Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19748 del 27/09/2011

Cassazione civile sez. III, 27/09/2011, (ud. 08/07/2011, dep. 27/09/2011), n.19748

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA DELLE BELLE ARTI 7, presso lo studio dell’avvocato

FERRANTI ALESSANDRA (studio AMBROSIO), rappresentato e difeso dagli

avvocati SPECIALE ANDREA VINCENZO, PERRI GIACOMO MARIA giusto mandato

in atti;

– ricorrente –

contro

P.E. (OMISSIS), C.G.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO

107, presso lo studio dell’avvocato GELERA GIORGIO, che li

rappresenta e difende unitamente agli avvocati CINQUETTI DIEGO,

ALLEGREZZA ELISABETTA giusto mandato in atti;

– controricorrenti –

e contro

PA.RO. (OMISSIS), FONDAZIONE CASSA RISPARMIO

FERMO (OMISSIS);

– intimati –

e da:

FONDAZIONE CASSA RISPARMIO FERMO (OMISSIS) in persona del

Presidente del Consiglio di Amministrazione Dr. Ing. G.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BENACO 5, presso lo studio

dell’avvocato MORABITO Chiara, rappresentata e difesa dall’avvocato

CRAIA VILLEADO giusto mandato in atti;

– ricorrente incidentale –

contro

M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIALE DELLE BELLE ARTI 7, presso lo studio dell’avvocato

FERRANTI ALESSANDRA (studio AMBROSIO), rappresentato e difeso dagli

avvocati PERRI GIACOMO MARIA, SPECIALE ANDREA VINCENZO giusto mandato

in atti;

– controricorrente all’incidentale –

e contro

P.E. (OMISSIS), C.G.

(OMISSIS), PA.RO. (OMISSIS);

– intimati –

e da:

PA.RO. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA FLAMINIA 213, presso lo studio dell’avvocato TRIVELLI

SIMONE, rappresentata e difesa dall’avvocato OLIVIERI GIANCARLO

giusto mandato in atti;

– ricorrente incidentale –

contro

M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIALE DELLE BELLE ARTI 7, presso lo studio dell’avvocato

FERRANTI ALESSANDRA (studio AMBROSIO), rappresentato e difeso dagli

avvocati PERRI GIACOMO MARIA, SPECIALE ANDREA VINCENZO giusto mandato

in atti;

– controricorrente all’incidentale –

e contro

P.E. (OMISSIS), C.G.

(OMISSIS), FONDAZIONE CASSA RISPARMIO FERMO (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 126/2009 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 14/02/2009, R.G.N. 19/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/07/2011 dal Consigliere Dott. FINOCCHIARO Mario;

udito l’Avvocato GIACOMO MARIA PERRI;

udito l’Avvocato SIMONE TRIVELLI per delega dell’Avvocato VILLEADO

GRAIA;

udito l’Avvocato SIMONE TRIVELLI per delega dell’Avvocato GIANCARLO

OLIVIERI;

udito l’Avvocato DIEGO CINCQUETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IANNELLI Domenico che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale; assorbiti i ricorsi incidentali.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto 10 luglio 1992 M.G. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Fermo, P.E. nonchè la Fondazione della Cassa di Risparmio di Fermo.

Ha esposto l’attore che:

– a seguito di asta indetta dalla Cassa di Risparmio di Fermo esso M. si era reso aggiudicatario di un fondo rustico in Comune di (OMISSIS) come individuato in atto di citazione nel catasto terreni di tale Comune;

– tale aggiudicazione era sottoposta alla condizione del mancato esercizio del diritto di prelazione da parte di “eventuali aventi diritto”;

– P.E. e Pa.Ro. avevano esercitato la prelazione con comunicazione del 7 febbraio 1991;

– in conseguenza di ciò, la P. e la Pa. avevano acquistato indiviso il fondo, con rogito notaio Ciuccarelli del 10 luglio 1991;

– peraltro, gli acquirenti non erano nelle condizioni per esercitare la prelazione in base a motivi che sarebbero stati esposti in corso di causa, per cui l’acquisto doveva considerarsi nullo, con conseguente obbligo della Cassa di Risparmio di trasferirgli il fondo di cui si era reso aggiudicatario.

Costituitesi le parti convenute in giudizio, mentre la Fondazione della Cassa di Risparmio lamentava la mancata indicazione dei motivi circa la insussistenza dei requisiti di legge per esercitare la prelazione, per cui si riservava di precisare le proprie difese quando tali motivi fossero stati esplicitati dal M., Pa.Ro. ha eccepito la nullità della citazione per sua indeterminatezza, affermando, nel merito, di trovarsi nelle condizioni per esercitare il diritto di prelazione.

