Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19729 del 25/07/2018


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Civile Sent. Sez. L Num. 19729 Anno 2018
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: DE GREGORIO FEDERICO

SENTENZA

sul ricorso 12323-2013 proposto da:
TELECOM

ITALIA S.P.A.,

in persona

del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio degli avvocati
ROBERTO PESSI, MARCO RIGI LUPERTI, che la
rappresentano e difendono, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2018
contro

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MARTENA ALESSANDRO, elettivamente domiciliato in
ROMA,

CORSO

TRIESTE

199,

presso

lo

studio

dell’avvocato FRANCESCO FALZETTI, rappresentato e

Data pubblicazione: 25/07/2018

difeso dall’avvocato GABRIELE RUSSO, giusta delega in
atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n.

329/2013 della CORTE D’APPELLO

di LECCE, depositata il 01/03/2013 R.G.N. 1141/2012;

udienza del 09/01/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO
DE GREGORIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso
per l’accoglimento del secondo e ultimo motivo,
rigetto degli altri;
udito l’Avvocato GABRIELE VALENTINI per delega
Avvocato GABRIELE RUSSO.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

FATTI di CAUSA
Con ricorso dei 13 aprile 2012 TELECOM Italia S.p.A. appellava la sentenza del 10 marzo 2012, con
la quale il giudice del lavoro di Lecce aveva accolto la domanda di MARTENA Alessandro, diretta ad
ottenere il riconoscimento che le mansioni da costui svolte rientravano nel sesto livello retributivo,
di cui al contratto collettivo nazionale di lavoro di settore, e non già nel quinto, invece attribuitogli,
condannando quindi la società convenuta al pagamento delle differenze retributive per il periodo 1°
gennaio 1998 – 31 dicembre 2007, nonché di quelle relative al t.f.r. e alla regolarizzazione della
posizione assicurativa previdenziale ovvero a risarcimento del danno.

marzo successivo, rigettava l’appello principale proposto da Telecom Italia, nonché quello
incidentale spiegato dal MARTENA, compensando per la metà le spese di secondo grado del giudizio,
liquidate per il resto a carico della società. In primo luogo, la Corte territoriale disattendeva la
reiterata eccezione di prescrizione quinquennale, relativamente alle differenze retributive,
osservando in particolare che la consistenza occupazionale alle dipendenze della società convenuta
non poteva essere dimostrata con riferimento al fatto notorio. Quanto, poi, alla prescrizione
decennale, limitatamente all’invocata superiore qualifica, la stessa risultava validamente interrotta
con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione. Circa lo svolgimento delle mansioni
superiori, la Corte di Appello osservava che la prova per testi aveva dimostrato che l’attore sin dal
1998 aveva continuativamente svolto le mansioni relative al collaudo delle reti telefoniche, alla
realizzazione del sistema di telegestione e di interventi di guasto cavo, attività rientranti certamente,
come già rilevato dal primo giudicante, nel livello retributivo F del contratto collettivo risalente al
1996 e nel livello 6° del C.C.N.L. 2000-2005, e non già nell’inferiore inquadramento attribuito, non
avendo rilievo le scelte organizzative della Telecom in tema di assistenti tecnici, scelte già ritenute
discriminatorie in altri giudizi e che non avevano tenuto conto della effettiva competenza e
professionalità acquisite dai dipendenti. In tal sensi, dunque, l’appello principale andava respinto.
Parimenti, andava rigettato l’appello incidentale, poiché correttamente il giudice di primo grado non
aveva ritenuto di attribuire la superiore qualifica rivendicata, essendo nelle more già cessato il
rapporto di lavoro e mancando quindi ogni interesse ad agire dell’attore in proposito.
Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione TELECOM Italia S.p.A. con atto del
17/23 maggio 2013, affidato a sei motivi, cui ha resistito MARTENA Alessandro mediante
controricorso notificato il 2 luglio 2013.

