccardo Gay Model Management s.r.l., ed accoglieva, invece, l’appello incidentale proposto dalla Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 6, avverso la decisione di prime cure, con la quale era stato parzialmente accolto il ricorso proposto dalla società contribuente nei confronti di tre avvisi di accertamento, emessi a seguito dell’iscrizione a ruolo delle maggiori imposte e sanzioni per IRPEG ed ILOR, relative gli anni 1994, 1995 e 1996.

2. La CTR riteneva, invero, pienamente fondati gli addebiti mossi dall’Ufficio alla contribuente in relazione all’effettuata deduzione di costi, consistenti in esborsi a favore della società inglese Lyon Trading LTD per operazioni ritenute inesistenti, nonchè all’indeducibilità dei canoni relativi alla locazione di un immobile ad uso foresteria, concesso, in realtà, in uso gratuito ad un dipendente.

2.1. Il giudice di appello considerava, per contro, non gravata da appello incidentale – e, pertanto, passata in cosa giudicata – la statuizione del giudice di primo grado, favorevole alla Riccardo Gay Model Management, e concernente la mancata dichiarazione di elementi positivi di reddito.

3. Per la cassazione della sentenza n. 202/06/05 ha proposto ricorso la Riccardo Gay Model Management, articolando sette motivi, ai quali l’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso.

Diritto

1. Con il primo motivo di ricorso, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

1.1. Allega invero, la ricorrente che la CTR avrebbe implicitamente – ed, a suo dire, erroneamente – disatteso l’eccezione, proposta da essa istante, di inammissibilità dell’appello incidentale proposto dall’Ufficio, per violazione del disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53. Tale inammissibilità conseguirebbe, a parere della istante, al fatto che l’amministrazione si sarebbe limitata a riproporre, con il gravame incidentale, gli stessi argomenti già dedotti in prime cure, non consentendo, in tal modo, al giudice di appello di individuare e verificare le ragioni per le quali la decisione di primo grado non veniva condivisa dall’appellante, in relazione a quei punti specifici investiti dalle argomentazioni già proposte nel primo grado del giudizio.

1.2. Nella specie, ad avviso della Riccardo Gay s.r.l., l’Agenzia delle Entrate si sarebbe limitata a ribadire, con il gravame incidentale, l’indeducibilità dei costi connessi alla corresponsione – a favore della società inglese Lyon Trading Ltd., con sede legale in (OMISSIS) e sede secondaria a (OMISSIS) – di una commissione pari al 15%, quale compenso per lo svolgimento del compito di scelta e gestione delle modelle (c.d. scouting), effettuata in relazione all’attività svolta dalla Riccardo Gay Model Management s.r.l.

Quest’ultima, invero, è una società di servizi, che ricerca e seleziona, per i propri clienti, modelli/e per sfilate, ed effettua servizi fotografici ed altre attività connesse.

Ebbene, ad avviso della ricorrente, tale argomentazione difensiva concernente l’indeducibilità dei costi suindicati, già svolta in prime cure e già addotta a motivo della ripresa a tassazione di detti costi operata dall’Ufficio con i tre avvisi di accertamento impugnati nel presente giudizio, sarebbe del tutto inidonea a giustificare l’appello incidentale dell’amministrazione, in relazione al disposto dell’art. 53 del D.Lgs., che richiede l’indicazione specifica dei motivi di impugnazione.

1.3. Ciò posto, rileva la Corte che il motivo di ricorso, si palesa del tutto destituito di fondamento e va, pertanto, disatteso.

1.3.1. Va osservato, invero, che il requisito della specificità dei motivi, previsto in via generale dall’art. 342 c.p.c., e per il processo tributario dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, postula esclusivamente la necessità che l’esposizione dell’appellante consenta di individuare con chiarezza le statuizioni della sentenza di primo grado investite del gravame, nonchè le specifiche critiche ad esse rivolte.

Ne consegue che, se certamente non può considerarsi sufficiente un generico richiamo alle difese svolte in prime cure, non può revocarsi in dubbio che possa considerarsi sufficiente ad assolvere l’onere di impugnazione specifica, imposto dalle norme suindicate, la specifica riproposizione delle stesse difese (cfr., in tal senso, Cass. 11781/05, 14031/06/, 18111/09).