Per suo conto, infine, P.E. rilevava di essere erede di C.A. e facente parte della o riginaria impresa familiare affittuaria e coltivatrice del fondo e quindi di avere esercitato il diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8.

Nel corso del giudizio è intervenuto in causa C.G., ad adiuvandum, rispetto alla posizione della madre P.E..

Svoltasi, nella contumacia della Fondazione, l’istruttoria del caso l’adito tribunale con sentenza 5-22 novembre 2006 ha rigettato l’eccezione di nullità della citazione, ha ritenuto ammissibile l’intervento in caso di C.G. e dichiarato insussistenti i requisiti in capo ai convenuti originari e allo stesso C. al fine di esercitare la prelazione, sia sotto il profilo di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49, u.c. che sotto quello di cui ai primi commi dello stesso art. 49, giungendo alla declaratoria di nullità di nullità della vendita intervenuta tra la Fondazione della Cassa di Risparmio e la Pa. – e dell’obbligo della predette Fondazione a stipulare il contratto di vendita con il M..

Gravata tale pronunzia sia da Pa.Ro. nonchè da P. E. nei confronti di M. che nella Fondazione della Cassa di Risparmio di Ancona, con l’intervento in causa di C. G., la Corte di appello di Ancona con sentenza 23 dicembre 2008 – 14 febbraio 2009, in riforma della sentenza del primo giudice, ha rigettato ogni domanda proposta da M.G..

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, ha proposto ricorso affidato a 13 (tredici) motivi, M.G..

Resistono, con controricorso e ricorso incidentale condizionato, sia Pa.Ro. (affidato a quattro motivi), sia la Fondazione della Cassa di Risparmio di Ancona (affidato a un unico motivo), unicamente con controricorso P.E..

M.G. ha resistito, con controricorso, ai ricorsi incidentali avversari.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede C. G..

Sia il M. che la Pa. nonchè la Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo hanno presentato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I vari ricorsi, tutti proposti contro la stessa sentenza, devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. In limine la difesa del M. eccepisce la inammissibilità di tutti i controricorsi avversari per tardività, stante si assume la violazione della L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 3 in relazione agli artt. 370 e 371 cod. proc. civ. Assume, infatti, il M. che nella specie non operava – quanto alla notifica dei controricorsi – la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, di cui alla L. n. 749 del 1969, art. 1 dovendo trovare applicazione l’art. 3 della stessa legge, che esclude dal regime della sospensione dei termini relativi al periodo feriale tutte le controversie elencate ora nell’art. 409 cod. proc. civ., e perciò anche le controversie ivi indicate al n. 2, concernenti i rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, che ha dato origine alla prelazione oggetto di controversia.

3. L’assunto è manifestamente infondato.

Come assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui totalmente (e senza alcuna giustificazione) totalmente prescinde la difesa del ricorrente – si osserva che le controversie in materia di prelazione e riscatto del fondo rustico da parte dell’affittuario coltivatore diretto, ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8 – e quindi anche quelle, come la presente, promosse per sentir accertare la inesistenza in capo a taluno del diritto di prelazione (e di riscatto) – non rientrano fra quelle devolute alla competenza per materia delle sezioni specializzate a norma della L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 26 e della L. 14 febbraio 1990, n. 29, art. 9, comma 1, ma appartengono a quella del giudice ordinario.

Ciò in quanto tali controversie – salvo la eventualità sia stato richiesto l’accertamento, con valore di giudicato, della esistenza o inesistenza di un contratto di affitto agrario – non implicano la applicazione di norme sul rapporto agrario la cui esistenza è solo uno dei presupposti di fatto dell’operatività dell’istituto, che, al pari degli altri, può – come tale – costituire oggetto di accertamento incidenter tantum da parte dello stesso giudice non specializzato – e quindi non possono qualificarsi agrarie (tra le tantissime, in questa ottica, ad esempio, Cass. 8 giugno 2007, n. 13387; Cass. 18 novembre 2005, n. 24453).

Pacifico quanto precede, non controverso che nella specie oggetto della controversia è la validità e efficacia (come invocato dalla Pa., dalla P. e da il C.) o, piuttosto la nullità (come assunto dal M.) della compravendita immobiliare di cui all’atto notarile 10 luglio 1991 è palese – a prescindere dalle ragioni della domanda (del M.) e delle difese (dei controinteressati) – che non si è a fronte a una controversia in materia di contratti agrari.