RAGIONI della DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c., è stata denunciata
la violazione e falsa applicazione degli articoli 132, comma primo n. 4, e 156 comma secondo
c.p.c., 118 co. 2 disp. att. c.p.c., nonché 111 della Costituzione: la sentenza impugnata
risultava priva di idonea motivazione, poiché si era limitata a confermare la decisione di primo
grado, senza alcun riferimento ai fatti, gli atti e ai principi giuridici sottesi alla decisione di

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La Corte di Appello di Lecce sentenza n. 329, in data 23 gennaio – 1° marzo 2013, notificata il 19

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

rigetto dell’impugnazione proposta, con particolare riguardo all’eccezione di prescrizione e alla
ritenuta dimostrazione dello svolgimento di mansioni superiori.
Con il secondo motivo è stata lamentata la violazione e falsa applicazione degli articoli 2935 e
2948 c.c., degli artt. 18 e 35 legge n. 300 del 1970, dell’articolo 2697 c.c., nonché degli articoli
115 e 112 c.p.c., tanto in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c. in ordine alla questione requisito
dimensionale e del fatto notorio, per cui era stata disattesa la reiterata eccezione di prescrizione

Con la terza doglianza la sentenza è stata censurata, ai sensi dell’articolo 360 numero 3 c.p.c.,
per violazione e falsa applicazione degli articoli 414, 112, 115 e 116 dello stesso codice di rito,
nonché dell’articolo 2697 c.c.: non corretta qualificazione della domanda, avente ad oggetto
differenze retributive, di parte attrice dalla Corte di Appello, atteso che il ricorso introduttivo,
pur instando per il riconoscimento delle anzidette differenze, da quantificarsi con apposita c.t.u.
all’uopo invocata, non conteneva alcun conteggio. Di conseguenza, la domanda siccome
formulata non poteva che essere intesa quale richiesta di condanna specifica, sprovvista di
allegazione e prova, perciò da rigettarsi, e non già come di condanna generica, inopinatamente
invece così qualificata dalla Corte distrettuale.
Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione dell’articolo 2103 c.c. in relazione
all’articolo 2697 dello stesso codice, nonché degli articoli 112, 115 e 116 c.p.c. – tanto ai sensi
dell’articolo 360 n. 3 c.p.c.), TELECOM ha osservato che la Corte territoriale non aveva
supportato il proprio convincimento circa l’accertamento della natura delle mansioni in concreto
svolte dall’attore, attesi peraltro gli esiti dell’istruttoria in via assorbente sul dies a quo, a
decorrere dal quale secondo i giudici di appello lavoratore avrebbe svolto continuativamente
mansioni superiori, ossia collaudo delle reti telefoniche, la realizzazione del sistema di
telegestione e gli “interventi di guasto cavo”, tenuto conto di quanto dichiarato dai testimoni
Francesco Lezzi e Antonio Cauzo in evidente violazione dei succitati articoli, considerato che il
giudizio in fatto sulle mansioni superiori, in primis a decorrere dal 10 gennaio 1998, non era
sorretto da logica e adeguata motivazione, attesi gli esiti dell’istruttoria.
Con il quinto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2103 c.c. in
relazione al contratto collettivo nazionale di lavoro telecomunicazioni 1996 (art. 14), dei
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quinquennale.

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

contratti collettivi telecomunicazioni 2000 e 2005 (art. 23), nonché dell’articolo 112 c.p.c.,
tanto in relazione all’articolo 360 numero tre c.p.c., nonché omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti ex articolo 360 n. 5
c.p.c.: la Corte d’Appello si era limitata a statuire che le attività svolte, asseritamente in modo
continuativo dal MARTENA sin dal 1998, rientravano certamente, come affermato dal primo
giudice nel livello retributivo F C.C.N.L. 1996 e nel livello sei del C.C.N.L. 2000-2005, pertanto

declaratorie, presupposto peraltro per il riconoscimento delle differenze retributive. A tutto
voler concedere, infatti, le attività riportate in sentenza non denotavano affatto la sussistenza
delle caratteristiche del livello superiore, come da menzionata contrattazione collettiva. Di
conseguenza, la Corte territoriale aveva anche totalmente omesso l’esame di un fatto decisivo
per il giudizio, ovvero l’esame delle declaratorie collettive ai fini del giudizio comparativo per il
riconoscimento dello svolgimento delle mansioni superiori, prius logico per il riconoscimento
delle differenze retributive.
Con il sesto motivo la società ricorrente ha lamentato omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c.: la condanna alla regolarizzazione della posizione contributiva
alternativa al risarcimento danni ex articolo 2116 c.c. Infatti, la convenuta in primo grado aveva
eccepito l’infondatezza delle pretese previdenziali, stante quella delle prodromiche retributive,
contestando ad ogni modo il proprio difetto di legittimazione passiva (essendo soggetto passivo
l’ente previdenziale) ed opposto, ad ogni modo, la prescrizione, anche ai sensi dell’articolo tre
commi 9 e 10 della L. n. n. 335 del 1995 (attesa la mancanza di alcun atto valido di interruzione,
donde l’irricevibilità da parte dell’ente previdenziale), nonché l’inammissibilità e l’infondatezza
della richiesta alternativa di risarcimento danni ai sensi dell’articolo 2116 c.c.. Per contro, il
primo giudicante senza alcuna motivazione e in violazione dell’articolo 112 c.p.c. aveva
condannato la società alla regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale in
relazione a quanto riconosciuto con la sentenza, ovvero al risarcimento del danno ai sensi
dell’articolo 2116 c.c. La questione era stata riproposta in appello, ma la Corte aveva totalmente
omesso di considerarla, non risultando nella motivazione alcunché in proposito.

