Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19756 del 09/08/2017


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Cassazione civile, sez. I, 09/08/2017, (ud. 18/05/2017, dep.09/08/2017),  n. 19756

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 6521/2011 proposto da:

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO s.p.a. (CF (OMISSIS)), in persona del

legale rapp.te p.t., rapp.ta e difesa per procura speciale

autenticata il 13 ottobre 2010 dal dr. Luigi La Gioia, notaio in

Roma, rep. 83.119, dagli avv. Lucio De Angelis e Alberto Caltabiano,

elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma alla v.

Gardena n. 3;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO MITALICA s.r.l. (CF (OMISSIS)), in persona del curatore

dr. P.S., rapp.to e difeso per procura in calce al

controricorso dall’avv. Arianna Belloni, presso il cui studio

elettivamente domicilia in Roma alla v. Cassia n. 240;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 735 del 2010 della Corte di Appello di

Bologna, depositata il 13 luglio 2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 18 maggio 2017 dal relatore dr. Aldo Ceniccola.

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 735 del 13 luglio del 2010 la Corte di Appello di Bologna, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., avverso la sentenza n. 1937 del 2005 emessa dal Tribunale di Bologna, rigettava la domanda revocatoria ex art. 67 legge fall. proposta dal fallimento Mitalica s.r.l. relativamente alle due rimesse eseguite dal fideiussore e confermava nel resto l’impugnata sentenza;

osservava la Corte, per quanto ancora di interesse, che le argomentazioni dell’appellante, che si doleva della mancata considerazione ad opera del giudice di prime cure dell’esistenza di un’apertura di credito (per Lire 30 milioni e concessa nel novembre del 1993, la cui valorizzazione avrebbe comportato una riduzione dell’importo revocabile pari ad Euro 22.121,03), non tenevano in debito conto la natura del contratto di apertura di credito, dell’oggetto della dimostrazione che si richiede alla banca e dei limiti che la legge pone alla prova per testimoni dei contratti;

pertanto, ritenendo non documentata l’esistenza di un contratto di apertura del credito, ne negava l’esistenza, confermando la sentenza impugnata relativamente alla statuizione concernente la revoca delle rimesse eseguite dalla società poi fallita, ad eccezione di quelle provenienti dal fideiussore;

avverso tale sentenza la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi;

il fallimento Mitalica s.r.l. ha resistito mediante controricorso;

la ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo la ricorrente si duole dell’omessa considerazione, ad opera della Corte territoriale, dell’istanza istruttoria formulata dalla Banca, atteso che la domanda di ammissione della prova testimoniale, se accolta, avrebbe certamente condotto ad una diversa decisione;

con il secondo motivo la ricorrente si duole della falsa applicazione della L. n. 154 del 1992, art. 3 e degli artt. 117 e 127 T.U.B. avendo la Corte statuito, in contrasto con dette norme, l’inammissibilità della prova per testimoni in relazione al contratto di apertura del credito;

i motivi possono essere congiuntamente esaminati e sono infondati;

la ricorrente, in sostanza, si duole della circostanza che la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione (o comunque avrebbe considerato inammissibile) la prova testimoniale formulata dalla banca diretta a dimostrare l’esistenza del contratto di apertura di credito, circostanza che, ove dimostrata, avrebbe determinato una consistente riduzione dell’ammontare delle rimesse ritenute revocabili (cfr. i capitoli di prova trascritti a pag. 2 del ricorso);

va premesso che nel caso in esame, trattandosi di apertura di credito che la ricorrente afferma essere stata concessa in data 3.11.1993, pur non trovando applicazione la disciplina del TUB (entrata in vigore nel gennaio 1994), comunque si applica la legge sulla trasparenza bancaria L. n. 154 del 1992, art. 3 il cui comma 1 prevede che “i contratti relativi alle operazioni e ai servizi devono essere redatti per iscritto ed un loro esemplare deve essere consegnato ai clienti” ed il terzo comma che “su conforme delibera del CICR, la Banca d’Italia può dettare, per motivate ragioni tecniche, particolari modalità per la forma dei contratti relativi a determinate categorie di operazioni e di servizi”;

a fondamento del proprio assunto la ricorrente richiama una pronuncia con la quale questa Corte ha statuito che “in materia di revocatoria fallimentare delle rimesse sul conto corrente bancario dell’imprenditore poi fallito, la banca che eccepisce la natura non solutoria della rimessa, per l’esistenza alla data della stessa di un contratto di apertura di credito, ha l’onere di dimostrarne la stipulazione, anche per facta concludentia, nel caso in cui risulti applicabile la deroga del requisito della forma scritta, prevista nelle disposizioni adottate dal C.I.C.R. e dalla Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 117 del t.u.l.b. (e, anteriormente, L. n. 154 del 1992, ex art. 3), per essere stato tale contratto già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto” (Cass. n. 14470 del 2005 ed in senso conforme Cass. n. 19941 del 2006);

tali precedenti operano un richiamo sia al decreto del 24.4.1992 del Ministero del Tesoro sia alla circolare del 24.5.1992 della Banca d’Italia, emessa in attuazione di tale decreto, in base ai quali l’obbligo di forma scritta non opera per le operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto, tra i quali il contratto di conto corrente, in base alla considerazione, compiutamente svolta nella richiamata sentenza n. 14470 del 2005, che “costituirebbe sufficiente garanzia per il cliente che il contenuto normativo del contratto sia redatto per iscritto, mentre poi la sua concreta stipulazione, alle condizioni riportate nel contratto scritto, potrà avvenire in altra forma nel rispetto delle esigenze di celerità ed operatività che taluni tipi di contratti esigono”;

l’applicazione di tali principi al caso in esame comporterebbe, secondo la ricorrente, la non necessità della forma scritta per il contratto di apertura di credito, già richiamato dal contratto di conto corrente, con conseguente ammissibilità della prova per testi dichiarata, invece, inammissibile, dalla Corte territoriale;

in proposito va innanzitutto osservato che se è vero che tali profili non sono stati presi in esame dalla Corte territoriale, è anche vero che si tratta di rilievi che la ricorrente svolge per la prima volta in questa sede, vieppiù ove si consideri che lo stesso giudice di prime cure aveva dichiarato inammissibile la prova per testi proprio facendo leva sui principi di cui alla L. n. 154 del 1992, art. 3 e richiamando la regola secondo cui “i contratti bancari e quindi anche il contratto di apertura di credito debbono essere provati per iscritto”: a fronte della declaratoria di inammissibilità della prova testimoniale, così motivata dal giudice di primo grado, sarebbe stato pertanto onere della ricorrente prospettare innanzi alla Corte territoriale la questione concernente la non necessità della forma scritta a cagione della menzione del contratto di apertura operata dall’art. 6 delle condizioni generali del contratto di conto corrente;

resta in ogni caso fermo l’assorbente rilievo che il ragionamento svolto dalla Corte poggia essenzialmente sul rilievo che “anche volendo in ipotesi, aderire all’opinione di chi ritiene ammissibile la prova senza limiti dell’apertura di credito, resta il fatto che l’appellante non ha spiegato in base a quali elementi ricavabili dall’andamento del conto corrente possa desumersi per facta concludentia la conclusione e esistenza in vita di tale contratto”, sicchè, indipendentemente dalla questione concernente la mancata ammissione della prova testimoniale (richiesta in appello solo in via subordinata), la Corte ha essenzialmente posto a fondamento della decisione un rilievo che non è stato oggetto di specifiche censure da parte della ricorrente;

il ricorso va pertanto rigettato; le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 5.800 (di cui Euro 200 per esborsi) oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2017

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