Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19758 del 03/10/2016


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Cassazione civile sez. VI, 03/10/2016, (ud. 13/07/2016, dep. 03/10/2016), n.19758

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina L. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22817-2015 proposto da:

SOGET SPA – SOCIETA’ GESTIONE ENTRATE E TRIBUTI, in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, CORSO D’ITALIA 19, presso lo studio

dell’avvocato SERGIO DELLA ROCCA, (presso STUDI LEGALI RIUNITI) che

la rappresenta c difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ARCA JONICA, già IACP – Istituto Autonomo per le Case Popolari di

Taranto, in persona del Commissario Straordinario e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA DI VILLA CARPEGNA 58, presso lo studio dell’avvocato MARCO

PETRINI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIANO ZENI giusta

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

C.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 330/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE

SEZIONE DISTACCATA di TARANTO delr1/07/2015, depositata il

15/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. BARRECA GIUSEPPINA

LUCIANA;

udito l’Avvocato Sergio Della Rocca difensore della ricorrente che ha

chiesto raccoglimento del ricorso e la compensazione delle spese;

udito l’Avvocato Mariano Zeni difensore della controricorrente che ha

chiesto l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con la sentenza impugnata (n. 330 del 15 luglio 2015) la Corte d’appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto, ha rigettato l’appello proposto da SO.G.E.T. S.p.A. – Società Gestione Entrate e Tributi contro l’I.A.C.P. – Istituto Autonomo per le Case Popolari di Taranto (oltre che nei confronti del terzo pignorato) avverso la sentenza del Tribunale di Taranto (n. 1658 del 17 settembre 2012) con la quale era stata accolta l’opposizione all’esecuzione avanzata dall’Istituto, debitore esecutato in un’espropriazione presso terzi intrapresa da SO.G.E.T.; ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del grado, liquidate complessivamente in Euro 8.500,00, oltre accessori.

1.1. – La Corte d’appello, dopo aver richiamato la L. n. 720 del 1984, art. 1 bis (ritenuto applicabile all’IACP dal primo giudice, ma inapplicabile dalla Corte d’appello), ha reputato che la L. 23 dicembre 1996 n. 662, art. 2, comma 85, sottragga all’esecuzione forzata le somme ed i crediti dell’IACP derivanti dai canoni di locazione iscritti nei capitoli di bilancio o in contabilità speciale, destinati a fini istituzionali e che, nella specie, vi fosse (anche) una delibera, avente il n. 157 del 2004, con la quale, come comprovato dal bilancio di previsione approvato per l’anno finanziario (OMISSIS), detti crediti e somme erano stati destinati ai servizi e alle finalità dell’istituto nonchè al pagamento di emolumenti c competenze del personale dipendente. Ha perciò confermato la dichiarazione di nullità e di inefficacia dell’atto di pignoramento presso terzi notificato all’IACP, già pronunciata dal Tribunale.

2. – SO.G.E.T. S.p.A. – Società gestione Entrate e Tributi propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.

ARCA JONICA, già I.A.C.P. – Istituto Autonomo per le Case Popolari di Taranto, resiste con controricorso.

L’altro intimato non si difende.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo di ricorso col quale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, oltre ad essere inammissibile per erronea individuazione della norma di riferimento, è infondato.

Con questo la ricorrente assume che la sentenza sarebbe nulla per contrasto tra motivazione e dispositivo perchè, pur avendo “accolto” un motivo di appello (concernente l’inapplicabilità all’IACP della L. n. 720 del 1984, art. 1 bis) con motivazione favorevole all’appellante, non ne avrebbe dato atto nel dispositivo.

In realtà, il contrasto tra motivazione e dispositivo non sussiste perchè, come riconosce la stessa ricorrente, la Corte d’appello ha rigettato i motivi di gravame concernenti la seconda delle due rationes decidendi (in merito all’impignorabilità, su cui appresso) sulle quali era fondata la sentenza di primo grado, sicchè il dispositivo non avrebbe potuto essere altro che quello di rigetto del gravame, così come è stato.

Ogni altra censura attiene al regolamento delle spese, e come tale avrebbe dovuto essere proposta, non avendo nulla a che vedere con l’asserita inesistente nullità della sentenza.

Il motivo va perciò rigettato.

2. – Col secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 85, ed art. 12 disposizioni sulla legge in generale, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La società ricorrente sostiene che la norma non potrebbe essere interpretata come previsione diretta dell’impignorabilità, ex lege, delle somme e dei crediti derivanti all’IACP dai canoni di locazione e dalla alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, così come ritenuto dal giudice di merito. Rileva che, alla previsione astratta di legge, dovrebbe sempre seguire un provvedimento concreto dell’ente che conferisca una specifica destinazione a determinate somme rivenienti da canoni di locazione.