Del resto è incontroverso che nessuna delle parti ha chiesto alcun accertamento, con efficacia di cosa giudicata, della esistenza – o inesistenza – di un contratto di affitto in capo alla Pa. e alla P., relativamente al fondo oggetto di controversia, certo essendo che la domanda attrice (del M.) tendeva unicamente alla declaratoria di nullità dell’atto di acquisto del fondo da parte della Pa. e della P., non titolari del diritto di prelazione dello stesso, mentre le convenute si sono limitate a chiedere il rigetto della domanda.

4. Andando di contrario avviso a quanto affermato dal primo giudice – che aveva accolto la domanda del M. – la Corte di appello di Ancona ha ritenuto che le argomentazioni della sentenza appellata appaiono fondate su elementi (insussistenza di impresa familiare) o situazioni giuridiche (mancata qualificazione della P., cognata di C.A., quale successore di quest’ultimo) che non corrispondono a quanto pacificamente acquisito in causa e alla normativa vigente in ordine alla sussistenza del diritto di prelazione nonchè allo stesso scopo perseguito dalle norme speciali.

Premesso che non sussiste alcuna contestazione per quanto riguarda la esistenza del contratto di affitto con C.A., dovendosi considerare come dato acquisito al processo, i giudici di secondo grado hanno evidenziato:

– da un lato, Pa.Ro., vedova (e, quindi, erede del defunto C.A.) – a norma della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49, u.c., – è succeduta al marito nella conduzione del fondo oggetto di controversia, stante la sua indiscussa qualità di coltivatore diretto – ancorchè anagraficamente casalinga – alla luce di molteplici emergenze di causa (tutte analiticamente valutate, alle pagine 12 e 13 della sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione);

– dall’altro, che la Pa., unitamente alla P. facevano parte dell’ originario nucleo familiare del C. ed hanno continuato l’attività agricola come coltivatori diretti, e sussisteva, per l’effetto, una impresa familiare ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ. 5. Considerazioni di ordine logico impongono l’esame – con precedenza rispetto ai restanti – del tredicesimo motivo di ricorso.

Con lo stesso il ricorrente principale lamenta art. 360, n. 3 Violazione e falsa applicazione della L. n. 590 del 1965, artt. 1 e 8 e in genere dei principi in materia di prelazione agraria, atteso che nel caso occupa la vendita del fondo, da parte dell’ente proprietario, non era sottesa al trasferimento in proprietà ad altro coltivatore, bensì a un trasferimento con evidenti finalità speculative per la parte acquirente, come si ricava al prezzo di aggiudicazione del fondo.

6. Ancorchè il motivo in esame si concluda con un adeguato quesito di diritto (sotto il profilo di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ.) lo stesso è, per un verso, inammissibile, per altro, manifestamente infondato.

6.1. Quanto al primo aspetto (inammissibilità) si osserva che giusta quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – e da cui totalmente e senza alcuna motivazione prescinde parte ricorrente – nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni non abbiano formato oggetto di gravame o di contestazione nel giudizio di appello (Cass. 26 febbraio 2007,n. 4391; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2270; Cass. 12 luglio 2005, nn. 14599 e 14590, tra le tantissime).

Contemporaneamente, non può tacersi che ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere – al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura – non solo di allegare la avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (in termini, ad esempio, Cass. 22 giugno 2009, n. 14542, specie in motivazione).

Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie è agevole osservare:

– da un lato, che la questione specifica – insussistenza, nel caso di specie del diritto di prelazione da parte dei conduttori del fondo offerta in vendita, stante la natura speculativa della vendita stessa – non risulta in alcun modo esaminata dalla sentenza impugnata;

– dall’altro, che il ricorrente ha omesso di indicare in quale occasione, nel corso del giudizio di merito, nel rispetto delle norme sul contraddittorio, avesse sollevato il problema specifico;

– da ultimo che la questione stessa implica nuovi accertamenti di fatto – verifica della presunta finalità speculativa della vendita del fondo oggetto di controversia – diversi da quelli sui quali si è svolto, in sede di merito, il contraddittorio tra le parti.

6.2. Per completezza di esposizione – comunque -non può non evidenziarsi che il motivo è manifestamente infondato, attesa la chiara – e non equivoca – formulazione della norma positiva.

Quest’ultima, infatti:

– da un lato, alla L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 1 prevede che l’affittuario -coltivatore diretto ha diritto di prelazione, in caso di trasferimento a titolo oneroso, del fondo da lui condotto a prescindere, quindi, dalle ragioni che hanno indotto il proprietario concedente a addivenire alla alienazione del proprio cespite e al prezzo della progettata alienazione;

– dall’altro, al comma 2, la stessa previsione normativa indica i casi in cui la prelazione non è consentita e quello prospettato nel motivo ora in esame non rientra in alcuno di quelli puntualmente indicati.

