Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19743 del 08/08/2017

Cassazione civile, sez. III, 08/08/2017, (ud. 26/04/2017, dep.08/08/2017),  n. 19743

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 25747-2015 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUNGOTEVERE DEI

MELLINI 44, presso lo studio dell’avvocato DI VASTOGIRARDI ANTONIO

DE NOTARISTEFANI, rappresentata e difesa dall’avvocato ROSANNA

ROVERE giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata ex lege in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che la rappresenta e difende per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 172/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 16/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/04/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso

chiedendo la trattazione del presente ricorso in pubblica udienza,

ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2011, B.G. e P.D., nella qualità di esercenti la potestà genitoriale sulla minore B.S., convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Trieste la Presidenza del Consiglio dei Ministri per sentirla condannare al risarcimento del danno patito dalla figlia a causa della mancata o non integrale attuazione della direttiva 2004/80/CE.

Premesso che il Tribunale penale di Pordenone, con sentenza del 2008 (divenuta definitiva nel 2010) aveva riconosciuto la responsabilità di D.P. per il delitto di cui agli artt. 81 c.p. e 609 quater c.p. – in quanto con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusando della condizione di inferiorità psichica di B.S. (di anni 11 all’epoca dei fatto) la costringeva a compiere e a subire atti sessuali – e, per l’effetto, lo aveva condannato alla pena di anni 8 di reclusione, nonchè al risarcimento dei danni arrecati alla persona offesa, nella misura di 100.000 Euro, e alle spese legali, e che il Perpatim non aveva provveduto a risarcire alcunchè, gli attori esposero che in base alla menzionata direttiva gli Stati membri dell’Unione Europea, a far data dal 1 luglio 2005, dovevano apprestare una tutela rimediale-risarcitoria a beneficio delle vittime dei reati violenti ed intenzionali, laddove impossibilitate a conseguire dagli autori delle condotte criminose il risarcimento dei danni, che tale tutela non era mai stata adottata dallo Stato italiano, che alla luce della sentenza della Corte di Giustizia C112/2007, che aveva censurato l’inadempimento dell’Italia a dare attuazione a detta direttiva, nonchè dell’orientamento della Suprema Corte che aveva ammesso la tutela risarcitoria nell’ipotesi in cui la direttiva europea non attuata prevedesse l’attribuzione di diritti in capo ai singoli soggetti, la Presidenza del Consigli dei Ministri era tenuta a risarcire il danno sussistendo il nesso di causalità tra il citato inadempimento ed il pregiudizio lamentato.

Si costituì il Presidente del Consiglio dei Ministri chiedendo l’inammissibilità o il rigetto della domanda attorea, evidenziando che la finalità della direttiva era quello di disciplinare le situazioni transfrontaliere e precisando che l’art. 12 della predetta direttiva attribuiva ampia discrezionalità agli Stati di predisporre un sistema di indennizzo, che lo Stato aveva esercitato tale discrezionalità riconoscendo l’equo indennizzo ad alcune tipologie di reato, che la citata direttiva non era sef executing e nemmeno attribuiva immediatamente diritti al singolo.

Il Tribunale di Trieste, con sentenza n. 382/2013, rigettò la domanda attorea.

2. La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Trieste, con sentenza n. 172 del 16 marzo 2015.

La Corte di appello ha rilevato che la Corte di Giustizia Europea, con ordinanza del 2015, ha ribadito che la direttiva 2004/80 prevede l’ipotesi di indennizzo solo nel caso di reato violento commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui la vittima abitualmente risiede e non ha l’obiettivo di creare una responsabilità patrimoniale, sia pure sussidiaria, degli Stati membri per tutti i reati intenzionali violenti commessi nel loro territorio, ma solo quello di predisporre gli strumenti necessari per un contrasto delle possibili discriminazioni derivanti dal carattere transfrontaliero delle violazioni di norme penali.

Secondo la Corte, va quindi escluso che la direttiva abbia inteso creare nuove e distinte situazioni giuridiche soggettive in capo alle vittime di reato, in particolare in casi privi di carattere transfrontaliero.

Da ciò discende che l’art. 12 della direttiva deve essere inteso nel senso che le disposizioni riguardanti l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere si applicano all’interno degli Stati membri nei limiti in cui i singoli ordinamenti riconoscano tale diritto ai propri cittadini. La norma si limiterebbe a stabilire che gli Stati membri debbano predisporre un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, senza codificare i reati per i quali tale indennizzo deve essere previsto e lasciando discrezionalità sul punto.

Infatti, la norma non definisce quali siano i reati intenzionali violenti, nè si può sostenere che la direttiva ha l’effetto di rendere indennizzabili tutti i fatti che rientrano in tale generica definizione.

Inoltre, la collocazione sistematica della norma, e la previsione di uno specifico termine per adempiere agli obblighi previsti dalla stessa, porta ad escludere che la volontà del legislatore comunitario fosse quella di introdurre un sistema unico europeo di indennizzo, e a ritenere che invece la norma imponesse ai soli Stati membri sprovvisti di sistemi di indennizzo per le vittime di reati violenti (tra cui non vi era l’Italia) di introdurli ex novo nei rispettivi ordinamenti.

3. Avverso tale decisione, propone ricorso in Cassazione la signora B.S., nelle more divenuta maggiorenne, sulla base di tre motivi.

3.1 Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio ex art. 380 bis, comma 1 del 15 febbraio 2017, in considerazione della rilevanza della questione nomofilattica delle questioni sollevate, reputa il Collegio di rimettere la causa all’udienza pubblica presso la Terza Sezione ordinaria.

Tale rimessione del resto non può ritenersi preclusa dall’assenza di una disposizione che preveda esplicitamente la possibilità di rimettere alla pubblica udienza una causa chiamata davanti alle sezioni ordinarie in Camera di consiglio, giacchè nulla osta all’applicazione analogica alle sezioni ordinarie della disposizione dettata per la sezione di cui dell’art. 376 c.p.c., comma 1, dell’articolo 380 bis c.p.c., u.c., ed anzi tale applicazione analogica appare imposta dal principio per cui il collegio non può essere vincolato nell’apprezzamento della rilevanza delle questioni presentate da un ricorso e della conseguente opportunità che lo stesso venga trattato in pubblica udienza – dalla valutazione al riguardo operata dal presidente della sezione ai sensi dell’ultima parte dell’art. 377 c.p.c., comma 1 (Cass. 5533/2017).

PQM

 

la Corte rimette il ricorso alla causa alla pubblica udienza e rinvia a nuovo ruolo.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2017

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