1.3.2. Per il che, l’amministrazione ben poteva, nel caso di specie, ribadire in appello il proprio convincimento circa la non deducibilità dei costi summenzionati, già espresso in prime cure;

tanto più che tale asserita indeducibilità costituiva, in definitiva, il nucleo centrale della ripresa a tassazione contenuta negli atti impositivi oggetto di lite.

2. Con il secondo motivo di ricorso, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. deduce la nullità dell’impugnata sentenza per ultrapetizione e/o extrapetizione, in relazione all’art. 112 c.p.c., e art. 360 c.p.c., n. 4.

3. Inoltre, con la terza censura avverso la decisione di appello, la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (ora art. 109), nonchè l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

3.1. I due motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, attesa la loro evidente connessione.

3.1.1. Con le suesposte censure la Riccardo Gay Model Management s.r.l. allega, infatti, che il giudice di appello avrebbe violato il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, laddove ha considerato non deducibili i costi correlati ai pagamenti delle commissioni, in misura pari al 15%, a favore della società Lyon Trading Ltd., atteso che tali costi risulterebbero “privi dei necessari requisiti di deducibilità fiscale, quanto meno per carenza degli elementi di certezza e precisione di cui all’art. 75 T.U.I.R., ora art. 109”.

Ebbene, osserva la ricorrente che gli avvisi di accertamento notificati alla Riccardo Gay Model Management s.r.l. sarebbero stati, per contro, inequivoci nell’individuare la causa della ripresa a tassazione nella “radicale inesistenza” delle operazioni intercorse con la suddetta società inglese; inesistenza, a sua volta, desunta dalla ritenuta sostanziale inoperatività di detta società, secondo l’Ufficio priva di qualunque organizzazione imprenditoriale e commerciale.

Se ne dovrebbe inferire che, poichè “esistenza” e “certezza”, ad avviso della ricorrente, costituiscono concetti del tutto diversi, il costo inesistente non potrebbe in alcun modo essere equiparato al costo privo di certezza, non essendo affatto scontato che i costi incerti siano, perciò solo, inesistenti.

Sicchè il giudice del gravame non avrebbe potuto – ostandovi il principio di conformità tra chiesto e pronunciato, espresso dall’art. 112 c.p.c., – dedurre l’inesistenza delle operazioni (censurata dagli avvisi di accertamento impugnati dalla contribuente) dal rilievo che i costi sarebbero “quanto meno” privi di certezza e di precisione, dando luogo l'”incertezza” del costo all’accertamento di un requisito diverso da quello dell’inesistenza, e dunque tale da comportare un, non consentito, ampliamento del thema decidendum.

3.1.2. In definitiva, dunque, a parere della Riccardo Gay Model Management s.r.l., l’impugnata sentenza avrebbe finito con il fondare – sul punto – la decisione della controversia sul parametro della mera “verosimiglianza”, nel senso che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, “escluderebbe dal novero degli elementi che partecipano al calcolo del reddito di impresa quelli da stimarsi come (soltanto) verosimili”.

Il che troverebbe conferma nell’uso dell’avverbio “quantomeno” adoperato dalla decisione di appello, con riferimento ai costi ritenuti dalla CTR non deducibili, in quanto, men che inesistenti, sarebbero perlomeno “inverosimili”.

Epperò, in tal modo, il giudice di appello – oltre ad avere ecceduto, come dianzi detto, i limiti del thema decidendum – avrebbe “fondato il proprio ragionamento sopra un parametro del tutto ignoto alla normativa sul reddito di impresa e, pertanto, sprovvisto di qualsivoglia giuridico fondamento”; di qui la dedotta violazione e/o falsa applicazione del disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75.

3.2. Premesso quanto precede, osserva la Corte che le suesposte doglianze sono del tutto prive di fondamento, e non possono, pertanto, trovare accoglimento.

3.2.1. Va osservato, invero, che – a norma del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4, (nel testo previgente, applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis) – “le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e altri proventi, che pur non risultando imputati al conto dei profitti e delle perdite concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi”.

Deve, inoltre rilevarsi, al riguardo, che il D.P.R. n. 695 del 1996, art. 5, ha abrogato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 6, il quale escludeva la deducibilità delle spese ed altri componenti negativi in caso di omessa od irregolare registrazione nelle apposite scritture contabili ai fini delle imposte sui redditi.

