Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19704 del 03/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 03/10/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 03/10/2016), n.19704

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26792-2013 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE

LUCA TAMAJO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA UGO OJETTI 401, presso lo studio dell’avvocato ANNA SCARPONI,

rappresentato e difeso dagli avvocati GIUSEPPE FONTANAROSA,

FRANCESCO SAVERIO LUBRETO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2619/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 21/05/2013 R.G.N. 6814/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2016 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

udito l’Avvocato FONTANAROSA GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da Poste Italiane a F.M. in data 25 ottobre 2010 con ordine di reintegra e di pagamento delle retribuzioni dalla data di licenziamento fino alla reintegra.

La Corte territoriale ha riferito che Poste aveva contestato al lavoratore che aveva deliberatamente sottratto due assicurate riservate di servizio, Inviate dal direttore dell’ufficio postale il 5 dicembre 2009 ma mai giunte a destinazione ed indirizzate una al direttore della filiale e l’altra al responsabile delle rappresentanze unitarie; che a riprova della sottrazione delle lettere vi erano le dichiarazioni comunicate al direttore dell’ufficio postale da tale dott. A.M., amministratore dello stabile dove era collocato l’ufficio postale e frequentatore dello stesso, il quale era stato contattato dal F., in possesso del contenuto delle due assicurate, perchè intercedesse con il direttore dell’ufficio affinchè non proseguisse nella segnalazione; che dal contenuto delle due riservate personali era emersa in tutta la sua gravità l’incapacità del F. di rapportarsi con i colleghi, con il suo superiore di cui delegittimava spesso la figura, nonchè con la clientela.

Secondo la Corte territoriale era fondata la preliminare doglianza di tardività della contestazione rispetto ai fatti addebitati. La Corte ha precisato che l’unica contestazione valutabile, in quanto dettagliatamente riportata,era quella relativa alla sottrazione delle due raccomandate avvenuta in data 5 dicembre 2009; che il tempo trascorso dall’accadimento e la contestazione di circa nove mesi appariva assolutamente ingiustificabile; che infatti risultava già dalla nota del 9 dicembre 2009 che il direttore dell’ufficio postale aveva evidenziato che erano sparite le due lettere, che era stato sentito il F. e che a prova della sottrazione delle lettere da parte del lavoratore vi erano le dichiarazione del citato Dott. Aita. La Corte ha poi riferito che la stessa società Poste, al punto n. 11 della memoria difensiva, aveva dedotto che il giorno successivo ai fatti all’apertura dell’ufficio postale citato il dott. A.M. aveva chiesto al direttore dell’ufficio postale di non inviare le relazioni contenute nelle assicurate sparite e che inoltre l’accertamento dei fatti addebitati al F. non erano particolarmente complessi, nè richiedevano i tempi per le indagini ispettive. La Corte ha quindi concluso ritenendo ingiustificato il licenziamento.

Avverso la sentenza ricorre Poste Italiane formulando un unico articolato motivo ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste F..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Poste Italiane denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 nonchè vizio di motivazione.

La ricorrente dopo aver riportato passi della sentenza del tribunale, si duole che la Corte d’appello aveva omesso di valutare una serie di circostanze idonee a giustificare un certo lasso di tempo tra la data dell’accadimento dei fatti addebitati e la contestazione, nè aveva tenuto conto che la presunta tardività della contestazione non aveva determinato alcuna lesione del diritto di difesa del lavoratore.

Deduce che la società aveva avuto conoscenza dei fatti diversi mesi dopo il loro verificarsi in quanto il procedimento investigativo condotto dalla Fraud Management era terminato ed era stata consegnata alla società il rapporto solo in data 6 agosto 2010 dopo alcuni mesi di indagini a seguito della segnalazione da parte del direttore della filiale; che pertanto solo da tale data la società aveva avuto piena cognizione dei fatti; che la società non avrebbe potuto procedere alla contestazione disciplinare sulla base della sola segnalazione del direttore dell’ufficio postale senza attendere l’esito dell’istruttoria.

Osserva che il comportamento del lavoratore rientrava pienamente nell’art. 616 c.p.c. avendo sottratto le raccomandate e rivelato il contenuto ad estranei ponendo in essere comportamenti di particolare gravità. Deduce che Poste aveva un organico di 150.000 unità e che pertanto il requisito dell’immediatezza doveva essere inteso In senso relativo potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo.

Rileva altresì che la tardività non aveva determinato alcuna lesione del diritto di difesa del lavoratore come poteva desumersi dalla circostanza che F. aveva risposto in dettaglio alla contestazione.

Il motivo è infondato.

Deve, in primo luogo, rilevarsi, con riferimento alla denuncia di violazione dell’art. 7 Stat. Lav., che esso non è pertinente rispetto al motivo di censura in concreto rivolto alla sentenza, concernente invece doglianze riferite alla motivazione ed al valore probatorio attribuito agli elementi posti a base della decisione. Al riguardo, va rilevato che la violazione o falsa applicazione di legge presuppone un’errata interpretazione da parte del giudice della norma che regola la fattispecie astratta corrispondente a quella concreta sottoposta alla sua attenzione, laddove nel caso la parte sostanzialmente si lamenta non della violazione della legge da parte della sentenza impugnata, ma della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria circa aspetti fattuali che secondo Poste avrebbero dovuto indurre la Corte d’appello ad una diversa decisione. La censura, In definitiva, pur attraverso la formale denuncia della violazione di disposizione normativa, risulta sostanzialmente Intesa a sollecitare una rivisitazione del quadro probatorio, inibita a questa Corte In presenza di una congrua e non illogica valutazione dello stesso da parte del giudice di merito.

