Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19735 del 25/07/2018


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Civile Sent. Sez. L Num. 19735 Anno 2018
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: BALESTRIERI FEDERICO

SENTENZA
sul ricorso 18037-2017 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. P.IVA 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190-175, presso
l’avvocato ANTONIO SEBASTIANO CAMPISI, della Funzione
Affari Legali di Poste Italiane, rappresentata e
2018
1529

difesa dall’avvocato MICHELE ACCIARO, giusta delega
in atti;
– ricorrente contro
ERMACORA SABRINA, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

Data pubblicazione: 25/07/2018

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati
MARZIA GRAFFI e FLAVIANO DE TINA, giusta delega in
atti;
– controricorrente –

di TRIESTE, depositata il 16/01/2017, R. G. N.
80/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 10/04/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO
BALESTRIERI;
udito l’Avvocato ANTONIO SEBASTIANO CAMPISI per
delega verbale MICHELE ACCIARO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 263/2016 della CORTE D’APPELLO

RG 18037/17

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Sabrina Ermacora si rivolgeva al Tribunale di Udine esponendo di avere
lavorato con diversi contratti a termine per Poste Italiane s.p.a., di
avere quindi agito per l’accertamento dell’illegittimità di tali contratti;
di avere ottenuto in primo grado dapprima nel 2006 sentenza non
definitiva sull’an debeatur e poi sentenza definitiva n. 267\09 a lei

convertiti i contratti stessi in un unico contratto a tempo indeterminato,
con condanna di Poste al pagamento della somma complessiva di
€.56.965,81 oltre accessori.
La sentenza definitiva citata (n.267\09), era stata impugnata assieme
a quella non definitiva da Poste Italiane s.p.a. dinanzi alla Corte
d’appello di Trieste che, in diversa composizione, con sentenza n.
185\12, aveva accolto in parte il gravame dando applicazione alla
norma sopravvenuta di cui all’art. 32 comma 5 L. n. 183\10, definendo
in quattro mensilità di retribuzione l’entità del risarcimento del danno
spettante all’interessata, fermo il resto. Divenuta definitiva la decisione
in oggetto, Poste Italiane, che aveva pagato quanto dovuto in base alle
sentenze riformate, aveva chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo per
quanto pagato in eccesso e quindi, in concreto, il supero rispetto alle
quattro mensilità di cui sopra.
In opposizione al predetto decreto ingiuntivo la Ermacora conveniva,
sempre dinanzi al Tribunale di Udine, Poste Italiane contestando in
particolare il diritto di Poste Italiane di ottenere la restituzione delle
somme lorde da lei percepite come allegato nel decreto opposto,
potendosi al più recuperare solo le somme nette, al lordo quindi delle
imposte versate direttamente all’amministrazione finanziaria, in base al
dato evidente dell’omessa percezione del lordo ed all’avviso della prassi
migliore invalsa sul tema.
Successivamente la Ermacora versava a Poste Italiane la somma
eccedente di €. 42.534,03.
Si costituiva in giudizio la convenuta ed opposta notando l’infondatezza
dell’opposizione e concludendo come in atti.

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favorevole con cui, accertata l’illegittimità dei contratti, si erano

RG 18037/17

La causa veniva istruita solo documentalmente e veniva decisa con
sentenza n. 293\15 che revocava il decreto ingiuntivo opposto e
compensava interamente le spese di lite.
Avverso tale sentenza proponeva appello Poste; resisteva la Emarcora,
proponendo appello incidentale in ordine alla compensazione delle
spese.
Con sentenza depositata il 16.1.17, la Corte d’appello di Trieste

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società Poste,
affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste la Ermacora con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.-Con il primo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti.
Lamenta che la sentenza impugnata, nel respingere il ricorso, si basò
su precedenti di legittimità (Cass. n. 239\06, n. 1464\12) non
pertinenti in quanto basati su di un errore compiuto dal datore di
lavoro nel versare al lavoratore una somma in eccesso, laddove nella
specie Poste non aveva commesso alcun errore ma solo eseguito
quanto disposto dalle sentenze sopra menzionate, citando allo scopo
Cass. n. 21699\01.
2.- Con il secondo motivo Poste denuncia la violazione o falsa
applicazione dell’art. 38 d.P.R. n. 602\73 e dell’art. 10, co.1 lett. d-bis)
del d.P.R. n. 917\86, lamentando che tale disciplina può applicarsi solo
in caso di errore del solvens e non già nel caso di pagamento avvenuto
a seguito di sentenza. In tal caso il citato art. 10 co.1 lett. d-bis) del
d.P.R. n. 917\86 prevede per il contribuente (o lavoratore) lo
strumento della deduzione fiscale e quindi di dedurre dal proprio
reddito le somme restituite al soggetto erogatore. Deduce la società
ricorrente inoltre che il d.m. 5 aprile 2016 dei Ministero dell’Economia
e Finanze ha previsto che “in alternativa alla deducibilità del reddito
complessivo dei periodi di imposta successivi, il contribuente può

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rigettava entrambi i gravami.