(

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senza dar conto né del giudizio comparativo necessario, né delle caratteristiche delle

ud. 09-01-18 /4,4. 12323-13

Tanto premesso, in ricorso può essere accolto soltanto in parte, limitatamente al secondo
motivo, assorbita la connessa sesta doglianza, mentre vanno disattese le restanti censure in
forza delle seguenti considerazioni.
Ed invero, quanto al primo motivo in effetti lo stesso deve considerarsi inammissibile, tenuto
conto che in effetti con tale mezzo d’impugnazione la ricorrente finisce per criticare la
motivazione dell’impugnata sentenza, motivazione che in quanto tale di per sé non risulta

applicabile (essendo stata pubblicata la pronuncia de qua nel marzo 2013), se non in quanto
lesiva del c.d. minimo costituzionale, ciò che non può dirsi affatto verificatosi nella specie.
D’altro canto, i vizi così come rubricati nel suddetto primo motivo configurerebbero a ben
vedere, almeno in astratto, soltanto ipotetici errores in procedendo, come tali sussumibili
unicamente nella previsione di cui all’art. 360 n. 4 (non già 3) del codice di rito, laddove
comunque nella specie la censura non risulta formulata univocamente in termini di nullità
dell’impugnata sentenza (cfr. peraltro anche Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017, secondo
cui il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera
interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché
la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura
un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di
cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato
attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti
consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del
2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012.
V. altresì Cass. Il civ. n. 24247 del 29/11/2016: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto
censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve
essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una
delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule
sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Ne deriva che, ove il
ricorrente lamenti l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile una domanda
in violazione delle preclusioni processuali, non è indispensabile che faccia esplicita menzione
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neppure censurabile ex art. 360 co. I n. 5 c.p.c., secondo il testo nella specie ratione temporis

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., con
riguardo alla norma processuale violata, purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità
della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile
il gravame allorché si riferisca esclusivamente alla insufficienza e contraddittorietà della
motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.. In senso pressoché conforme Cass. sez. un.
civ. n. 17931 del 24/07/2013.

apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio
denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c., né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite
dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in
violazione di legge costituzionalmente rilevante. Parimenti, secondo Cass. sez. un. civ. nn.
8053 e 8054 del 07/04/2014, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc.
civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134,
deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione
di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé,
purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”,
esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Inoltre, nel
rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma,
n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso,
il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto
sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando
che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un
fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in
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V. ancora Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: il cattivo esercizio del potere di

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie.
Cfr. pure Cass. VI civ. – 3, ordinanza n. 13928 del 06/07/2015, secondo cui nel vigore del
nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., non è più configurabile il vizio
di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo
solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione

