Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19721 del 03/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 03/10/2016, (ud. 16/06/2016, dep. 03/10/2016), n.19721

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5406 – 2012 R.G. proposto da:

S.A., – c.f. (OMISSIS) – S.R. – c.f. (OMISSIS) –

(quali eredi di C.P.), elettivamente domiciliati in Roma, alla

via Spalato, n. 11, presso lo studio dell’avvocato Giovanni Petroni

che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Marco Valentini ed

all’avvocato Anna Valentini li rappresenta e difende in virtù di

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

CA.GI. – c.f. (OMISSIS) – rappresentato e difeso in

virtù di procura speciale per atto per notar S. in data

22.4.2013 dall’avvocato Mario Gamberini ed elettivamente domiciliato

in Roma, alla via C. Mirabello, n. 6, presso lo studio dell’avvocato

Virginio Manfredi Frattarelli.

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 737 dei 19.7/24.9.2011 della corte d’appello

di Ancona;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 16

giugno 2016 dal consigliere Dott. Abete Luigi;

Udito l’avvocato Anna Valentini per i ricorrenti;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale Dott. Celeste Alberto, che ha concluso per la declaratoria

di inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 703 c.p.c., al tribunale di Pesaro depositato in data 21.6.2000 C.A.L., proprietaria, per acquisto fattone con atto del (OMISSIS), e possessore sin dal dì dell’acquisto di un fondo rustico con sovrastante fabbricato rurale in (OMISSIS), esponeva che il viale di accesso alla sua proprietà, nel punto in cui immetteva nella pubblica via, era delimitato e protetto dalla presenza di una catena metallica munita di apposito lucchetto ed ancorata, a mò di cancello, a due colonne;

che nella mattinata del (OMISSIS) Ca.Gi., residente in Gabicce Mare, alla via Fonte, n. 1, aveva reciso la catena ed aveva in tal guisa impedito la chiusura del viale.

Chiedeva di essere mantenuta nel possesso del viale di accesso alla sua proprietà e di far ordine alla controparte di ripristinare lo status quo ante.

Si costituiva il resistente.

Instava per il rigetto dell’avverso ricorso; chiedeva, in riconvenzionale, di essere reintegrato nel possesso del viale e di far ordine alle controparte di rimuovere la catena che ostacolava il transito.

Assunte sommarie informazioni, all’esito, con ordinanza in data 29.7.2000, il giudice faceva ordine al Ca. di ripristinare immediatamente la chiusura rimossa e disponeva per la prosecuzione del giudizio di merito.

Indi, assunte le prove orali sollecitate dal resistente, con sentenza n. 406 del 23/26.6.2006 il tribunale adito rigettava la domanda proposta da C.A.L. ed, in accoglimento della riconvenzionale, la condannava a reintegrare la controparte nel possesso della servitù di passaggio lungo il viale.

Proponeva appello C.P. (quale erede di C.A.L.).

Resisteva Ca.Gi..

Con sentenza n. 737 dei 19.7/24.9.2011 la corte d’appello di Ancona rigettava il gravame, confermava integralmente la statuizione di prime cure e condannava l’appellante alle spese del grado.

Evidenziava la corte di merito, in ordine al motivo di gravame con cui si era prospettato che il primo giudice aveva “frainteso le dichiarazioni rese da alcuni testimoni” (così sentenza d’appello, pag. 5), che le dichiarazioni rese dai testi A.D. e N.S. consentivano di identificare la strada poderale denominata “Fonte” con quella recante al fabbricato dell’appellante; che l’esistenza di una situazione di fatto corrispondente all’esercizio di una servitù di passaggio lungo la strada adducente alla proprietà C., non poteva reputarsi esclusa alla stregua del rilievo per cui la teste A. avesse fatto riferimento ad un passaggio finalizzato all’esecuzione di lavori di manutenzione della casa ed alla potatura delle siepi; che invero tanto risultava sufficiente ad integrare l’utilitas postulata dall’art. 1028 c.c.; che, al contempo, alla luce delle testimonianze assunte si era acquisito riscontro dell’esercizio del passaggio da parte di Ca.Gi. nel corso dell’anno precedente ed, altresì, “che la catena si trovava per lo più a terra e non veniva agganciata, sì da consentire il transito senza ostacoli, venendo semplicemente appoggiata durante la notte per evitare l’ingresso di veicoli” (così sentenza d’appello, pag. 8); che, d’altro canto, parte ricorrente non aveva “fornito dimostrazione, come sarebbe stato suo onere, della effettuazione del passaggio per mera tolleranza” (così sentenza d’appello, pag. 7).