Dalla novella è derivato, pertanto, – com’è dichiara evidenza – un consistente ampliamento del regime della prova dei costi da parte del contribuente, atteso che tale dimostrazione in ordine alla sussistenza dei componenti negativi del reddito può essere ora fornita anche con mezzi diversi dalle scritture contabili. E tuttavia, è pur sempre indispensabile che siffatti elementi di prova siano dotati dei requisiti della “certezza” e della “precisione”, prescritti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4.

3.2.2. Da quanto precede deriva, pertanto, che, ai fini della determinazione del reddito di impresa, anche i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti possono essere dedotti, purchè il contribuente ne dimostri l’effettiva sussistenza, l’ammontare e l’inerenza.

Il che equivale a dire che l’effettività del costo esposto postula, pur sempre, la dimostrazione della sua precisione e certezza sul piano oggettivo (prova dell’esistenza di detto elemento negativo del reddito e del suo preciso ammontare), ancorchè il soggetto che ha effettuato la prestazione, che da luogo alla spesa dedotta, sia diverso dall’emittente le fatture per operazioni inesistenti (cfr.

Cass. 3305/09, 1147/10).

3.2.3. Alla stregua di tali considerazioni, dunque, ad avviso della Corte non possono in alcun modo ravvisarsi, nel caso concreto, le dedotte violazioni, da parte del giudice di appello, del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonchè del disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75.

Ed invero, la CTR muove dagli analitici rilievi mossi alla contribuente dalla Guardia di Finanza nel processo verbale di constatazione, posto a fondamento degli avvisi di accertamento, e dall’esame della documentazione prodotta dall’Ufficio e proveniente dalle autorità fiscali britanniche, attestante il carattere fittizio e la non operatività della società inglese Lyon Trading Ltd., derivante dall’assenza di una qualsiasì struttura ed organizzazione imprenditoriale – commerciale in capo alla medesima.

Il giudice di appello rileva, quindi, che – a fronte di tali elementi probatori, costituenti presunzioni “gravi, precise e concordanti”, e comprovanti l’inesistenza soggettiva delle operazioni che avrebbero dato origine a costi deducibili – nessun elemento “certo e preciso” di prova circa l’oggettiva sussistenza di detti costi, magari originati da rapporti con soggetti diversi dalla predetta società inglese, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4, ha fornito la società contribuente. Ed infatti, la CTR non reputa decisiva, al riguardo, – per le ragioni che in seguito si esporranno – neppure l’assoluzione, pronunciata dal Tribunale di Milano, del legale rappresentante della Riccardo Gay Model Management s.r.l.

dall’imputazione di avere indicato nelle dichiarazioni dei redditi elementi passivi fittizi a supporto delle fatture provenienti dalla Lyon Trading Ltd, attestanti i costi di cui alla ripresa a tassazione.

3.2.4. In definitiva, dunque, nessuna esorbitanza rispetto ai limiti oggettivi del thema decidendum, ed alcuna incongruenza o erroneità nell’applicazione del disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4, è ravvisatile, a parere della Corte, nell’operato della CTR, che si è limitata – così come prescrive la norma suindicata a constatare la mancanza agli atti di “elementi certi e precisi” dai quali inferire l’oggettiva esistenza dei costi dedotti, una volta accertata l’inesistenza soggettiva delle operazioni che li avrebbero originati.

4. Con il quarto motivo di ricorso, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p., nonchè l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5).

4.1. Allega, in proposito, la ricorrente, che – con sentenza n. 1487/04, passata in cosa giudicata – il Tribunale di Milano aveva assolto con formula piena (“perchè il fatto non sussiste”) il legale rappresentante della Riccardo Gay Model Management s.r.l. dall’accusa di avere indicato, nelle dichiarazioni dei redditi della società, per il periodo 1994-1999, elementi passivi fittizi, utilizzando fatture per operazioni inesistenti, relative ai servizi resi da due società inglesi, dapprima la Lyon Trading Ltd. (fino al 1998), poi la Riccardo Gay Limited. Ebbene, osserva la ricorrente che, sebbene possa concordarsi con la CTR sull’affermazione relativa al carattere non vincolante del giudicato penale nel processo tributario, tale assunto non poteva, peraltro, a parere della Riccardo Gay Model Management s.r.l., autorizzare il giudice di appello a pretermettere ogni valutazione e apprezzamento della sentenza “quale mezzo di prova dei fatti oggetto di giudizio”.