7. Il ricorrente principale censura le affermazioni che hanno condotto la Corte di appello al rigetto della sua domanda denunziando, da un lato, la sentenza impugnata sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 cioè per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (così in particolare con i motivi 1, 5, 10, 11 e 12) dall’altro, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, lamentando vizi di motivazione (così in particolare, con i motivi 2, 3, 4, 6, 7, 8 e 9).

8. Esaminando, dapprima, i motivi con i quali è denunziato che i giudici a quibus sarebbero incorsi in violazione e falsa applicazione di norme di diritto si osserva che con gli stessi il ricorrente principale, lamenta, nell’ordine:

– violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 48 in relazione alla L. n. 590 del 1965, art. 8 attesa la inapplicabilità della disciplina di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 48 (in tema di impresa familiare coltivatrice) ai rapporti sorti anteriormente e formulando il seguente quesito di diritto se i diritti di prelazione e riscatto agrario derivanti dalla L. n. 590 del 1965, art. 20 stante la tassativa indicazione contenuta in detta norma possano o meno essere riconosciuti nel regime anteriore alla L. n. 203 del 1982 a coloro che componenti della famiglia, coadiuvano il soggetto titolare del rapporto agrario nella conduzione del fondo, ancorchè costituiti in impresa familiare a norma dell’art. 230-bis avuto riguardo al fatto che la L. n. 203 del 1982, art. 48 non può aver comportato una automatica novazione soggettiva dei rapporti di affitto in corso, con sostituzione in qualità di conduttori, delle imprese familiari coltivatrici, ai singoli contraenti originari del contratto preesistente primo motivo;

– violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 6 in relazione all’art. 49 della stessa per avere la Corte territoriale attribuito in via presuntiva ed in contrasto con i principi normativi dell’istituto alle convenute prive del requisito, la qualità di coltivatrici dirette. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto; se la definizione di coltivatore diretto comporti o meno necessità di dimostrazione dell’effettivo esercizio di attività agricola con lavoro prevalentemente proprio e della propria famiglia con una forza lavoro complessiva di almeno 1/3 rispetto alle oggettive necessità del fondo, rimanendo irrilevante il dato formale derivante dall’inclusione dell’interessato in elenchi o albi, ivi compresi quelli dei soggetti che effettuano versamenti di contributi agricoli in quanto familiari di coltivatori diretti quinto motivo;

– violazione e falsa applicazione dell’art. 2130 c.c., per avere la Corte utilizzato come indizio forte e serio, lo scritto in data 29 dicembre 1989 proveniente dalle stesse convenute. Si formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: se possono o meno essere utilizzate nel giudizio come fonte di convincimento del giudice dichiarazioni che provengono da chi è parte nel giudizio stesso, ove tali dichiarazioni non vertano sulla verità di fatti sfavorevoli alla stessa parte che li deduce anche attraverso un documento da essa creato decimo motivo;

– violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 48 in relazione all’art. 230 c.c., atteso che la mancanza in atti di un contratto di affitto, novativamente intervenuto dopo l’entrata in vigore della L. n. 203 del 1982 con una sedicente famiglia coltivatrice dell’originario affittuario impedisce di attribuire rilievo alla prova che la Corte ritiene raggiunta in ordine alla sussistenza di impresa familiare, per sostenere la prosecuzione del rapporto ai sensi del secondo comma dell’art. 48 abbia impedito la estinzione del rapporto. Formula al riguardo il seguente quesito di diritto: se la mancanza di un contratto di affitto stipulato in forma collettiva con un ente coltivatore costituito in forma associata tra i familiari partecipanti impedisce o meno nei riguardi di rapporti sorti anteriormente alla entrata in vigore della L. n. 203 del 1982, il riconoscimento di diritto propri dei partecipanti iure proprio, ivi il diritto di chiedere la prelazione agraria undicesimo motivo;

– violazione e falsa applicazione degli artt. 1350 e 1418, con la formulazione del seguente quesito di diritto se la mancanza di un contratto in forma scritta rende o meno nulla qualsiasi rinnovazione tacita per facta concludentia intervenuta tra l’erede dell’ affittuario e il concedente dodicesimo motivo.

9. Gli esposti motivi, per più versi inammissibili, e per altri manifestamente infondati, non possono trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

9.1. Il quesito di diritto previsto dall’art. 366-bis cod. proc. civ. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) – in particolare – deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Non può, inoltre, ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366-bis – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis cod. proc. civ. secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde all’esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati (Cass. 25 novembre 2008 nn. 28145 e 28143).