La Corte d’appello, del resto, ha applicato, In tema di tempestività della contestazione, i principi costantemente espressi da questa Corte secondo cui “In materia dl licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione Integra elemento costitutivo del diritto di recesso del datore dl lavoro in quanto, per la funzione di garanzia che assolve, l’interesse del datore di lavoro all’acquisizione di ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore non può pregiudicare il diritto di quest’ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicchè, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l’esercizio del potere e la sanzione irrogata è Invalida. (cfr tra le tante Cass. N. 2902/2015). Inoltre, secondo I più recenti arresti di questa Corte (cfr. Cass. n. 19115/13) in materia di licenziamento disciplinare, proprio in quanto tale immediatezza è elemento costitutivo, non è necessario, ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento stesso, che la violazione del detto principio, dia luogo ad un pregiudizio concreto nel confronti del lavoratore incolpato, ed in particolare con riferimento al diritto di difesa invocato da Poste dovendosi valutare, altresì, il principio della buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto (Cass. n. 27842/09), in base al quale il diritto del datore di lavoro a conoscere compiutamente le irregolarità commesse dal suo dipendente non può spingersi sino a consentirgli di svolgere complesse ed oltre modo lunghe indagini a tale scopo, dovendosi invece ritenere che egli abbia l’obbligo di contestare i fatti appena abbia avuto sufficiente contezza degli stessi e della loro gravità.

Va, altresì, rilevato che la sentenza impugnata è stata depositata dopo l’11 settembre del 2012 e pertanto al ricorso per cessazione è applicabile, quanto all’anomalia motivazionale, l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012.

Anche prima della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, costituiva consolidato insegnamento che fosse sempre vietato invocare in sede di legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè non ha la Corte di cessazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197).

Pertanto non può essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla Corte territoriale, essendo la valutazione di tali risultanze – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260).

Nel sistema, l’Intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite dl questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, In sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione In sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta In violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. In questo contesto, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, Introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame dl un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; mentre In ogni caso, la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni dl cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto dl discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso. Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dal gravissimi vizi appena detti.

E’ evidente che, nella fattispecie, una ricostruzione del fatto pienamente sussiste e che la decisione non è affetta dal vizi appena Indicati come soli ormai rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’attuale formulazione.

Il motivo si incentra essenzialmente sulla prova dell’avvenuta conoscenza dei fatti da parte della società solo a seguito della comunicazione del rapporto da parte del reparto Fraud Management, reparto destinato alle Istruttorie predisciplinari, emesso diversi mesi dopo il fatto. Secondo Poste la segnalazione del direttore dell’ufficio non era sufficiente e dunque la contestazione avvenuta dopo circa 9 mesi dal verificarsi dei fatti non poteva considerarsi tardiva.

Le censure, tuttavia, non contrastano In modo concreto e decisivo le affermazioni della Corte territoriale basate sugli elementi probatori emersi dal giudizio.

La Corte infatti, dopo aver precisato che l’unica contestazione valutabile, in quanto dettagliatamente riportata, era quella della sottrazione delle due raccomandate, ha rilevato che l’azienda dopo aver fatto riferimento a complessi ed articolati accertamenti aveva pur sempre ricondotto questi ultimi alla sola segnalazione del direttore dell’ufficio postale del 5/12/2009; che dalla nota del 9/12/2009, indirizzata al responsabile RU Aq.Di., risultava che il direttore dell’ufficio postale aveva riferito delle due raccomandate inviate ma delle cui lettere non via era traccia; che era stato sentito il F. e che a riprova della sottrazione delle lettere vi erano le dichiarazione di tale dott. A.M..

La Corte d’appello ha poi richiamato quanto affermato al punto 11 della memoria di costituzione di Poste da cui risultava confermato che il giorno successivo ai fatti il dott. A. aveva chiesto al direttore dell’ufficio di non inviare le relazioni contenute nelle due lettere sparite e che la teste D.C., applicata al servizio ispezione, aveva dichiarato che gli accertamenti ispettivi erano scaturiti dalla sottrazione delle due raccomandate e che l’indagine si limitò a tale accadimento. La Corte territoriale ha, pertanto, coerentemente concluso che i fatti addebitati non erano particolarmente complessi e non richiedevano lunghi tempi per le indagini ispettive tenuto altresì conto del momento in cui i fatti erano stati ritenuti ragionevolmente sussistenti e dell’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata.

La consegna della relazione da parte della Fraud Management molti mesi dopo i fatti contestati e conosciuti dal datore di lavoro costituisce, pertanto, circostanza non Idonea ad escludere la tardività del licenziamento.

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente a pagare le spese processuali.

Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese processuali che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2016

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