Evidenziava – la corte – in ordine al motivo di gravame con cui si era censurato il primo dictum nella parte in cui aveva “escluso l’esistenza dei requisiti necessari per l’utile proposizione dell’azione di manutenzione” (così sentenza d’appello, pag. 8), che correttamente il primo giudice aveva disconosciuto nella condotta del Ca. l’animus turbandi, atteso che “la condotta del convenuto non era volta alla molestia ma finalizzata a ripristinare lo status quo ante” (così sentenza d’appello, pag. 8), ovvero era finalizzata “a permettere l’esercizio del passaggio impedito dall’apposizione della catena metallica munita, siccome sostenuto dalla ricorrente nell’atto introduttivo (…), di lucchetto” (così sentenza d’appello, pag. 9).

Evidenziava ancora che le risultanze istruttorie apparivano sufficienti ai fini della decisione, sicchè non era necessario disporre la c.t.u. sollecitata dall’appellante e rivolta alla descrizione dello stato dei luoghi.

Evidenziava infine che esulava dalle questioni poste con l’atto d’appello la quaestio concernente il contenuto della situazione possessoria vantata dal Ca. ed in pari tempo che non sussistevano i presupposti per la riunione del giudizio ad altro giudizio pur pendente in grado d’appello originato dal gravame esperito da A.S., moglie di Ca.Gi., avverso la sentenza n. 700/2006 del tribunale di Pesaro.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso A. e S.R., quali eredi di C.P.; ne hanno chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese.

Ca.Gi. ha depositato unicamente procura speciale in data 22.4.2013 ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.; hanno chiesto riunirsi al presente procedimento, il procedimento scaturito dal ricorso iscritto al n. 29029/2013.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge per falsa applicazione dell’art. 1179 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nella parte in cui la sentenza della Corte di Appello di Ancona ha affermato che la domanda dell’attrice – appellante è sfornita di prova” (così ricorso, pag. 6).

Adducono che, contrariamente all’assunto della corte distrettuale e siccome emerge dagli atti del giudizio, C.A.L. ha in rapporto all’esperita azione di manutenzione assolto ogni onere probatorio su di ella incombente ai sensi dell’art. 1170 c.c..

Adducono, segnatamente, che la prova della turbativa è stata fornita dalla medesima controparte, allorchè all’udienza del 3.12.2001, come risulta dal relativo verbale, ebbe a dichiarare di aver tagliato la catena e di averla successivamente ripristinata; che nella memoria di costituzione in data 26.6.2006 il resistente aveva riconosciuto di aver divelto il gancio della catena in data (OMISSIS), sicchè il ricorso ex art. 1170 c.c., siccome depositato il 21.6.2000, è stato senz’altro proposto entro l’anno dalla molestia; che la durata ultra annuale del possesso ed il suo pacifico acquisto risultano riscontrati sia alla stregua dell’atto di compravendita del (OMISSIS) sia alla stregua delle dichiarazioni rese dai testi di controparte che hanno riferito “che la catena di chiusura, anche se talvolta era aperta, esisteva da alcuni anni” (così ricorso, pag. 8).

Con il secondo motivo i ricorrenti deducono “violazione di legge per falsa applicazione dell’art. 1168 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, nella parte in cui la sentenza di secondo grado ha accolto che la domanda riconvenzionale di reintegrazione nel possesso” (così ricorso, pag. 9).

Adducono che il buon fondamento del ricorso ex art. 1170 c.c. proposto da C.A.L. avrebbe dovuto al contempo indurre al rigetto dell’avversa domanda riconvenzionale; che in particolare l’avversa domanda è stata accolta benchè non sia stato acquisito riscontro delle condizioni poste dall’art. 1168 c.c., ovvero dell’esistenza di uno spoglio violento od occulto e della proposizione dell’azione di reintegrazione entro l’anno dall’asserito spoglio; che in ogni caso il tenore delle dichiarazioni rese da C.A.L. all’udienza del 23.6.2001, nel corso del suo formale interrogatorio, è ben diverso da quello ritenuto dalla corte marchigiana.

Non vi è ragione chè si disponga la riunione al presente procedimento, scaturito dal ricorso iscritto al n. 5406/2012 R.G. esperito avverso la sentenza n. 737/2011 della corte d’appello di Ancona, del procedimento scaturito dal ricorso iscritto al n. 29029/2013 R.G. proposto avverso la sentenza n. 549/2013 della stessa corte d’appello.