Contemporaneamente deve ribadirsi, ai riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769).

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366-bis cod. proc. civ. la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

9.2. Facendo applicazione dei principi che precedono si osserva che i quesiti di diritto che concludono i motivi sopra esposti sono tutti non congrui e, per l’effetto, i motivi devono essere dichiarati – alla luce delle considerazioni testè svolte – inammissibili.

9. 2. 1. Il diritto di prelazione è stato esercitato, dalla P., quale partecipe dell’impresa familiare coltivatrice insediata sul fondo in precedenza aggiudicato al M., nel mese di luglio del 1991 e, pertanto, in quanto successivamente al 6 maggio 1982, nel vigore della L. 3 maggio 1982. n. 203.

E’ palese di conseguenza, come sopra anticipato:

– da un lato, che il primo motivo è inammissibile perchè non censura la ratio decidendi della sentenza impugnata;

– dall’altro, la assoluta non conferenza – rispetto al caso deciso – del quesito di diritto sopra trascritto.

E’ certo – infatti – che il giudice del merito ha reso la propria decisione con riferimento alla situazione – di fatto e di diritto – esistente alla data del 10 luglio 1991, accertando che il contratto di affitto inizialmente stipulato nel corso dell’anno 1967, e quindi, anteriormente alla L. n. 203 del 1982 con il solo C. alla data del 10 luglio 1991 intercorreva tra concedente id est la Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo e famiglia coltivatrice cioè Pa.

R. e P.E..

La Corte, in altri termini, non ha in alcun modo affermato – come del tutto apoditticamente si legge in ricorso e nel quesito che lo conclude – che per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 203 del 1982, si sia verificata una novazione dell’originario rapporto di affitto.

Quei giudici, anzi, consapevoli che l’originario affittuario C. A. era deceduto nel 1987, hanno privilegiato al riguardo la situazione di fatto esistente negli successivi al decesso dello stesso e la corrispondenza intercorsa, successivamente al 1982 e anteriormente al 1991 in particolare lettera del 29 dicembre 1989 tra la Pa. e la P. quale unico nucleo familiare nel godimento del fondo (e, quindi, titolare del rapporto di affitto) e l’ente concedente.

Anche a prescindere da quanto precede – comunque -per completezza di esposizione non può tacersi che il primo motivo è inammissibile, oltre che alla luce delle considerazioni svolte sopra (vuoi quanto alla inadeguatezza del quesito di diritto che lo conclude, vuoi atteso che non è censurata la reale ratio decidendi fatta propria dai giudici di secondo grado), perchè – non diversamente a quanto già si è osservato in margine al tredicesimo motivo, sul principio secondo cui nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni non abbiano formato oggetto di gravame o di contestazione nel giudizio di appello – lo stesso integra una questione nuova mai prospettata nelle proprie difese dall’odierno ricorrente in sede di merito.

9.2.2. Quanto al quinto motivo la inadeguatezza del quesito che lo conclude è palmare ove solo si considerai la assoluta astrattezza dello stesso.

Il quesito – inoltre – non è, ancora una volta, adeguatamente correlato alla ratio decidendi che sorregge la sentenza impugnata, atteso che i giudici del merito sono pervenuti alla conclusione contestata dal ricorrente principale sulla base di molteplici, concorrenti, elementi e non esclusivamente – come del tutto apoditticamente invoca la difesa del ricorrente – unicamente sulla base di dati formali (dati formali di cui doveva farsi puntuale riferimento nel quesito e non limitarsi a una generica, e approssimativa, loro elencazione).

9.2.3. Come detto sopra e come, del resto, assolutamente incontroverso presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui, denunziando la dedotta violazione di legge, si formuli un quesito generico e la cui soluzione non consente di A accogliere o respingere il ricorso (recentemente, in questo senso, ad esempio, Cass. 23 maggio 2011, n. 11297, specie in motivazione).

Nella specie sia il decimo motivo che il quesito che lo conclude prescindono – ancora una volta – totalmente dalle argomentazioni svolte dalla sentenza impugnala.