come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 cod. proc. civ.).
Merita, invece, accoglimento la seconda censura, laddove si contesta il rigetto dell’eccezione di
prescrizione quinquennale, relativamente alla pretese creditorie azionate dal Martena, a
decorrere dal primo gennaio 1998 in relazione al superiore inquadramento da costui rivendicato
in via principale, eccezione reiterata dalla società, allora appellante, in quanto il giudice di primo
grado aveva ritenuto carente la prova fornita dalla convenuta TELECOM delle circostanze di
fatto che consentissero la stabilità del rapporto di lavoro (ex art. 18 L. n. 300/70, secondo il
testo allora vigente) e perciò anche la decorrenza della prescrizione in costanza del rapporto
medesimo, cessato il 31-12-2007 (ricorso introduttivo in data 15-04-2009, notificato il 30-042009, preceduto da richiesta extragiudiziale di cui alla racc.ta a.r. 18-12-2007, seguita da
richiesta di tentativo di conciliazione). Ed invero, la Corte territoriale si è limitata
apoditticamente ad affermare che la consistenza occupazionale (da cui poter desumere la
possibile tutela reale del rapporto de quo) non poteva essere dimostrata con riferimento al fatto
notorio (pur trattandosi nella specie di TELECOM Italia S.p.a., società concessionaria del
servizio di telecomunicazioni in ambito nazionale).
Orbene, l’anzidetta asserzione non appare corretta. Invero, questa Corte ha già avuto modo di
osservare, condivisibilmente, con sentenza n. 20987 del 25/06 – 29/10/2004 (ribadito
l’orientamento secondo il quale la proposizione dell’eccezione non richiede particolari
specificazioni, essendo sufficiente la deduzione di un’inerzia del titolare del diritto, tale da
determinare l’effetto estintivo della legge, deduzione peraltro insita nel fatto stesso di eccepire
la prescrizione) che il giudice adito deve accertare in linea di fatto, sulla base degli elementi di
prova acquisiti agli atti, relativi al tipo di diritto azionato e alla data in cui esso avrebbe potuto
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tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

essere fatto valere, e ad eventuali atti interruttivi, se sia maturato il tipo di prescrizione nella
specie da ritenersi applicabile (quaestio iuris) sulla base del natura del rapporto e dei diritti in
questione; che non poteva essere accettata, nella sua assolutezza, la tesi secondo cui non
sarebbe configurabile il fatto notorio in merito al numero di dipendenti di un datore di lavoro,
rilevante al fine di stabilire se il rapporto di lavoro sia connotato dal regime di stabilità c.d.
reale, la quale, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, consente la

dipendente. Infatti, vi possono essere imprese (o, più in genere, datori di lavoro) le cui
dimensioni e il cui tipo di struttura organizzativa sono di adeguata comune conoscenza a livello
nazionale o locale, in maniera tale che non vi è ragione di ritenere che non possano sussistere
al riguardo gli elementi caratterizzanti del fatto notorio, cioè del fatto di comune conoscenza.
Peraltro, nella specie l’anzidetta pronuncia n. 20987/04 rilevava che occorreva far riferimento,
quanto all’applicabilità del regime di stabilità del rapporto al numero dei dipendenti occupati
presso la singola unità produttiva cui era addetto il lavoratore, oppure occupati nell’ambito
dello stesso comune, a norma artt. 18 e 35 della legge n. 300/1970, nel testo vigente prima
delle modifiche attuate dalla legge n. 108/1990 (sicché nello specifico la notorietà del fatto
doveva riguardare la situazione occupazionale relativa alla singola unità produttiva ovvero al
singolo ambito comunale pertinente. Di conseguenza, nella specie, poiché erano stati chiesti
emolumenti retributivi maturati fino al 31 dicembre 1985, il periodo di maturazione della
prescrizione, prima dell’atto interruttivo del 24.10.1991, coinvolgeva sicuramente almeno per
una parte del credito anche il periodo anteriore all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1990,
che aveva dato rilevanza, ai fini della stabilità del rapporto, al numero complessivo dei
dipendenti. Quindi, risultava insufficiente la affermazione, contenuta nella sentenza impugnata,
secondo cui era notorio che le Ferrovie dello Stato occupavano un numero di lavoratori
superiore al limite dell’art. 18 della legge n. 300/1970, senza alcun riferimento agli elementi di
fatto effettivamente rilevanti in relazione alla originaria disciplina della legge n. 300/1970. Per
l’effetto, la sentenza de qua veniva cassata con rinvia ad altro giudice di merito, il quale,
peraltro, avrebbe dovuto altresì tener conto che quando il lavoratore interessato era dipendente
di ruolo dell’azienda Ferrovie dello Stato, articolazione della pubblica amministrazione, la
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decorrenza della prescrizione anche in relazione alle rivendicazioni retributive di un lavoratore

ud. 09-01-18 /r.g. 12323 – 13

stabilità rilevante ai fini della decorrenza della prescrizione era insita nella disciplina del
rapporto di pubblico impiego, e che il medesimo regime di diritto sostanziale era rimasto
applicabile, anche dopo la istituzione dell’ente pubblico economico Ferrovie dello Stato, fino alla
stipulazione del primo contratto collettivo, a norma dell’art. 21 della legge 17 maggio 1985 n.
210).
Orbene, il caso qui in esame è in parte diverso dalla fattispecie esaminata dall’anzidetta

