Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19706 del 08/08/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 08/08/2017, (ud. 05/04/2017, dep.08/08/2017),  n. 19706

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amalia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24084-2011 proposto da:

A.S.L. – AZIENDA SANITARIA LOCALE DI VITERBO, C.F. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 26, presso lo studio dell’avvocato

MARIA CRISTINA PIERETTI, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato NICOLO’ AMATO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA ACILIA 4, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO FUNARI, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5047/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/10/2010 R.G.N. 7708/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/04/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento per

quanto di ragione del terzo motivo, rigetto altri due motivi;

udito l’Avvocato GIORGIO D’ALESSIO per delega avvocato MARIA CRISTINA

PIERETTI;

udito l’Avvocato PIERFILIPPO POMPEI per delega verbale Avvocato

ANTONIO FUNARI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il dott. B.L., dipendente dell’Azienda Usl di Viterbo con qualifica di primario del ruolo di Chirurgia Generale, addetto al Pronto Soccorso dell’Ospedale di (OMISSIS), impugnava la Delib. n. 1147 del 2001 con cui l’Azienda sanitaria locale, sulla base dei verbali della Commissione di verifica del 10 luglio 2001 e del 30 ottobre 2001, lo aveva privato, ai sensi dell’art. 30, punto 5, e dell’art. 38, commi 1 e 2, del C.C.N.L. 1998/2001, dell’incarico di dirigente di secondo livello per investirlo di un incarico di consulenza, studio e ricerca.

2. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 5047/2010, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l’illegittimità della delibera impugnata e, per l’effetto, condannava l’Azienda convenuta a reintegrare l’appellante nell’incarico revocato e a corrispondergli, a decorrere dal 1 gennaio 2002 fino al 1 gennaio 2009, la somma di Euro 1.032,21 mensili a titolo di indennità di esclusività, oltre interessi legali a far data dalla maturazione di ogni singolo rateo sino al saldo.

3. La Corte territoriale, disattese le censure aventi ad oggetto eccezioni preliminari riguardanti la regolarità della procedura di verifica, accoglieva il terzo motivo di appello con cui il B. aveva dedotto, sotto il profilo della omessa motivazione, l’erroneità del rigetto delle censure attinenti alla illegittimità e alla incongruità della verifica operata nei suoi confronti.

3.1. I giudici di appello premettevano che, pur non essendo sindacabile da parte del giudice ordinario, il merito delle valutazioni tecniche discrezionali effettuate dalla commissione esaminatrice ai fini della verifica dell’attività svolta dal B. nell’ultimo quinquennio, rientra certamente nel potere del giudice l’accertamento di eventuali vizi logici da cui la procedura risulti affetta, in particolare sotto profilo della manifesta illogicità, irragionevolezza o travisamento dei fatti nonchè della carenza di motivazione o di istruttoria, o anche sotto il profilo, tipicamente contrattuale, della violazione di principi di correttezza e buona fede. Osservavano che, trattandosi di vero e proprio adempimento contrattuale, è onere dell’azienda datrice di lavoro, ai sensi dell’art. 1218 c.c., dimostrare la correttezza e la regolarità dello svolgimento la procedura di verifica e la conformità a buona fede del suo operato.

3.2. Premettevano altresì che la sentenza di primo grado si era limitata a richiamare, onde rigettare le numerose contestazioni svolte dal ricorrente, il principio di discrezionalità tecnica che caratterizza la decisione amministrativa, mentre avrebbe dovuto esaminare ognuna delle censure svolte nel ricorso di primo grado, sotto il profilo di manifesta illogicità o irragionevolezza o comunque di contrarietà a buona fede; che, a fronte della carenza della motivazione (e di riflesso della fondatezza del motivo che aveva eccepito tale vizio della sentenza impugnata), doveva essere disattesa l’eccezione di genericità e inammissibilità dell’atto di appello per carenza del requisito della specificità.