Quest’ultima, infatti, contrariamente a quanto invoca la difesa del ricorrente, ben lungi dall’ attribuire alla lettera 29 dicembre 1989 valore confessorio a favore della parte da cui proveniva con conseguente ipotetica violazione dell’art. 2730 cod. civ., nella quale eventualità la censura avrebbe potuto avere, in tesi, un qualche spessore non solo si è limitata ad attribuire valore presuntivo (“indizio serio”) al contenuto della lettera 29 dicembre 1989 – valorizzando la stessa nel concorso di molteplici ulteriori elementi concorrenti – ma ha esposto, altresì, puntualmente, le ragioni totalmente ignorate in ricorso per le quali ha ritenuto potesse attribuirsi, alla lettera in questione detto valore indiziario, ancorchè proveniente dalle stesse convenute (“epoca di tale documento” ben anteriore al giudizio, “mancanza di prove contrarie” senza ombra di dubbio a carico della parte attrice, “finalità esplicitata di esercitare il diritto di prelazione”).

A tali argomenti può aggiungersi – per completezza – il rilievo che non avendo in alcuna occasione l’ente proprietario del fondo parte in questo giudizio mai negato la sussistenza di un rapporto di affitto con la Pa. e la P., quanto al fondo oggetto di controversia, ed essendo l’originario affittuario – dante causa di costoro – deceduto nel 1987 e, quindi, cinque anni prima della introduzione del presente giudizio, pare decisamente da escludere l’assunto su cui il ricorrente articola, in buona sostanza, tutte le proprie difese e cioè che la Pa. e la C. che hanno continuato a condurre senza alcuna contestazione da parte del proprietario il fondo per un quinquennio dopo la morte dell’originario affittuario, corrispondendo il canone del caso fossero occupanti abusive, cioè senza titolo, del fondo stesso.

9.2.4. Quanto ai quesiti formulati al termine dell’undicesimo e del dodicesimo motivo a prescindere da ulteriori, pur esistenti, profili di inammissibilità (non esiste alcuna correlazione tra gli argomenti sviluppati nella esposizione dell’undicesimo motivo e il quesito che lo conclude) gli stessi sono inammissibili per la loro assoluta genericità e per essere totalmente disancorati, vuoi dagli argomenti che sorreggono la sentenza impugnata, vuoi – specie quanto al quesito che conclude il dodicesimo motivo – dal precetto di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 41 (secondo cui, in particolare, i contratti agrari ultranovennali compresi quelli in corso, anche se verbali o non trascritti sono validi ed hanno effetto anche riguardo ai terzi), disposizione – questa ultima – da cui si ricava che il quesito di diritto di cui al dodicesimo motivo là ove si duole che manchi un contratto in forma scritta di affitto del fondo oggetto di controversia è, al limine,, in contrasto con la non equivoca norma di legge sopra indicata e la giurisprudenza di questa Corte al riguardo.

9.3. Anche a prescindere dalle ragioni di inammissibilità (nonchè di manifesta infondatezza) sopra evidenziati i motivi ora in esame – comunque – sono inammissibili anche sotto un ulteriore, pur esso assorbente, profilo.

Contrariamente a quanto suppone la difesa del ricorrente e in armonia con quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di cassazione).

Viceversa, la allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (In termini, ad esempio, Cass. 20 aprile 2011, n. 9117; Cass,. 12 aprile 2011, n. 8410; Cass. 31 marzo 2011, n. 7459; Cass. 5 giugno 2007, n. 13066, nonchè Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione; Cass. 11 agosto 2004, n. 15499, tra le tantissime).

Pacifico quanto segue si osserva che nella specie parte ricorrente pur invocando che i giudici del merito hanno, in tesi, malamente interpretato il disposto delle molteplici disposizioni normative indicate nella rubrica dei vari motivi, lungi dal censurare la interpretazione data dai giudici del merito delle norme in questione non è neppure riferito quale sia la interpretazione delle stesse data dalla sentenza impugnata ma l’apprezzamento espresso dal giudice a quo allorchè ha affermato, da una parte, che dalle emergenze di causa risultava che la P. e la Pa. si dedicavano alla conduzione del fondo oggetto di controversia vivente l’originario affittuario, dall’altra che sussisteva tra le prime e detto affittuario C.A. (marito della P. e cognato della Pa.) una impresa familiare coltivatrice, da ultimo, che le predette P. e Pa. sono succedute all’originario conduttore C..

E’ palese che tali censure – se del caso – potevano essere prospettate (sussistendone i presupposti) quali vizi della motivazione della sentenza impugnata, cioè sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma non, certamente, sotto quello della violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.