Per converso, la CTR avrebbe omesso qualsiasi considerazione delle risultanze della sentenza penale, limitandosi ad escluderne l’efficacia nel giudizio tributario, ed incorrendo, in tal modo, nei vizi denunciati.

4.2. Il motivo di ricorso è infondato e va disatteso.

4.2.1. Rileva, invero, la Corte che l’efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo, sancita dall’art. 654 c.p.p., è subordinata ad una duplice condizione: a) che il giudicato stesso sia fatto valere nei confronti di chi abbia partecipato al giudizio penale; b) che la legge civile non ponga limiti alla prova del diritto controverso. L’efficacia vincolante del giudicato penale non può operare, dunque, nel processo tributario, giacchè in esso, da un lato, vigono limitazioni alla prova (segnatamente il divieto di prova testimoniale, sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7) e, dall’altro, possono valere, sul piano probatorio, anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (v. Cass. 10411/98, 2728/01, 6337/02).

In realtà, va considerato che la struttura e le finalità del giudizio tributario, volto ad accertare la sussistenza e l’entità dell’obbligazione tributaria, di spiccata rilevanza pubblicistica, mal si conciliano con un’efficacia vincolante del giudicato conseguito in sede penale, che può essere valutato, dunque, – ai fini del libero convincimento del giudice ex art. 116 c.p.c. – solo come elemento a carattere presuntivo ed indiziario, che va necessariamente posto a confronto, peraltro, con tutti gli altri elementi probatori acquisiti in atti. Ne discende che nel processo tributario anche la sentenza penale irrevocabile di assoluzione con formula piena, emessa – come nel caso concreto – “perchè il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato, sebbene i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per il quali l’amministrazione finanziaria abbia proposto l’accertamento nei confronti del contribuente (Cass. 5720/07). Il giudice tributario non può, pertanto, limitarsi a rilevare l’esistenza di sentenze penali in materia di reati tributari, recependone – acriticamente -le conclusioni assolutorie, ma è tenuto ad operare un’autonoma valutazione di dette pronunce, nel quadro complessivo degli elementi di prova acquisiti nel corso dell’intero giudizio (Cass. 10945/05, 5720/07, 20860/10).

4.2.2. Da tali affermazioni di principio consegue che, qualora l’amministrazione finanziaria abbia fornito elementi di prova atti ad affermare la falsità di fatture, che supportino deduzioni di costi ai fini della determinazione del reddito di impresa, può accadere che il contribuente offra, anche mediante la produzione di un giudicato penale, validi indizi di segno contrario, idonei a dimostrare l’effettiva realizzazione delle operazioni commerciali, sia pure con riferimento a soggetti non correttamente identificati (Cass. 9958/08). Sì già è detto invero, che anche un’operazione soggettivamente inesistente può dare luogo a costi deducibili, purchè il contribuente ne dimostri l’effettiva sussistenza, l’ammontare e l’inerenza.

E tuttavia, si è anche già avuto modo di rilevare che non risulta agli atti che la Riccardo Gay Model Management s.r.l. abbia fornito la prova di avere posto in essere le operazioni contestate dall’Ufficio con soggetti diversi dalle due società inglesi sopra menzionate. Ebbene, in un’ipotesi di tal fatta non può revocarsi in dubbio, a parere della Corte, che il giudice tributario non possa che appuntare la sua attenzione – come è in concreto accaduto – sui soggetti tra i quali siano intercorse le operazioni ritenute dall’amministrazione soggettivamente inesistenti. In tale ipotesi, invero, il medesimo giudice di merito dovrà prendere in esame il quadro indiziario complessivo, al fine di accertare se le operazioni commerciali siano state effettivamente poste in essere, stabilendo, quindi, la reale entità dell’evasione contestata (Cass. 9958/08).

