Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19709 del 21/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 21/09/2020, (ud. 11/06/2020, dep. 21/09/2020), n.19709

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32563-2018 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIANFRANCO DEPEDER;

– ricorrente –

Contro

R.M., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato STEFANO GIAMPIETRO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 206/2018 della CORTE D’APPELLO) di TRENTO,

depositata il 16/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’11/06/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE

GRASSO.

 

Fatto

RITENUTO

che la Corte d’appello di Trento, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettò l’impugnazione avanzata da C.C. avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la di lui domanda di negatoria servitutis, proposta nei confronti di R.M.;

che il Tribunale e la Corte d’appello avevano disatteso la pretesa avendo escluso che il convenuto avesse affermato il godimento di diritti sul fondo dell’attore (in particolare, un diritto di servitù di passaggio);

ritenuto che C.C. propone ricorso averso la sentenza d’appello sulla base di tre motivi e che l’intimato resiste con controricorso;

ritenuto che con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 949 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè “omessa ed insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti e punti decisivi della sentenza”, assumendo che:

– la Corte locale non aveva considerato che il R., tenendo una condotta lesiva del diritto di proprietà del ricorrente (soleva passare attraverso il fondo di quest’ultimo per raggiungere il proprio e analoghi comportamenti faceva tenere ai propri dipendenti), aveva finito per offendere il diritto di proprietà del C., in tal senso militando la scelta del convenuto di non presentarsi per la mediazione;

– aveva errato nel reputare che il diritto di proprietà dell’attore fosse stato riconosciuto dal convenuto, il quale aveva ammesso solo degli occasionali passaggi, poichè, trattandosi di affermazioni del difensore del R., non poteva ad esse assegnarsi il valore di confessione;

– s’imponeva una “rivisitazione” della decisione, poichè dai fatti emergeva che il R. aveva, di fatto, minacciato il diritto di proprietà del ricorrente, di talchè quest’ultimo aveva motivo di temere pregiudizio;

ritenuto che con il secondo motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il Giudice d’appello non ammesso la prova per testi richiesta dal C., assegnando valore pienamente confessorio alle dichiarazioni del difensore della controparte.

Diritto

CONSIDERATO

che i due motivi, tra loro correlati, non colgono nel segno per le ragioni che seguono:

a) questa Corte è ferma nel precisare che la “actio negatoria servitutis” ha come essenziale presupposto la sussistenza di altrui pretese sul bene immobile, non potendo essere esercitata in presenza di turbative o molestie che non si sostanzino in una pretesa di diritto sulla cosa (ex multis, da ultimo, Sez. 2, n. 31382, 5/12/2018);

b) di conseguenza, l’interesse ad agire in “negatoria servitutis” sorge quando venga posta in essere dal terzo un’attività implicante in concreto l’esercizio, che si assume abusivo, di una servitù a carico del fondo di proprietà di colui che agisce, mentre non può essere proposta l’azione al fine di far dichiarare una generica libertà del fondo, indipendentemente da concreti attentati alla stessa (sez. 2, n. 12607, 28/8/2002, Rv. 557165);

c) l’interesse in parola, tuttavia, può sussistere pur in assenza di atti materialmente lesivi della proprietà dell’attore, ove resti dimostrata la sussistenza di inequivoche pretese reali affermate dalla controparte, cosicchè il primo coltivi il legittimo diritto a far chiarezza al riguardo con l’accertamento dell’infondatezza delle dette pretese (Sez. 2, n. 5569, 8/3/2010);

d) nel caso al vaglio, sulla base dell’insindacabile accertamento di merito, non ricorre alcuna delle predette ipotesi, tenendo conto di quanto segue:

– la situazione dei luoghi risulta puntualmente descritta dalla sentenza, la quale ha anche accertato l’assenza di qualunque intervento da parte del R. sugli stessi;

– l’assenza di qualsivoglia pretesa da parte del R., il quale nelle sue difese ha riconosciuto la piena proprietà della controparte;

– non rileva, in questa sede, disquisire sul valore ammissivo delle difese del convenuto e appellato, stante che l’unico snodo decisivo consiste nella mancata rivendicazione di un diritto di servitù di passaggio da parte di costui e nella mancanza di prova, il cui onere era posto, ovviamente, a carico dell’attore, sulla decisiva circostanza che il R. avesse avanzato inequivoche pretese reali;

– il profilo di doglianza riguardante la mancata ammissione della chiesta prova testimoniale non è scrutinabile, trattandosi di decisione devoluta al giudice del merito e, nella specie, la Corte locale risulta avere specificato le ragioni poste a sostegno della decisione istruttoria;

– sulla base di quel che riferisce lo stesso ricorso il convenuto non comparve per la mediazione obbligatoria fornendo, tuttavia, giustificazione, fondata su esigenze di difesa tecnica; comunque il D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 8, comma 5, assegna al prudente apprezzamento discrezionale del giudice di merito, non sindacabile davanti a questa Corte, la scelta di apprezzare liberamente, ex art. 116 c.p.c., l’assenza ingiustificata;

considerato che il terzo motivo, con il quale il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., per avere la sentenza d’appello condannato l’appellante alla rifusione delle spese legali in favore dell’appellato e, comunque, per non avere disposto la compensazione, appare, all’evidenza, inammissibile, invocando un riesame di merito non consentito dalla legge, nonchè la violazione del principio legale della soccombenza in materia di riparto delle spese legali;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle svolte attività, siccome in dispositivo;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore

importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2020

 

 

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