Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19704 del 28/08/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 19704 Anno 2013
Presidente: ADAMO MARIO
Relatore: CIGNA MARIO

SENTENZA

sul ricorso 19260-2010 proposto da:
DE STASIO MARGHERITA ANNA, elettivamente domiciliato
in ROMA VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio
dell’avvocato MACIOCE FRANCESCO, che lo rappresenta e
difende giusta delega a margine;
– ricorrente contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 28/08/2013

avverso la decisione n.
TRIBUTARIA

CENTRALE

di

960/2010 della COMM.
ROMA,

depositata

il

16/02/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 18/01/2013 dal Consigliere Dott. MARIO

udito per il ricorrente l’Avvocato MARINI, delega
Avvocato MACIOCE, che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato PISANA che
ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

CIGNA;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con avviso notificato in data 11-5-1988 l’Ufficio del Registro di Albano Laziale revocava i benefici
fiscali fruiti ex L 118/1985 dalla contribuente De Stasio Margherita per l’acquisto, avvenuto con atto
registro, ipotecaria e catastale, per un importo complessivo di lire 47.212.000 (pari ad euro
24.382,96); ciò in quanto da una nota dell’UTE di Roma n. 22963 del 28-2-1987 era risultato che il
predetto immobile doveva essere considerato di lusso, ai sensi dell’art. 6 del D.M. 2 agosto 1969,
avendo un superficie utile complessiva superiore a mq 240.
La Commissione Tributaria di primo grado di Velletri, considerato che dalla detta nota UTE era
emerso che la superficie utile della parte abitativa era inferiore a mq 240 (circa mq 225) e che vi era
una residua porzione del piano seminterrato destinata ad ufficio (circa mq 90), disponeva che le
agevolazioni fiscali fossero applicabili solo per la parte dell’immobile destinata ad abitazione e non per
quella destinata ad ufficio.
La Commissione Tributaria di secondo grado di Roma rigettava l’appello dell’Ufficio, ritenendo doversi
considerare la situazione reale dell’immobile, e quindi applicare la tassazione su detta situazione.
Con sentenza n. 960 dell’11-11-09/16-2-2010 la CTC di Roma accoglieva il ricorso dell’Ufficio,
rilevando che la compravendita aveva riguardato un’unica unità immobiliare con destinazione
abitativa, e come tale censita in catasto ed inserita nella categoria A/1 per vani 10, categoria di lusso;
di conseguenza non potevano essere applicati i benefici fiscali previsti per l’acquisto della prima casa
di abitazione; soggiungeva che, d’altra parte, contrariamente a quanto affermato dalla Commissione di
secondo grado, non poteva considerarsi la situazione reale dell’immobile, atteso che nella fattispecie si
era verificata un’indebita variazione di uso (da abitazione ad ufficio) di parte dell’immobile, e non
poteva quindi attribuirsi un beneficio fiscale in conseguenza di un abuso perpetrato in violazione delle
norme urbanistiche.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione la contribuente, affidato ad un solo motivo;
resisteva l’Agenzia con controricorso; la contribuente presentava, inoltre, ulteriore memoria ex art
378 cpc.
In data 4-8-2010 la contribuente presentava istanza per la definizione agevolata della controversia ex
art. 3, comma 2 bis lett. b) D.L. 25-3-2010 n. 40, convertito con modificazioni in L. 22-5-2010 n. 73; con
nota prot 2011/20877 l’Agenzia delle Entrate di Roma attestava l’irregolarità dell’istanza, in quanto

10-4-1986, di un immobile sito in Roma, e liquidava conseguentemente le maggiori imposte di

l’Amministrazione Finanziaria non era risultata soccombente nei primi due gradi del giudizio, come
invece richiesto dalla su citata disposizione per addivenire alla richiesta definizione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Vanno, in primo luogo, esaminate le questioni pregiudiziali e preliminari sorte in seguito sia alla
presentazione -da parte della contribuente- della predetta istanza di definizione della lite pendente