4. Entrando nella disamina degli argomenti posti dall’Azienda sanitaria a fondamento dell’esito negativo della verifica, osservava la Corte di appello che:

a) quanto all’addebito di “disinteresse e sottovalutazione del ruolo ricoperto”, del tutto inidonea era la lettera 16 gennaio 1998 inviata dal B. all’Asl resistente con cui l’appellante si era limitato a dolersi delle difficoltà incontrate nello svolgimento, nell’ambito relativo al pronto soccorso, dell’attività chirurgica a causa della carenza di mezzi messi a sua disposizione;

b) l’elevato “turn-over dei medici in pronto soccorso” era un addebito del tutto generico, poichè in assenza di qualsiasi dato in ordine all’effettiva consistenza quantitativa e alle motivazioni che avevano spinto i medici ad abbandonare il reparto del B. non poteva certamente ritenersi che il turn-over fosse di per sè imputabile a quest’ultimo;

c) la “richiesta di assegnazione di personale medico afferente esclusivamente alla disciplina di chirurgia generale” era circostanza generica in assenza di dati specifici in ordine alle effettive esigenze del reparto di Pronto Soccorso, dati che non erano stati forniti dall’ente resistente;

d) la richiesta di comando per un aggiornamento professionale presso un reparto di clinica chirurgica non era circostanza idonea a costituire un elemento di valutazione negativo, trattandosi dell’esercizio del diritto dell’appellante all’aggiornamento e al miglioramento la sua professionalità;

e) l'”inappropriato utilizzo delle risorse divisionali di competenza” e la “non conoscenza delle modalità di registrazione delle prestazioni fornite agli utenti della zona di breve-osservazione”, mossa con riferimento esclusivo alla registrazione come “ricovero” anche di permanenze inferiori alle 24 ore, costituivano addebiti generici in mancanza di indicazioni circa le disposizioni che sia assumevano violate;

f) non vi era prova di “atteggiamenti ostativi nei confronti delle determinazioni organizzative aziendali, non consoni al ruolo dirigenziale ricoperto in mancanza di comportamenti volti a fattivamente superare le criticità evidenziate”, atteso che l’unico elemento specificamente indicato sul punto nella scheda di verifica era costituito da una lettera del 7 febbraio 2001 con la quale il dott. B., nella sua qualità di primario di pronto soccorso, aveva lamentato, con toni accesi ma non inappropriati o gratuitamente offensivi, lo smantellamento della Diagnostica Radiologica del Pronto Soccorso, da considerarsi, in quanto tale e a prescindere da qualsiasi valutazione nel merito di tale decisione, legittimo esercizio del suo diritto di critica verso le decisioni aziendali;

g) generico e privo di qualsiasi riscontro era l’addebito di “firme in bianco sul verbale di pronto soccorso” posta a fondamento dell’addebito di “irregolarità amministrative gravi”, radicalmente contestato dall’appellante;

h) parimenti generici o privi di riscontri erano gli addebiti posti a fondamento dell’accusa di “creazione di disfunzioni organizzative”;

i) l’istituzione di un “ambulatorio” del Pronto Soccorso di (OMISSIS) per l’espletamento di visite di controllo, medicazioni, piccoli interventi chirurgici, “più correttamente erogabili nei poliambulatori ospedalieri”, in assenza di qualsiasi specifica allegazione in ordine a violazione di normative interne o disposizioni aziendali, doveva ritenersi espressione della discrezionalità del B. nello svolgimento del suo ruolo dirigenziale;

l) del tutto generica e priva di riscontri era rimasta la “registrazione impropria di attività ambulatoriali come prestazioni di pronto soccorso”.

5. In conclusione, riteneva la Corte territoriale che la delibera fosse viziata da manifesta illogicità ed irragionevolezza, da cui l’illegittimità della revoca della posizione di dirigente di struttura complessa e il conseguente obbligo per l’Azienda appellata, nelle more dell’effettuazione di una nuova valutazione, di ripristinare il B. nella posizione dirigenziale precedentemente rivestita.

6. L’illegittimità della revoca comportava il sorgere del diritto del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, a percepire – nel periodo dal 1 gennaio 2002 al 1 gennaio 2009 l’indennità di esclusività per l’intero importo, con conseguente condanna dell’Amministrazione resistente al pagamento per tale titolo della somma di Euro 1.032,91 mensili, oltre interessi legali a far data dalla maturazione di ogni singolo rateo sino al saldo.

7. Per la cassazione di tale sentenza l’Azienda unità sanitaria locale di Viterbo ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso il B.. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello accolto il terzo motivo di gravame del B. vertente sul vizio di carenza di motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla eccepita illegittimità ed incongruità della verifica e del giudizio negativo della commissione tecnica; l’appello si era limitato ad una contestazione generica e sommaria delle circostanze di fatto, in violazione dell’art. 342 c.p.c., che impone la specificità del gravame.