Vero è che l’istituto della riunione di procedimenti relativi a cause connesse, previsto dall’art. 274 c.p.c., essendo volto a garantire l’economia ed il minor costo del giudizio, oltre alla certezza del diritto, trova applicazione anche in sede di legittimità, sia in relazione a ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi sia, a maggior ragione, in presenza di sentenze pronunciate in grado di appello in un medesimo giudizio, legate l’una all’altra da un rapporto di pregiudizialità e impugnate, ciascuna, con separati ricorsi per cassazione (cfr. Cass. 31.10.2011, n. 22631; cfr. Cass. 4.4.1997, n. 2922).

E, tuttavia, precipuamente in ordine alla prima ipotesi – cui va ascritta la riunione sollecitata nella fattispecie – va debitamente ribadito che i provvedimenti che decidono sulla riunione o separazione delle cause sono atti processuali di carattere meramente preparatorio, privi di contenuto decisorio (sulla competenza, ed insindacabili in sede di gravame), cosicchè la valutazione dell’opportunità della trattazione congiunta delle cause connesse è rimessa alla discrezionalità del giudice innanzi al quale i procedimenti pendono (cfr. Cass. (ord.) 18.11.2014, n. 24496; Cass. 19.1.1979, n. 402).

I motivi di ricorso sono strettamente correlati. Se ne giustifica pertanto la disamina congiunta. Entrambi i motivi comunque sono destituiti di fondamento.

Si premette che sia il primo sia il secondo motivo si qualificano esclusivamente in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Occorre tener conto, da un lato, che An. e S.R. con ambedue i motivi censurano sostanzialmente il giudizio di fatto cui la corte distrettuale ha atteso (“è errata, perchè contraria a verità, l’affermazione secondo la quale la domanda attrice è sfornita di prova”: così ricorso, pag. 6; “sono assolutamente assenti le condizioni di cui all’art. 1168 c.c., per raccoglimento della domanda riconvenzionale di reintegrazione nel possesso”: così ricorso, pagg. 10 – 11).

Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).

Si premette, altresì, che, in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione (cfr. Cass. sez. lav. 4.3.2014, n. 4980), quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), ben avrebbero dovuto i ricorrenti, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro dei loro assunti, riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso il tenore delle dichiarazioni rese da Ca.Gi., il tenore delle dichiarazioni rese, in sede di interrogatorio formale, da C.A.L., il testo del contratto di compravendita in data (OMISSIS) ed il complesso delle dichiarazioni rese, in qualità di testimoni, da N.S. e Sp.Li..

Si rappresenta, comunque, che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta, in particolare, che, ai fini di una corretta decisione, il giudice del merito non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, nè a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. 10.5.2000, n. 6023).

Si rappresenta, conseguentemente, che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Nei termini testè enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in foto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte di Ancona (siccome si è analiticamente evidenziato in precedenza, in sede di “svolgimento del processo”) ha vagliato nel complesso – non ha dunque obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum, altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito.

In ogni caso ed a rigore con i motivi addotti i ricorrenti null’altro prospettano se non un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (“agli atti del giudizio c’è la prova dell’esistenza di tali elementi alla data di inizio del processo”: così ricorso, pag. 6; “i giudici di merito non hanno valutato gli elementi sopra riferiti”: così ricorso, pag. 8; “alcune prove orali espletate a richiesta del convenuto sono incerte e confusionarie”: così ricorso, pag. 8; “le prove di cui sopra, di indubbio valore obiettivo, avrebbero dovuto comportare raccoglimento della domanda principale ed il rigetto della riconvenzionale”: così ricorso, pag. 9).

I motivi, dunque, involgono gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

I motivi del ricorso, pertanto, si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta, da ultimo, in ordine alla prospettazione dei ricorrenti, secondo cui ben avrebbe dovuto la corte dar corso alla richiesta di c.t.u. “al fine di sopperire, con elementi certi, alle discrasie causate da alcune delle testimonianze raccolte” (così ricorso, pag. 9), che questa Corte di legittimità spiega che la mancata disposizione della consulenza tecnica d’ufficio da parte del giudice, di cui si asserisce l’indispensabilità, è incensurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, laddove la consulenza sia finalizzata ad esonerare la parte dall’onere della prova o richiesta a fini esplorativi alla ricerca di fatti, circostanze o elementi non provati (cfr. Cass. 5.7.2007, n. 15219).

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo e tiene conto della circostanza che Ca.Gi. ha depositato unicamente procura speciale in data 22.4.2013 e, quindi, non ha nè depositato controricorso nè partecipato all’udienza di discussione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, S.A. e S.R. (quali eredi di C.P.), a rimborsare al controricorrente, Ca.Gi., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nel complesso in Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge.

Cosi deciso in Roma, nella camera di Consiglio della 2^ sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 16 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2016

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