pertinenti, laddove il credito azionato concerne l’arco temporale gennaio 1998 / dicembre 2007,
dunque ampiamente successivo alle modificazioni apportate Legge 11/05/1990 atif(1.– 108,
perciò nella specie indubbiamente operanti.
Ne deriva che la pronuncia de qua va sul punto cassata, con conseguente rinvio, ex artt. 384
e 385 c.p.c. alla Corte di merito per nuovo accertamento in punto di fatto della questione alla
luce del richiamato e condiviso principio di diritto. Ne consegue, altresì, l’assorbimento delle
doglianze mosse con il sesto motivo, atteso che le rivendicazioni contributivo-previdenziali in
argomento da parte del lavoratore sono indubbiamente connesse alla precisa delimitazione
delle differenze retributive vantate dal MARTENA, però riconoscibili nei limiti della prescrizione
opposta da parte datoriale, ove effettivamente operante, previo accertamento di merito sul
punto in relazione a quanto rilevato con riferimento al secondo motivo di ricorso.
Sono, invece, inammissibili ed infondate le ulteriori censure di parte ricorre.
Ed invero, quanto al terzo motivo, lo stesso riguarda palesemente error in procedendo, di modo
che andava ritualmente ed univocamente denunciato in termini di nullità ex art. 360 n. 4 c.p.c.
(v. pure la succitata giurisprudenza sub I motivo). Per di più, la doglianza non è stata in misura
autosufficiente formulata (art. 366 co. I n. 6 c.p.c.), poiché non risulta adeguatamente
riprodotto né altrimenti debitamente precisato come e dove l’asserito vizio (invero riguardante
la sentenza di primo grado, poi confermata con il rigetto dell’appello) sia stata a suo tempo
ritualmente denunciato da TELECOM, tanto più che la questione non risulta in alcun modo
esaminata dalla pronuncia qui impugnata. Senza dire, inoltre, che il potere di qualificazione
della domanda, pure riguardo a richiesta di condanna in forma specifica o generica, compete
soltanto al giudice di merito adito, laddove d’altro canto la condanna generica non pregiudica
8

sentenza n. 20987/04. Nondimeno, i principi di diritto ivi affermati appaiono ugualmente qui

ud. 09-01-18 /r.g. 12323-13

in effetti in alcun modo i diritti dell’obbligato, visto che l’effettiva determinazione del credito o

del risarcimento in astratto dovuto resta, comunque, soggetta all’accertamento, in concreto,
demandato al giudice adito per la liquidazione.
Analogamente, richiamando altresì la giurisprudenza citata in relazione al primo motivo, vanno
dichiaratati inammissibili il quarto ed il quinto motivo, tra loro connessi e perciò congiuntamente
esamina bili.

prescritto a pena d’inammissibilità, dall’art. 366 comma I nn. 3 e 6 c.p.c., poiché non risultano
adeguatamente e sufficientemente riportate le argomentazioni della sentenza di primo grado,
che vanno lette insieme a quelle della pronuncia d’appello che la confermava. Parimenti, va
osservato riguardo ai relativi motivi dell’interposto gravame, nonché in relazione alle
testimonianze raccolte, però succintamente ed in modo frammentario riportati. A tutto ciò si
aggiunga che in effetti la ricorrente contesta il merito delle valutazioni motivatamente espresse
dai giudici di merito, di primo e di secondo grado, finendo per richiedere un riesame in punto
di fatto di quanto in precedenza accertato ed apprezzato, ciò che è inammissibile in sede di
legittimità, tanto più alla luce poi della critica vincolata consentita nei ristretti termini ammessi
dalla vigente formulazione dell’art. 360 comma I n. 5 c.p.c..
Non sussistono, infine, i presupposti di legge, ex art. 13 comma 1 quater d.P.R. n. 115/2002,
per la declaratoria concernente il pagamento dell’ulteriore contributo unificato, stante
raccoglimento, ancorché limitato, della proposta impugnazione.
P.Q.M.
la Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, dichiarando assorbito il sesto. Rigetta gli altri
motivi (primo, terzo, quarto e quinto). Cassa, per l’effetto, l’impugnata sentenza, in
relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Bari.
Così deciso in Roma il nove gennaio 2018

IL PRESIDENTE

In primo luogo, vi è carente allegazione da parte ricorrente, in relazione a quanto invece è

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