2. Con il secondo motivo l’Azienda sanitaria ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 ter nonchè vizio di motivazione, sostenendo che la Corte di appello aveva invertito il giudizio del Tribunale, secondo il quale la verifica compiuta dalla Commissione di cui al citato art. 15 ter attiene alla sfera della discrezionalità tecnica, restando censurabile sul piano della legittimità soltanto per evidente superficialità, incompletezza, incongruenza emergente dalla stessa documentazione, tale da evidenziare un eccesso di potere. Al contrario, i giudici di appello erano entrati nel merito degli elementi indicati nella scheda valutativa, formulando un inammissibile nuovo giudizio, sostitutivo di quello della Commissione. In ogni caso, poi, la motivazione della sentenza di appello non aveva chiarito i criteri che avevano portato i giudici di appello ad affermare la manifesta illogicità ed irragionevolezza di gran parte degli addebiti. Contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la carenza di personale infermieristico lamentata dal dott. B. costituiva una circostanza di fatto priva di riscontro. Comunque, poichè non è difficile credere che all’interno delle UU.00. si possa verificare la carenza di personale infermieristico, spetta al dirigente sanitario dimostrare all’azienda le proprie doti gestionali e professionali in grado di risolvere ogni problema organizzativo. Nel complesso il dott. B. non aveva dimostrato capacità manageriali adeguate all’incarico assunto, sicchè la sua permanenza nelle medesime funzioni avrebbe potuto creare un grave pregiudizio all’azienda.

3. Il terzo motivo addebita alla sentenza la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere riconosciuto, in favore dell’appellante, la somma di Euro 1.032,91 mensili a titolo di indennità di esclusività per il periodo in cui il provvedimento dichiarato illegittimo aveva prodotto i suoi effetti. Tuttavia, lo stesso B. nel ricorso introduttivo aveva rappresentato di avere percepito fino al dicembre 2001 l’indennità di esclusività pari ad Euro 1.376,95 mensili e che tale indennità gli era stata indebitamente decurtata dal 1^ gennaio 2002 ad Euro 1.032,91 mensili. Era dunque evidente che la richiesta formulata dal dirigente fosse tesa al solo riconoscimento della differenza fra quanto asseritamente dovuto (Euro 1.376,95) e quanto effettivamente percepito (Euro 1.032,91), mentre i giudici di appello avevano erroneamente condannato l’Azienda sanitaria al pagamento di somme già corrisposte e non della sola differenza tra il dovuto e il percepito. Dallo stesso ricorso introduttivo era possibile evincere che la richiesta era pari ad Euro 344,04 anzichè ad Euro 1.032,91.

4. Il primo motivo è inammissibile.

4.1. Occorre premettere che il grado di specificità dell’atto di appello va valutato in relazione al tenore e alla portata motivazionale della sentenza impugnata. Nella specie, la Corte di appello ha evidenziato come la sentenza di primo grado fosse del tutto generica per avere omesso di esaminare partitamente le censure mosse dal B. nel ricorso di primo grado. Il carattere sommario della sentenza di primo grado costituiva un vizio processuale che, correttamente denunciato con il terzo motivo di appello, doveva essere accolto, con conseguente disamina analitica, nel secondo grado di giudizio, di quelle censure che il primo giudice aveva trascurato di considerare e valutare ai fini della legittimità dell’operato della ASL.

4.2. In tema di giudizio d’appello – che non è un iudicium novum, ma una revisio prioris instantiae – il requisito della specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c. (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportategli dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a), conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012), esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico-giuridico, ciò risolvendosi in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure (v. tra le più recenti, Cass. 4695 del 2017).

4.3. Attesa la formulazione del motivo che denunzia evidentemente un error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, alla fattispecie trovano applicazione i principi affermati da Cass. S.U, 22 maggio 2012 n. 8077, secondo cui, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito. Tanto impone al ricorrente di conformare il proprio atto di impugnazione alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

4.4. Nel caso di specie, tali oneri non sono stati assolti da parte ricorrente, che ha del tutto omesso di riportare il testo della sentenza di primo grado, occorrente per valutare il grado di specificità del terzo motivo di appello, del pari non trascritto nella sua interezza da parte ricorrente, che ne aveva l’onere. E’ quindi precluso a questa Corte il vaglio preliminare da condursi alla stregua del tenore testuale del ricorso, il cui mancato superamento preclude l’esame diretto degli atti del fascicolo di causa.

5. Il secondo motivo è infondato, in quanto la valutazione espressa dalla Corte di appello, approfondita e puntuale, non ha esorbitato dai limiti imposti al giudice ordinario nella verifica, estrinseca al giudizio di discrezionalità tecnica, della legittimità del provvedimento di conferma o revoca dell’incarico dirigenziale nel pubblico impiego.