Come è noto l’art. 3, comma 2-bis D.L. 40/2010, prevede, per ciò che interessa le questioni in esame,
che:
“Al fine di contenere la durata dei processi tributari nei termini di durata ragionevole dei processi,
previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto
del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della predetta Convenzione, le controversie
tributarie pendenti che originano da ricorsi iscritti a ruolo nel primo grado, alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del presente decreto, da oltre dieci anni, per le quali risulti
soccombente l’Amministrazione finanziaria dello Stato nei primi due gradi di giudizio, sono definite
con le seguenti modalità:

b) le controversie tributarie pendenti innanzi alla Corte di cassazione possono essere estinte con il
pagamento di un importo pari al 5 per cento del valore della controversia determinato ai sensi
dell’articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, e
contestuale rinuncia ad ogni eventuale pretesa di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001,
n. 89. A tal fine, il contribuente può presentare apposita istanza alla competente segreteria o
cancelleria entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto, con attestazione del relativo pagamento. I procedimenti di cui alla presente lettera restano

sia alla attestazione -da parte dell’Agenzia- della non regolarità della istanza medesima

sospesi fino alla scadenza del termine di cui al secondo periodo e sono definiti con compensazione
integrale delle spese del processo. In ogni caso non si fa luogo a rimborso…
L’avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito di attestazione degli uffici dell’amministrazione
finanziaria comprovanti la regolarità della istanza ed il pagamento integrale di quanto dovuto ai sensi
del presente decreto”.
Ciò posto, tenuto conto che, alla stregua della predetta disciplina, la estinzione del giudizio non si
produce automaticamente per effetto del pagamento della somma e della manifestazione di rinuncia
del contribuente ad eventuali pretese di equa riparazione ma soltanto “a seguito di attestazione degli
uffici della amministrazione finanziaria comprovanti la regolarità della istanza ed il pagamento

o

integrale di quanto dovuto” , va, in primo luogo, affermata la competenza della Corte, quale Giudice
presso il quale pende la lite, a sindacare l’eventuale rifiuto di condono.
Non è di ostacolo a tale conclusione la mancanza di una espressa previsione normativa attributiva
della competenza, ricavandosi implicitamente tale competenza dalla stessa disciplina legislativa in
esame, laddove, da un lato, dispone che la istanza di estinzione del giudizio è “presentata” dal
contribuente “alla Cancelleria” della Corte, che è quindi investita direttamente della questione
attinente la sussistenza delle condizioni alle quali la legge ricollega l’effetto estintivo; dall’altro,
contenimento dei tempi processuali, con la conseguenza che, nel caso in cui l’atto di “attestazione di
irregolarità” (o comunque il rifiuto di condono) dell’Ufficio dovesse essere autonomamente impugnato
dal contribuente in un distinto giudizio avanti la CTP, si verrebbe ad ottenere un risultato palesemente
incompatibile con la esplicita “ratio legis” del DL 40/2010 (e dell’art. 111 Cost), venendosi a
procrastinare la durata della lite pendente atteso che il Giudice della stessa dovrebbe disporre la
necessaria sospensione del processo principale in attesa della risoluzione della causa avente ad
oggetto la impugnazione della attestazione di irregolarità.
Affermata, quindi, la competenza della Corte, va poi esaminata l’ulteriore questione preliminare
concernente la valutazione del requisito della doppia soccombenza, richiesto dalla legge per
l’applicazione del condono.
Siffatta questione si pone in quanto il legislatore ha trascurato del tutto di considerare -quanto ai
giudizi pendenti avanti la Corte di cassazione- che il previgente sistema del processo tributario
prevedeva tre gradi di giudizio di merito (cfr. art. 26 Dpr 26.10.1972 n. 636; in ordine alla piena
cognizione anche in fatto della CTC: cfr. Corte Cass. I sez. 155.1993 n. 5565; id. I sez. 30.3.1994 n.
3146).
Al riguardo questo Collegio condivide il principio già espresso da questa stessa S.C., secondo cui “In
tema di condono fiscale, presupposto per la definizione agevolata delle liti fiscali pendenti innanzi alla
Corte di Cassazione prevista dall’art 3, comma 2-bis, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40 convertito con
modificazioni nella legge 22 maggio 2010, n. 73, è la soccombenza dell’Amministrazione finanziaria nei
precedenti gradi di giudizio. Il riferimento normativo ai “primi due gradi di giudizio”, va interpretato
nel senso che occorre aver riguardo all’intera vicenda processuale, nella quale l’Ufficio tributario deve
essere stato costantemente soccombente con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il giudizio di
cassazione sia stato preceduto – in applicazione del rito previgente – da tre gradi di giudizio, è
necessario, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di definizione, che si sia verificato un triplice esito
sfavorevole per l’Amministrazione, atteso che la “ratio” delle norme è quella di deflazionare il
contenzioso pendente da oltre 10 anni confidando sull’elevata probabilità di un esito sfavorevole in
sede di legittimità” (Cass. 21714/2010; in senso conforme anche 23786/2010); in tal senso anche
Circolare M.F. n. 37/E del 2010, punto 6.1.3, secondo cui “le pendenze in Cassazione possono essere