4.2.3. Nel caso concreto – contrariamente all’assunto della società ricorrente – la sentenza di appello, dopo avere preso in esame e sottoposto ad autonoma valutazione la sentenza penale di assoluzione del legale rappresentante della Riccardo Gay Model Management s.r.l., ha, poi, dato ampiamente ed analiticamente conto dei diversi elementi indiziari di segno contrari, idonei – ad avviso della CTR – ad elidere le risultanze del giudicato penale, nell’ottica, sopra delineata, di una piena autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale. Tali elementi, in via di estrema sintesi, sono rappresentati da: 1) le risultanze complessive del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza; 2) le informative delle autorità fiscali britanniche attestanti il carattere fittizio della società Lyon Trading Ltd; 3) l’accertata irregolare tenuta della contabilità da parte della società contribuente; 4) l’usuale assenza di contratti scritti con le modelle, che sottoscrivevano solo della “liberatorie”, delegando la Riccardo Gay Model Management s.r.l. anche a fatturare e ad incassare, per loro conto, dagli utilizzatori delle loro prestazioni professionali, i compensi per l’attività svolta; 5) la non autenticità, in un consistente numero di casi, della sottoscrizione apposta sulle suddette “liberatorie”, ammessa perfino dallo stesso amministratore della Riccardo Gay Model Management s.r.l. (“a volte la firma della modella non è autentica, in quanto viene siglata da noi con il nome della modella”).

4.2.4. Da quanto suesposto deve, di conseguenza, inferirsi – ad avviso della Corte – la piena correttezza dell’impugnata sentenza, oltre che sotto il profilo del rispetto del disposto di cui all’art. 654 c.p.p., anche sul piano motivazionale. Sicchè la censura in esame non può che essere ritenuta del tutto destituita di fondamento.

5. Con il quinto motivo di ricorso, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 123 c.p.c., e art. 2702 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

5.1. Si duole, invero, la ricorrente del fatto che la CTR abbia effettuato un ampio rinvio ai “documenti trasmessi dalle autorità fiscali britanniche”, prodotti dall’Ufficio all’udienza del 30.12.04.

Tali documenti sarebbe, per contro, – a parere dell’istante – privi di qualunque efficacia probatoria nel processo, essendo del tutto sforniti di sottoscrizione, intestazione e timbri ufficiali dell’autorità straniera, e – per giunta – sarebbero stati redatti in lingua italiana.

L’assenza dei suindicati elementi, idonei ad attribuire alla documentazione in parola il crisma dell’ontologica esistenza sul piano giudico, e l’assenza in atti dell’originale in lingua inglese – tale da consentire un raffronto con quella che appare una traduzione in lingua italiana – avrebbero dovuto, per contro, indurre il giudice di appello a negare una qualsivoglia efficacia probatoria, ai fini della formazione del suo convincimento, ai suddetti documenti.

5.2. Ciò premesso, va osservato che il motivo di ricorso è inammissibile per violazione del c.d. principio di autosufficienza, più volte enunciato da questa Corte anche in epoca precedente l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, con il quale è stato introdotto un nuovo n. 6, all’art. 366 c.p.c., comma 1, a tenore del quale il ricorso – oltre alle altre indicazioni specificate dalla norma – deve contenere, a pena di inammissibilità, “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”.

5.2.1. Ed invero, il rispetto del menzionato principio di autosufficienza – posto a presidio della corretta delimitazione del thema decidendum del giudizio di cassazione – postula che il ricorso contenga in sè tutti gli elementi necessari per individuare le ragioni poste a fondamento della richiesta di annullamento della sentenza impugnata, e per valutare la fondatezza di tali ragioni, di modo che il giudice di legittimità possa avere, senza dovere ricorrere ad altri atti, una chiara e completa visione dell’oggetto dell’impugnazione, dello svolgimento del processo (art. 366 c.p.c., n. 3) e della posizione in esso assunta dalle parti (cfr., tra le tante, Cass. 6023/09, 15952/07, 7392/04).