10. Con i restanti motivi il ricorrente principale, sotto il profilo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 lamenta:

– da un lato, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio (esistenza di impresa familiare con riferimento alla previsione di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 48). Il motivo si conclude con la precisazione che: si deduce che il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume insufficiente è la sussistenza in specie della impresa familiare coltivatrice, logicamente neppure configurabile, che avrebbe consentito ai partecipanti di proseguire l’affitto in tale qualità (e non uti heredi dotati dei necessari requisiti di legge), desunta da un accertamento peritale generico e incerto e soprattutto relativo a tre anni successivi rispetto al decesso dell’affittuario C.A.) secondo motivo;

– omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ed in particolare autonoma abilitazione da parte della Pa.Ro. e in ipotesi della stessa con la P.E. alla prosecuzione del contratto di affitto in quanto partecipanti della sedicente impresa familiare coltivatrice del C.A. (con riferimento ancora alla previsione di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 48). Il motivo si conclude con la seguente indicazione: si deduce che il fatto decisivo di cui è risultata omessa la motivazione è il possesso da parte delle convenuta, ed in particolare della Pa. della qualifica e dei requisiti necessari per la prosecuzione del contratto agrario terzo motivo;

– omessa, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riferimento ai requisiti di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 49 (concorso della P. nella coltivazione del fondo in qualità di coltivatrice diretta prima del decesso dell’affittuario C.A. e prosecuzione, da parte delle stesse, di attività di coltivazione nella medesima qualifica, dopo la morte dello stesso quarto motivo;

– insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (svolgimento di attività di coltivazione in epoca antecedente all’anno 1989 ricavata dal certificato del sindaco dato 21 dicembre 1989 che certifica testualmente che la P. dedica (nell’attualità) la propria attività abituale alla lavorazione manuale della terra sesto motivo;

– insufficiente e contraddittoria motivazione erica un fatto controverso e decisivo per il giudizio attinente ancora ai requisiti di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 49 (ritenuta dimostrazione esaustiva della qualifica di col dirette di P.E. e Pa.Ro. tratta dai certificati 19 luglio 1991 prot. 4435 e 4436 settimo motivo;

– omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (cessazione volontaria della P. del versamento di contributi Scau con decorrenza 12 febbraio 1987) ottavo motivo;

– insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (qualità di coltivatrici dirette e dimostrazione di attività di coltivazione da parte delle convenute P. e Pa., tratta dalle risultanze della ctu espletata nono motivo.

11. Al pari dei precedenti i motivi sopra indicati non possono trovare accoglimento perchè inammissibili (alcuni sotto più concorrenti profili) e comunque manifestamente infondati.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

11.1. In primo luogo preme evidenziare la inammissibilità dei motivi sub 2, 4, 6, 7 e 9.

In particolare, a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 – nel testo applicabile nella specie ratione temporis è stata impugnata con ricorso per cassazione una sentenza pubblicata successivamente al 2 marzo 2006;

– le sentenze pronunziate in grado di appello o in un unico grado possono essere impugnata con ricorso per cassazione, tra l’altro “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

E’ palese, pertanto, che i detti vizi – salvo che non investano distinte proposizioni contenute nella stessa sentenza, cioè diversi fatti controversi – non possono concorrere tra di loro, ma sono alternativi.

Non essendo logicamente concepibile che una stessa motivazione sia, quanto allo stesso fatto controverso, contemporaneamente omessa, nonchè insufficiente e, ancora contraddittoria è evidente che è onere del ricorrente precisare quale sia – in concreto – il vizio della sentenza, non potendo tale scelta (a norma dell’art. 111 Cost.

e del principio inderogabile della terzietà del giudice) essere rimessa al giudice, come invece pare pretenda parte ricorrente (Cfr., tra le tantissime, Cass. 25 gennaio 2011, n. 1747; Cass. 30 marzo 2010, n. 7626; Cass. 19 gennaio 2010, n. 713, specie in motivazione).

11.2. Con specifico riferimento, ancora, al secondo, al sesto, al settimo e al nono motivo si osserva che giusta quanto assolutamente incontroverso, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice (da cui senza alcuna motivazione totalmente prescinde parte ricorrente) il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata (Cass. 3 agosto 2007, n. 17076).

Il vizio di contraddittorietà della motivazione – in altri termini – ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi che sorregge il decisum adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorchè dalla lettura della sentenza, non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice (Cass., sez. un., 22 dicembre 2010, n. 25984; Cass., sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825;

Cass. 6 marzo 2008, n. 6064).

Certo, per contro, che nella specie non solo non sono riportate nella parte finale dei vari motivi (ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ.) le espressioni, contenute nella parte motiva della sentenza impu-gnata tra loro contraddittorie, ma – per quanto è dato comprendere – si assume che sono contraddittorie tutte le considerazioni svolte dai giudici a quibus allorchè le stesse interpretano le risultanze di causa in termini opposti rispetto a quanto invocato dalla difesa di esso ricorrente, è palese, anche sotto tale, ulteriore profilo, la inammissibilità dei detti motivi.