2.1. – Col terzo motivo si argomenta “sull’individuazione della causa petendi della domanda giudiziale introdotta dall’IACP. Sull’omessa allegazione della destinazione concretamente impressa ai canoni oggetto di pignoramento” e si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 85, e dell’art. 112 c.p.c..

La ricorrente sostiene che l’opponente IACP avrebbe fondato la propria opposizione soltanto sul presupposto dell’operatività ex lege dell’impignorabilità e che, perciò, sarebbe viziata da ultrapetizione la sentenza di merito nella parte in cui ha accertato e ritenuto sussistente la destinazione in concreto dei canoni di locazione alle finalità contemplale dal legislatore (che l’IACP di Taranto avrebbe posto in essere mediante la Delib. n. 157 del 2004, comprovata dalle risultanze del bilancio previsionale dell’anno 2010). Soggiunge che l’IACP, producendo la documentazione malamente esaminata dal giudice d’appello, non sarebbe comunque riuscito a dimostrare di avere specificamente destinato i canoni di locazione alle finalità di legge.

2.2. – I motivi non meritano di essere accolti.

Questa Corte si è già pronunciata su fattispecie identiche alla presente, affermando che la L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 2, comma 85, ha introdotto un’ipotesi di impignorabilità, a prescindere dalle modalità con le quali il pignoramento è (o dovrebbe essere) realizzato (vale a dire, a prescindere dall’applicabilità o meno all’IACP delle previsioni della L. 29 ottobre 1984, n. 720, su cui intra).

Considerato che anche la parte ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., ha dato atto dell’interpretazione fatta propria da questa Corte di Cassazione nei precedenti di cui alle sentenze n. 3773 – 3774 – 5266 – 6402 del 2016, è sufficiente qui richiamarne integralmente la motivazione e ribadirne il principio di diritto, espresso nei seguenti termini:

“La norma della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 2, comma 85, laddove dispone che le somme ed i crediti derivanti dai canoni di locazione e dall’alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica di spettanza degli istituti autonomi case popolari, in quanto destinati a servizi e finalità di istituto, non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, ai sensi dell’art. 828 c.c., costituisce norma di legge direttamente impositiva di un vincolo di impignorabilità di tali somme e crediti, come tale integrante un caso di limitazione della responsabilità patrimoniale di detti enti, ai sensi dell’art. 2740 c.c., comma 2, occorrendo al fine dell’insorgenza del vincolo soltanto che siano iscritti nei capitoli di bilancio o in contabilità speciale, senza che sia loro impressa alcuna specifica destinazione”.

Il secondo motivo di ricorso va perciò rigettato.

3. – Questo rigetto ed il principio di diritto che ne sta a fondamento comportano l’inammissibilità del terzo motivo, attinente alla destinazione in concreto dei canoni oggetto di pignoramento.

Poichè la L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 85, costituisce diretta attuazione della previsione dell’art. 2740 c.c., comma 2, la verifica in concreto compiuta dal giudice di merito (e censurata con questo motivo), va reputata irrilevante ai fini dell’accoglimento dell’opposizione dell’IACP (oggi Arca tonica). La ricorrente è perciò carente di interesse ad impugnare le relative statuizioni.

4. – Col quarto motivo si deduce violazione D.M. n. 140 del 2012 e violazione dell’art. 17 c.p.c., perchè la Corte d’Appello ha rigettato il motivo di gravame concernente la misura delle spese del primo grado di giudizio, male interpretando – a detta della ricorrente – l’art. 17 del codice di rito.

4.1. – In proposito non è pertinente la giurisprudenza richiamata dalla difesa della SO.G.E.T. S.p.A., in quanto si tratta di giurisprudenza relativa ai criteri di determinazione del valore della causa di opposizione agli atti esecutivi (Cass. n. 12354/06, n. 15633/10), e non di opposizione all’esecuzione. Quanto a quest’ultima, viene in rilievo appunto l’art. 17 c.p.c., comma 1, ai sensi del quale il valore delle cause di opposizione all’esecuzione forzata si determina dal credito per cui si procede. Per l’espropriazione presso terzi, il valore del credito per cui si procede è pari all’importo del credito precettato (non rilevando l’aumento della metà, che l’art. 546 c.p.c., fissa per delimitare gli obblighi di custodia del terzo).

Inoltre il D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 5, che è norma applicabile ratione temporis, prevede che, ai fini della liquidazione del compenso, il valore della controversia sia determinato a norma del codice di procedura civile, salve eccezioni (che non risultano essere state specificamente invocate con l’atto di appello – sicchè, per questo profilo, il motivo è inammissibile).

Alla stregua dell’art. 17 c.p.c., pertanto, lo scaglione di riferimento è stato correttamente determinato tenendo presente l’importo di Euro 965.428,98, che è il credito per cui la SO.G.E.T. S.p.A. procede, per come riconosciuto anche in ricorso.