5.1. Più volte questa Corte ha avuto modo di affermare che gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro; le norme contenute nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 19, comma 1, obbligano l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.. Tali norme obbligano la P.A., tra l’altro, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte. Il provvedimento di conferimento dell’incarico di dirigente, avendo natura negoziale, resta sindacabile dal giudice ordinario sotto il profilo dell’osservanza delle predette regole di correttezza e buona fede nell’esercizio dei poteri privati (cfr. SS. UU. n. 9332/2002; n. 2954/2002; n. 1254/2004).

5.2. Nella specie, la delibera della ASL è stata adottata alla stregua dell’art. 30, punto 5, CCNL dirigenza sanitaria 1998/2001, secondo cui, in caso di esito negativo della verifica ai dirigenti è conferito un incarico professionale tra quelli previsti dall’art. 27, comma 1, lett. c), rendendo contestualmente indisponibile un posto di organico di dirigente; lo stesso art. 30, comma 2 prevede che la verifica è disposta dall’azienda è svolta sulla base dei criteri indicati dell’art. 28, comma 7 e art. 29, comma 4 – secondo alinea. La verifica è effettuata da parte della Commissione prevista dal D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 ter, comma 2. Dunque, la verifica compiuta dalla Commissione doveva attenersi ai criteri di cui all’art. 28, comma 7 e all’art. 29, comma 4, il quali prevedono, tra l’altro, per quanto qui rileva, che nel conferimento degli incarichi e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse, le aziende tengono conto della natura e caratteristiche dei programmi da realizzare; dell’area e disciplina di appartenenza o della professionalità richiesta; delle attitudini personali e delle capacità professionali del singolo dirigente sia in relazione alle conoscenze specialistiche nella disciplina o professione di competenza che all’esperienza già acquisita in precedenti incarichi svolti anche in altre aziende o esperienze documentate di studio, ricerca o professionali presso istituti di rilievo nazionale o internazionale; dei risultati conseguiti in rapporto agli obiettivi assegnati nonchè alle valutazioni riportate.

5.3. La Corte territoriale, nella impugnata sentenza, si è sostanzialmente attenuta alle regulae iuris innanzi richiamate circa la non correttezza del giudizio espresso dall’Amministrazione per avere adottato una determinazione senza corredarla di una motivazione idonea a sostenerla, così violando i criteri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..

5.4. La sentenza impugnata ha analizzato la congruità logica degli argomenti posti a sostegno della delibera di revoca, osservando che non poteva dirsi conforme ai principi di buona fede e correttezza una motivazione del provvedimento fondata su fatti insussistenti o privi connessione logica con i requisiti da provare, ossia le capacità organizzative e gestionali del dirigente di secondo livello.

6. In proposito, vale ribadire che l’indagine sulla correttezza della valutazione compiuta dal giudice di merito è soggetta unicamente al controllo di idoneità della motivazione da parte della Corte di Cassazione (cfr. Cass. n. 3227 del 2008) e dunque è incensurabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivata.

6.1. Nessuna incoerenza logica è riscontrabile nel giudizio che ha portato la Corte territoriale a concludere che la motivazione addotta a sostegno del provvedimento di revoca era inidonea a sostenerlo e che, pertanto, erano stati violati i canoni di buona fede e correttezza cui deve attenersi anche il datore di lavoro pubblico.

7. Il terzo motivo è fondato, come ha dato atto anche il controricorrente. La Corte d’appello è incorsa in errore di fatto circa il conteggio del conguaglio spettante, in quanto avrebbe dovuto liquidare, per effetto della condanna, in luogo della somma di Euro 1.032,91, la somma di Euro 344,04 mensili quale differenza tra la somma spettante e quella percepita.

8. In conclusione, rigettati il primo e il secondo motivo di ricorso ed accolto il terzo, la sentenza di appello va cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2: annullata la statuizione relativa all’indennità di esclusività e confermata ogni altra statuizione della sentenza di appello, l’Azienda sanitaria locale di Viterbo va condannata al pagamento, in favore del B., per il periodo dal 1 gennaio 2002 al 1 gennaio 2009, della somma di Euro 344,04 mensili, oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli ratei al saldo.

9. Tenuto conto del complessivo esito del giudizio, ferme le spese di lite di gradi di merito, le spese del giudizio di legittimità solo compensate integralmente fra le parti.

PQM

 

La Corte rigetta il primo e il secondo motivo; accoglie il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna la ASL di Viterbo al pagamento, in favore di B.L., dal 1 gennaio 2002 al 1 gennaio 2009, della somma di Euro 344,04 mensili, oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli ratei al saldo. Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2017

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