Con specifico riferimento all’indicazione degli atti processuali e dei documenti, va, di poi, precisato che tale indicazione – in ossequio al principio suesposto – deve concretarsi nella trascrizione integrale dell’atto, o del documento, quanto meno nei suoi passaggi essenziali e controversi. Tale trascrizione è, invero, indispensabile al fine di consentire alla Corte di formulare, sulla base dello stesso ricorso, e senza attingere ad altri atti, il giudizio di fondatezza, o meno, delle censure mosse dal ricorrente alla decisione impugnata (cfr., in tal senso, ex plurimis, Cass.S.U. 23019/07, 5043/09, 17915/10). 5.2.2. Ebbene, nel caso di specie, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. non ha nè trascritto nel ricorso, nè depositato, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., i documenti inglesi che si assumono privi di sottoscrizioni e formalmente irregolari. Ne deriva che la censura in esame, per le ragioni che precedono, non può che essere considerata del tutto inammissibile.

6. Con il sesto motivo di ricorso, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

6.1. Con specifico riferimento all’addebito mosso dall’Ufficio alla società contribuente, in relazione all’indeducibilità dei canoni relativi alla locazione di un immobile ad uso foresteria – concesso, in realtà, in uso gratuito ad un dipendente – la Riccardo Gay Model s.r.l. Management s.r.l. lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c., nonchè delle regole che presiedono, anche nel processo tributario, alla ripartizione tra le parti dell’onere di provare i fatti allegati.

Ad avviso della ricorrente, invero, incomberebbe sull’Ufficio, e non sul contribuente come ritenuto dalla CTR, l’onere di provare il fatto addotto a fondamento della ripresa a tassazione, ovverosia – nel caso di specie – la circostanza che l’immobile “è stato utilizzato ad uso gratuito dal dipendente P.P.”.

6.2. Anche tale motivo di ricorso, peraltro, ad avviso della Corte si palesa pienamente infondato.

6.2.1. Ed invero, la vista possibilità per l’imprenditore di dedurre dal reddito imponibile anche i costi di impresa non risultanti dalle scritture contabili, introdotta dal D.P.R. n. 695 del 1996, art. 5, non costituisce una deroga alle regole generali in tema di riparto dell’onere della prova, restando, quindi, a carico dell’imprenditore medesimo, e non dell’amministrazione finanziaria, dimostrare di avere effettivamente sostenuto i costi dei quali chiede la deduzione (Cass. 3305/09, 1147/10).

6.2.2. La censura suesposta deve, pertanto, essere respinta.

7. Con il settimo motivo di ricorso, la Riccardo Gay Model Management s.r.l. deduce, infine, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

7.1. Si duole, invero, la contribuente del fatto che il giudice di appello abbia condannato essa istante alla rifusione delle spese del giudizio in favore dell’amministrazione finanziaria, anzichè procedere alla loro compensazione.

Sostiene, invero, la ricorrente che il potere discrezionale del giudice di operare siffatta compensazione, sancito dall’art. 92 c.p.c., non potrebbe tradursi in un’arbitraria condanna della parte alle spese del giudizio, senza una adeguata valutazione di tutte le circostanze della controversia da parte del giudicante.

7.2. Il motivo di ricorso è del tutto inammissibile.

7.2.1. Va osservato, per vero, che la valutazione dell’opportunità di compensare totalmente o parzialmente le spese di lite, in caso di soccombenza reciproca o di sussistenza di altri giustificati motivi, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, non censurabile in cassazione, secondo una giurisprudenza del tutto consolidata di questa Corte (cfr. Cass. 5909/99, 12431/00, 5327/01, 5828/06).

Nel caso di specie, poi, la censurabilità dell’operato del giudice di appello, in punto condanna alle spese di lite, è esclusa in radice dalla considerazione del fatto che la Riccardo Gay Model Management s.r.l. è rimasta totalmente soccombente nel giudizio di secondo grado, essendo stato rigettato l’appello dalla medesima proposto e, viceversa, accolto il gravame incidentale dell’Ufficio.

Il potere del giudice di compensare, in tutto o in parte le spese di lite viene, difatti, meno, qualora una delle parti risulti totalmente soccombente all’esito del processo, atteso che l’art. 91 c.p.c., impone al giudice di condannare la parte soccombente al pagamento totale delle spese giudiziali, non potendo queste ultime essere poste, neppure parzialmente, a carico della parte risultata pienamente vittoriosa (v. Cass. 10009/03, 5386/03, 12963/07).

8. Per tutte le ragioni che precedono, pertanto, il ricorso non può che essere totalmente rigettato.

9. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione;

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dall’intimata nel presente giudizio, che liquida in Euro 12.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Tributaria, il 23 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2011

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