Il motivo va perciò rigettato.

5. – Col quinto ed ultimo motivo si deduce violazione del D.M. n. 140 del 2012 e del D.M. n. 55 del 2014. Sproporzione ed illogicità. Con questo si censura la condanna alle spese del grado di appello.

La ricorrente lamenta che la Corte d’appello non abbia tenuto conto che si era trovata a decidere ventisei cause identiche; che non abbia considerato che il valore della causa si sarebbe dovuto ritenere compreso nello scaglione “fino ad Euro 1.100” (avuto riguardo all’importo del credito pignorato); che comunque la condanna è sproporzionata ed illegittima, avulsa dai parametri di legge di cui al D.M. n. 55 del 2014. Chiede pertanto che, anche nel caso di rigetto degli altri motivi, il presente venga accolto con compensazione delle spese dei gradi di merito od, in subordine, con riconduzione della condanna alle spese entro i parametri di legge.

5.1. – La censura è inammissibile per la parte in cui lamenta la mancata compensazione delle spese, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., dal momento che, in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non e tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. S.U. n. 14989/05 e numerose altre). Trattasi di principio applicabile pure dopo le modifiche dell’art. 92 c.p.c., comma 2, perchè l’obbligo di motivazione imposto da questa norma riguarda l’ipotesi in cui la compensazione sia disposta, ma non anche l’ipotesi in cui si segua il principio della soccombenza (che l’art. 91 c.p.c. pone come regola in tema di riparto delle spese di lite, essendo la compensazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, prevista come eccezione). Poichè nella specie il giudice ha osservato l’art. 91 c.p.c., è inammissibile la censura che si basa su norma non applicata, e soltanto discrezionalmente applicabile.

5.2. – Il motivo è fondato per la parte -illustrata in particolare al punto 2. del motivo in esame- in cui lamenta la violazione dei parametri di liquidazione dei compensi professionali previsti dal D.M. n. 55 del 2014, insistendo sul valore effettivo da riconoscersi alla controversia.

Come detto, il giudice di secondo grado, ai fini della liquidazione dei compensi, si è attenuto al valore presunto ai sensi del codice di rito.

Tuttavia, il D.M. n. 55 del 2014, invocato dalla ricorrente, ed applicabile nella specie, prevede, all’art. 5, che “Nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, il valore della causa – salvo quanto diversamente disposto dal presente comma – è determinato a norma del codice di procedura civile.

In ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione speciale”.

Mentre la regola fissata dal D.M. n. 127 del 2004 – dal differente valore letterale – non consentiva, nei confronti del soccombente in giudizio, alcuna deroga rispetto al valore presunto a norma del codice di procedura civile (consentita invece per le liquidazioni da valere nei confronti del cliente), il D.M. del 2014 non solo consente, ma anzi impone (per come è fatto palese “in ogni caso si ha riguardo..”) di tenere conto del valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso” da quello presunto ed individua come uno dei possibili parametri di tale diversità gli “interessi perseguiti dalle parti”.

Ritiene il Collegio che la norma risponda alla censura della ricorrente laddove lamenta che il valore tenuto presente dal giudice per la liquidazione dei compensi sia di gran lunga superiore al valore effettivo della controversia, per come è reso palese dal fatto che, per tentare di conseguire la soddisfazione delle proprie ragioni creditorie, la SO.G.E.T. si è vista costretta ad instaurare – per quanto detto in ricorso, senza smentita nel controricorso – (almeno) ventisei procedure esecutive con pignoramento di crediti periodici e di importi non superiori ad Euro 1.100,00 mensili.

In applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 5, si ritiene che il valore effettivo della controversia in appello avrebbe dovuto essere commisurato a quest’ultimo importo, facendo riferimento allo scaglione corrispondente.

La sentenza impugnata va perciò cassata limitatamente alla liquidazione delle spese del grado di appello.

5.3.- Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte, decidendo nel merito, provvede alla liquidazione, attenendosi allo scaglione di riferimento fino ad Euro 1.100,00 ed ai valori minimi, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1. Le competenze risultano pari ad Euro 355,00, cui vanno aggiunti, mancando spese vive documentate dell’appellato Istituto, solo gli accessori di legge, come da dispositivo.

6. – La novità della questione di merito posta dal ricorso rende di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

Avuto riguardo all’accoglimento del quinto motivo di ricorso, non sussistono i presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso; accoglie il quinto, cassa la sentenza impugnata limitatamente alla liquidazione delle spese del secondo grado di giudizio e, decidendo nel merito, condanna SO.G.E.T. S.p.A. al pagamento dei compensi per tale grado, liquidati complessivamente in Euro 355,00, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore del procuratore di ARCA ironica.

Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Cosi deciso in Roma, il 13 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2016

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