RG 18037/17

chiedere entro il termine…, il rimborso dell’importo determinato
applicando all’intero ammontare delle somme non dedotte l’aliquota
corrispondente al primo scaglione di cui all’art. 11 del t.u.i.r. (d.P.R. n.
917\86)”.
3.- Con il terzo motivo la società ricorrente evidenzia che secondo un
orientamento della sezione tributaria di questa Corte (Cass. n.
23886\07) il debitore principale verso il fisco è il percettore del reddito

versamento, onde è al medesimo debitore principale che compete il
diritto di ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso.
4.-

I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi

congiuntamente, sono infondati.
L’art. 38 d.P.R. n. 602\73, nel testo modificato dal d.lgs. n. 143\05,
prevede che: “Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può
presentare all’intendente di finanza nella cui circoscrizione ha sede il
concessionario presso la quale è stato eseguito il versamento istanza di
rimborso, entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data
del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed
inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
“L’istanza di cui al primo comma può essere presentata

anche dal

percipiente delle somme assoggettate a ritenuta entro il termine di
decadenza di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata
operata”.
La disciplina in esame prevede dunque in via principale che sia il
soggetto che ha effettuato il versamento a presentare istanza di
rimborso e non solo in caso di errore materiale ma anche di
duplicazione od inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
Ritiene dunque la Corte che correttamente la sentenza impugnata
abbia ritenuto il caso in esame rientrare nelle ipotesi di

inesistenza

totale o parziale dell’obbligo di versamento (e dunque comunque in una
ipotesi di errore) posto che l’obbligo fiscale sorto da una sentenza
(immediatamente esecutiva) poi riformata, secondo una fisiologica
dinamica processuale, è venuto meno con effetto ex tunc (ex aliis,
Cass. n. 6072\12, Cass. n. 8829\07) per effetto della parziale riforma
in appello (frutto peraltro della sopravvenuta L. n. 183\10, art. 32)
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imponibile e non il sostituto che esegua la ritenuta ed il successivo

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sicché correttamente deve ritenersi versarsi nell’ipotesi di inesistenza
dell’obbligo di versamento o di errore. In tal senso, del resto, la stessa
pronuncia invocata da Poste (Cass. n.21699\11) che ha ben
evidenziato che l’azione di restituzione e riduzione in pristino, che
venga proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza
contenente il titolo del pagamento si collega ad un’esigenza di
restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e

della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, e
dunque giuridicamente di un pagamento non dovuto.
Non può dunque modificarsi l’evidente principio, peraltro più aderente
alla peculiarità del rapporto di lavoro subordinato, per cui il solvens non
può ripetere dall’accipiens, in ogni caso, più di quanto quest’ultimo
abbia effettivamente percepito, affermato, tra le altre, da Cass. n.
1464\12 e n. 23093\14, a mente delle quali nel rapporto di lavoro
subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al
netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una
retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per
eccesso. Ne consegue che, in tale evenienza, il datore di lavoro, salvi i
rapporti col fisco, può ripetere l’indebito nei confronti del lavoratore nei
limiti di quanto effettivamente percepito da quest’ultimo, restando
esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Ed invero, quali che siano i rimedi esperibili dal lavoratore contribuente
nei confronti dell’amministrazione finanziaria, è evidente che il solvens
non può ripetere dal lavoratore accipiens più di quanto quest’ultimo
abbia effettivamente percepito, e cioè quanto versato, sia pure in
esecuzione di sentenza provvisoriamente esecutiva, suscettibile di
riforma o cassazione nell’ambito degli ordinari mezzi di impugnazione
previsti dall’ordinamento, ad un terzo (ente fiscale). In tal senso cfr.
altresì Cons. Stato, sez.III, n.3984\11.
Va infine evidenziato che il principio affermato da Cass., sez. V, n.
23886\07 (secondo cui il debitore principale verso il fisco è il percettore
del reddito imponibile e non il sostituto che esegua la ritenuta ed il
successivo versamento, onde è al medesimo debitore principale che
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dunque di prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza

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compete il diritto di ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso)
riguarda i rapporti tra sostituto d’imposta, sostituito e fisco (cfr. in tal
senso Cass. n.239\06), ma non afferma che al lavoratore sostituito
possa essere richiesto quanto versato dal sostituto ad un terzo
(l’amministrazione finanziaria). In tale ultimo senso, del resto, Cons.
Stato, sez. VI, n. 1164\09.
Per le ragioni sin qui esposte non si ravvisano gli estremi per rimettere

sussistendo il dedotto contrasto di giurisprudenza in seno a questa S.C.
5.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da
dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento
delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00
per esborsi, €.4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali
nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1
quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n.
228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del
comma 1 bis dello stesso art.13.

Roma, così deciso nella camera di consiglio del 10 aprile 2018

la questione all’esame delle Sezioni unite di questa Corte, non

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