Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19710 del 28/08/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 19710 Anno 2013
Presidente: MERONE ANTONIO
Relatore: CIGNA MARIO

SENTENZA

sul ricorso 9762-2007 proposto da:
BUONOPANE GUIDO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA
CIRCUMVALLAZIONE CLODIA 19, presso lo studio
dell’avvocato LUISE MICHELINO, che lo rappresenta e
difende unitamente all’avvocato MONACO CARMINE giusta
delega a margine;
– ricorrente contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Data pubblicazione: 28/08/2013

- controricorrente

avverso la sentenza n. 219/2006 della
COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di SALERNO, depositata il
31/01/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 31/01/2013 dal Consigliere Dott. MARIO

udito per il controricorrente l’Avvocato ZERMAN che ha
chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PASQUALE FIMIANI che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

CIGNA;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso proposto dinanzi alla CTP di Avellino Buonopane Guido, di professione geometra, impugnava
l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate di Ariano Irpino, in applicazione dei parametri
di cui al DPCM 29-1-1996 (come modificato dal DPCM 27-3-1997), aveva rideterminato il reddito dichiarato
per l’anno 1996 (da una perdita di lire 830.000 a maggiori compensi per lire 24.894.000), con conseguenti
maggiori imposte IRPEF, IVA, CSSN e contributo straordinario per l’Europa.

Con sentenza depositata il 31-1-2006 la CTR di Napoli, sez. distaccata di Salerno, in parziale accoglimento
dell’appello dell’Ufficio, determinava un reddito di euro 3.500,00; in particolare la CTR riteneva
innanzitutto legittimo il DPCM in questione, in quanto lo stesso non aveva natura intrinseca di regolamento
e quindi non doveva essere munito del previsto parere del Consiglio di Stato; rilevava, inoltre, nel merito,
che nel ricorso introduttivo il contribuente, dopo avere precisato di essere divenuto sin dal 1991 lavoratore
dipendente, avere sostenuto di avere mantenuto la titolarità della partita IVA solo per la riscossione di
crediti pregressi ed aveva dichiarato che nell’anno 1996 aveva sostenuto spese per lire 1.540.000 a fronte
di riscossioni per compensi di lire 840.000; ciò posto, non sembrava alla CTR “ragionevolmente plausibile”,
anche perchè il contribuente non aveva dato al riguardo giustificazioni, mantenere la partita IVA ed
adempiere all’onere della dichiarazione dei redditi solo per riscuotere i crediti pregressi e per conseguire
una perdita; concludeva che, tuttavia, essendo il contribuente lavoratore dipendente, l’attività di lavoro
autonomo era comunque marginale e secondaria, sicchè poteva equamente attribuirsi allo stesso un
reddito da lavoro autonomo di euro 3.500,00.
Awerso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il contribuente, affidato a tre motivi; resisteva
con controricorso l’Agenzia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il contribuente, deducendo “violazione e falsa applicazione della L. 549/95 n. 3 comma
186, adottata nel rispetto della L 23-8-1988 n. 400 art. 17”, nonchè omessa, insufficiente e contradditoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 cpc), rilevava che il DPCM in questione
era atto di normazione secondaria e, come tale, doveva essere adottato nel rispetto della procedura di cui
al citato art. 17, e quindi essere preceduto dal parere del Consiglio di Stato.
Siffatto motivo è infondato.
Per consolidata e condivisa giurisprudenza di questa S.C., invero, “in tema di accertamento tributario, il
D.P.C.M. 29 gennaio 1996 (sulla “Elaborazione dei parametri per la determinazione di ricavi, compens

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L’adita CTP accoglieva il ricorso.

volume d’affari sulla base delle caratteristiche e delle condizioni di esercizio sull’attività svolta”, determinati
ai sensi dell’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549) non viola l’art. 17 della legge 23
agosto 1988, n. 400, per essere stato emanato senza il parere preventivo del Consiglio di Stato, in quanto
non è un atto di natura regolamentare – né attuativo di legge, ai sensi del primo comma, né delegificante, ai
sensi del comma 2 -, non essendo espressione di una potestà normativa, secondaria rispetto a quella
legislativa, attribuita all’amministrazione, e non disciplina in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una
regolazione attuativa o integrativa della legge, ma è solo un prowedimento amministrativo a carattere