intende provvedere alla esigenza di impedire l’ulteriore violazione del principio di ragionevole

definite anche se precedute da tre gradi del giudizio, a condizione tuttavia che sia stato registrato un
triplice conforme esito sfavorevole per l’Amministrazione Finanziaria”.
Nel caso di specie va quindi ritenuta inefficace l’istanza di definizione della lite, atteso che
l’Amministrazione Finanziaria è risultata totalmente vincitrice nel giudizio innanzi alla CTC e solo
parzialmente soccombente nel giudizio di primo grado.
Venendo, ora, al merito, con unico motivo di ricorso la contribuente, deducendo -ex art. 360 comma 1

modificazioni in L 118/1985, rilevava che la CTC si era limitata ad affermare che l’immobile in
questione al momento dell’acquisto era iscritto in catasto come unica unità abitativa adibita ad
abitazione, senza tenere presente quanto accertato dall’UTE nella su citata nota (che rispecchiava la
situazione reale dell’immobile sin dal gennaio 1965) e senza considerare che la destinazione effettiva
dell’immobile era da ritenersi prevalente rispetto alle risultanze catastali; al riguardo precisava,
inoltre, che, contrariamente a quanto affermato dalla CTC, dagli allegati alla domanda in sanatoria
presentata dall’allora proprietario dell’immobile risultava che la variazione della destinazione di parte
dell’immobile (da abitazione a studio professionale) era avvenuta molto prima dell’acquisto in
questione e che tale nuova destinazione era stata definitivamente autorizzata dal Comune di Roma nel
1987.
Siffatto motivo va rigettato.
L’impugnata sentenza della CTC si fonda, invero, su due autonome rationes decidendi, ritenendo non
dovuti i benefici fiscali previsti per l’acquisto della prima casa sia perché l’unità abitativa in questione
risultava censita in catasto nella categoria A/1 per vani 10, categoria di lusso, sia perchè comunque
non poteva considerarsi la dedotta situazione reale dell’immobile (solo mq 225 destinati ad abitazione
ed il resto -circa mq 90- destinata ad ufficio), atteso che la variazione d’uso (da abitazione ad ufficio)
era indebita, e non poteva quindi attribuirsi un beneficio fiscale in conseguenza di un abuso perpetrato
in violazione delle norme urbanistiche.
Siffatta ultima ratio non è stata adeguatamente censurata dalla ricorrente, che ha invero incentrato il
suo ricorso sulla prevalenza della destinazione effettiva rispetto alle risultanze catastale, senza in
alcun modo contrastare l’impugnata decisione in ordine alla ivi affermata impossibilità di attribuire un
beneficio fiscale in conseguenza di un abuso perpetrato in violazione delle norme urbanistiche, ed
anzi, a tale proposito, confermando che, al momento dell’acquisto dell’immobile in questione (10-41986), la nuova destinazione di parte dello stesso ad uso studio professionale non era stata ancora
autorizzata dal Comune di Roma (autorizzazione intervenuta, secondo la stessa ricorrente, nel 1987).
In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.

n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 1, D.L. n. 12 del 1985, convertito con

MITE nA REoisTRAZIONg
AI SENS1 DEL
– N..5
N. 131 TAB.
MATEULA TRIBUIAICA

I compensi di lite relativi al presente giudizio di legittimità, liquidati come in dispositivo, seguono la
soccombenza.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dei compensi di lite relativi al
presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 2.200,00, oltre spese prenotate a

Così deciso in Roma i data 18-1-2013 nella Camera di Consiglio della sez. tributaria.

debito.

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