11.3. Anche a prescindere dagli assorbenti profili di inammissibilità sopra evidenziati si osserva – con specifico riguardo a tutti i motivi di ricorso dedotti sotto il profilo di cui all’art. 360 C.P.C., n. 5 e in termini opposti rispetto a quanto suppone la difesa del ricorrente principale – che giusta quanto assolutamente incontroverso, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice (da cui senza alcuna motivazione totalmente prescinde parte ricorrente) il motivo di ricorso per cassazione con il quale – ancora – alle sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere inteso a far valere – a pena di inammissibilità in difetto di loro specifica indicazione – carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, o ancora, mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi.

Un tale motivo non può,invece, essere inteso – come pretende la difesa del ricorrente – a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggetto della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti.

Tali aspetti del giudizio, infatti, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento, rilevanti ai sensi della norma in esame.

Diversamente il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di legittimità (Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 25 gennaio 2011, n. 1747; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162;

Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 27 ottobre 2006, n. 23087, tra le tantissime).

Costituisce, del resto, ius receptum, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte re-golatrice, il principio secondo cui:

– da un lato, il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, atteso che in questo ultimo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (da ultimo, tra le tantissime, Cass. 30 maggio 2011, n. 11945, specie in motivazione);

– dall’altro, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (in termini, ad esempio, tra le tantissime, Cass. 23 maggio 2011, n. 11292, specie in motivazione).

Pacifico quanto premesso è agevole osservare che il ricorrente nonostante affermi di voler denunziare sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – la sentenza impugnata perchè questa sarebbe incorsa in insufficiente motivazione, in realtà – contra legem e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione che non è, contrariamente a quanto suppone la difesa del ricorrente, un giudizio di merito di terzo grado nel quale nuovamente valutare le risultanze di causa – a sollecitare questa Corte perchè dia alle risultanze di causa, come valutate e apprezzate dai giudici a quibus, un diverso significato favorevole agli assunti di esso concludente.

11.4. Particolare rilievo è dato – da parte del ricorrente – alla circostanza che la P. fosse stata cancellata dalla gestione Scau dell’INPS sin dall’inizio del 1987 e che pertanto non poteva qualificarsi coltivatore diretto all’epoca dell’esercitata prelazione e che la documentazione da cui emerge un tale fatto a soggettivo parere del ricorrente idoneo a condurre a una diversa conclusione la lite non è stata presa in esame dalla sentenza impugnata.

La deduzione non coglie nel segno.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

11.4.1. Da un lato, e in via assorbente, si osserva che nella redazione della motivazione della sentenza, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, essendo necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, (nel testo ratione temporis vigente), che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito (Cass. 20 novembre 2009, n. 24542; Cass. 28 ottobre 2009, n. 22801, nonchè Cass. 30 maggio 2011, n. 11945, specie in motivazione).

11.5. In secondo luogo del tutto correttamente la sentenza oggetto di ricorso ha ignorato il documento in questione, atteso che non si dubita – nella più che consolidata giurisprudenza di questa Corte – che ai fini della domanda di riscatto L. n. 590 del 1965, ex art. 8 – e quindi della prelazione – la prova della qualità di coltivatore diretto in capo al richiedente deve essere fornita non mediante il dato formale della iscrizione allo Scau, poichè ciò che rileva è il dato obbiettìvo della diretta e abituale attività di coltivazione del fondo (Cfr., ad esempio, tra le tantissime, Cass. 8 luglio 2005, n. 14450, nonchè nel senso che da tali certificazioni possono trarsi solo elementi indiziari, atteso che la iscrizione al servizio dei contributi unificati è ricollegabile ad una mera condizione professionale e non all’accertamento dell’attività di coltivatore diretto svolta su un determinato fondo, Cass. 22 giugno 2001, n, 8595).

12. In conclusione, risultato infondato in ogni sua parte il ricorso principale deve rigettarsi con assorbimento dei ricorsi incidentali della Pa. e della Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, espressamente condizionati all’eventuale accoglimento del ricorso principale.

Al rigetto del ricorso principale segue la condanna del ricorrente principale al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità in favore delle parti costituite, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi;

rigetta il ricorso principale;

dichiara assorbiti i ricorsi incidentali condizionati;

condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità che liquida, in favore della Fondazione della Cassa di Risparmio di Fermo e di Pa.Ro., in Euro 200,00 oltre Euro 10.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge per ciascuna parte e in favore di P. E. in Euro 200,00 oltre Euro 8.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della sezione terza civile della Corte di Cassazione, il 8 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2011

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