di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente
determinati nel prowedimento, ma determinabili” (Cass. 16055/2010; v. anche 17086/2012; 27656/2008).
Con il secondo motivo il contribuente, deducendo —ex art. 360 n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione
dell’art. 3, commi 179-189 della L. 549/95, rilevava che con i parametri il legislatore ha precostituito una
presunzione iuris tantum di maggior reddito, ponendo a carico del contribuente l’onere di provare che, nel
caso concreto, il risultato doveva essere diverso da quello ottenuto con l’utilizzo dei parametri stessi; nella
fattispecie in esame il contribuente aveva allegato e comprovato una molteplicità di elementi tali da
giustificare, nella concreta situazione personale, lo scostamento dai parametri e la loro non applicazione
(ridotta attività professionale nel corso del periodo d’imposta considerato; in particolare: esercizio di
attività marginale e sussidiaria svolta esclusivamente per il recupero dei credito, progressiva riduzione del
reddito nel corso degli anni e cessazione dell’attività dopo pochi anni dall’avvio).
Con il terzo motivo il contribuente, deducendo —ex art. 360 n. 5 cpc- omessa, insufficiente e contradditoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, rilevava che la CTR, pur avendo affermato che
l’attività di lavoro autonomo svolta da esso contribuente era marginale e secondaria in quanto lo stesso
era lavoratore dipendente, gli aveva attribuito “equamente” un reddito da lavoro autonomo, applicando,
per la determinazione del detto reddito da lavoro autonomo, i coefficienti presuntivi di cui ai parametri,
coefficienti elaborati con riferimento sì all’attività di un lavoratore medio, ma comunque in via principale ed
esclusiva; sosteneva, inoltre, che in tema di IVA non era consentito far ricorso a criteri di equità.
I motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto tra loro collegati, sono infondati.
Per condiviso principio di questa Corte “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante
l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui
gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato
rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della
normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità
dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione

generale, in quanto espressione di una semplice potestà amministrativa, essendo rivolto alla cura concreta

alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa
dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica
nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel
rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello
“standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal
contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento,
potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da

vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia
facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in
sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo
comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli
“standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il
rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. sez.
unite 26635/2009).
La CTR ha fatto corretto uso di tali principi valutando proprio la specifica e concreta condizione del
contribuente e le ragioni dallo stesso addotte per giustificare lo scostamento (v. valutazione della
situazione contabile e giudizio di non plausibilità); la stessa CTR ha affermato, poi, proprio in esito a tale
valutazione, che “l’attività di lavoro autonomo svolta dal contribuente è marginale e secondaria (perché
lavoratore dipendente)” e che quindi allo stesso può essere attribuito “equamente” un reddito di lavoro
autonomo di euro 3.500,00.
Siffatta “rideterminazione” del reddito, da non confondere con la c.d. “equità sostitutiva” (che è consentita
nei soli casi previsti dalla legge ed attribuisce al giudice il potere di prescindere nella fattispecie dal diritto
positivo: Cass. 4442/2010), è pienamente legittima (anche in materia di IVA, non essendovi specifiche
ragioni in contrario) ed anzi imposta al giudice tributario dalla natura del relativo giudizio, il quale, come è
noto, non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra quelli di “impugnazionemerito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di
una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento
dell’ufficio, ed impone quindi al giudice tributario di esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando
una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti
dalle domande di parte (conf. Cass. 13034/2012); ciò anche in attuazione dei principio della flessibilità
degli strumenti presuntivi, che trova origine e fondamento nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere
che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere dalla capacità contributiva del
soggetto sottoposto a verifica (conf. Cass. 2411/2006); nel caso di specie, pertanto, la CTR, desu

dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è

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dalle risultanze processuali lo svolgimento, da parte del contribuente, di una ridotta e marginale autonoma
attività professionale, correttamente non ha annullato in toto l’accertamento fondato sui parametri (che
presupponevano ovviamente lo svolgimento, dal punto di vista quantitativo, di un’ordinaria attività
professionale), ma, in applicazione dei su riportati principi, ha rideterminato equamente il reddito, tenendo
presente lo svolgimento ridotto dell’attività professionale.
In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.

soccombenza.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dei compensi di lite relativi al presente
giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 2.500,00, oltre spese prenotate a debito.
Cos’ deciso in Roma in data 31-1-2013 nella Camera di Consiglio della sez. tributaria.

Le spese di lite relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la

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