Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19697 del 27/09/2011

Cassazione civile sez. trib., 27/09/2011, (ud. 24/06/2011, dep. 27/09/2011), n.19697

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNARDI Sergio – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30583/2006 proposto da:

ACRT SCARL in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la

cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato PACE Fabio con Studio in MILANO CORSO DI PORTA ROMANA

89/B, (avviso postale), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– resistenti –

avverso la sentenza n. 143/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 16/09/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

24/06/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LETTIERI Nicola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 30.10.2006 è stato notificato al Ministero dell’Economia delle Finanze nonchè all’Agenzia delle Entrate un ricorso della “ACRT Soc. Coop. a r.l.” per la cassazione della sentenza della CTR di Milano descritta in epigrafe (depositata il 16.9.2005), che ha accolto l’appello proposto dalla Agenzia delle Entrate contro la sentenza della CTP di Milano n. 195/50/2002 che aveva accolto il ricorso del contribuente contro avvisi di accertamento relativi a “ritenute alla fonte ed Irpeg + Ilor” per gli anni 1997 e 1998 nonchè avverso diniego di chiusura liti per i medesimi anni.

Le parti intimate non hanno dispiegato attività difensiva scritta, ma l’Agenzia ha depositando in giudizio uno scritto difensivo finalizzato a consentire la partecipazione all’udienza, alla quale poi non è comparsa.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 24.6.2011, in cui il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con i predetti avvisi di accertamento l’Agenzia aveva contestato alla contribuente società cooperativa di non avere effettuato le ritenute di acconto ed i relativi versamenti su compensi corrisposti sia per l’anno 1997 che per l’anno 1998 ed ha preteso l’adempimento di detto obbligo, irrogando poi sia la sanzione relativa all’omessa effettuazione delle ritenute che la sanzione relativa all’omesso versamento delle stesse. Due ulteriori atti di accertamento sono stati poi emanati per il recupero di imposte IRPEG-ILOR relative agli stessi periodi.

Il ricorso giudiziale proposto contro i predetti accertamenti è stato solo parzialmente accolto dalla CTP di Milano, che ha riconosciuto spettanti le agevolazioni di cui al D.P.R. n. 60 del 1973, art. 11, rigettando il ricorso per il resto.

A seguito di detta decisione, la società contribuente ha proposto – per entrambe le annualità – istanza di definizione della lite (ex L. n. 289 del 2002) istanza disattesa dall’Agenzia con l’argomento che – ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 34 – la società istante avrebbe dovuto provvedere al pagamento contestuale della prima rata e delle tre rate successive del debito assunto, oltre agli interessi, ciò che non era stato fatto. I ricorsi contro i due distinti dinieghi sono stati proposti avanti alla CTR di Milano, nel frattempo adita in appello anche sulle questioni degli avvisi di accertamento, sicchè i due processi sono stati riuniti. Tutte le censure di appello proposte dalla società contribuente sono state disattese dalla CTR di Milano.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che:

– per quanto attiene ai dinieghi di definizione agevolata della lite, la circostanza che nel provvedimento fosse stato richiamato la L. n. 350 del 2003, art. 16 (anzicchè il D.L. n. 269 del 2003, art. 34) non poteva assumere rilievo alcuno, sicchè doveva essere applicata la previsione di tale ultima norma, secondo cui il primo pagamento avrebbe dovuto essere comprensivo anche delle tre rate successive alla prima, oltre interessi. L’omesso pagamento di tale somme non avrebbe potuto considerarsi errore scusabile, attesa la notevole differenza tra quanto dovuto e quanto pagato;

– per quanto attiene poi agli avvisi accertamento, era da rigettare l’eccezione di difetto di motivazione dei provvedimenti di accertamento (perchè redatti per mera “relationem” al PVC), atteso che il tema dell’omesso versamento delle ritenute (adeguatamente traslato negli avvisi di accertamento) non avrebbe certo consentito alcuna attività di ricostruzione ed interpretazione dei fatti, che di per sè erano certi;

– quanto alle sanzioni (che erano state irrogate sia sub specie del mancato versamento entro i termini di legge – del D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 13 – che sub specie della mancata effettuazione delle ritenute ex art. 14 del citato D.Lgs.), le due irrogazioni non potevano considerarsi contraddittorie, atteso che il predetto art. 14 precisa espressamente che la sanzione ivi prevista fa comunque “salva l’applicazione delle disposizioni dell’art. 13 per il caso di omesso versamento”;

– quanto ai costi ripresi dall’Agenzia a tassazione per le imposte dirette, l’Agenzia ne aveva contestato il difetto di documentazione ai fini della prova dell’inerenza dei costi medesimi all’attività d’impresa esercitata. La parte contribuente aveva inteso comprovare detta inerenza a mezzo della sola “scheda cassa”, che non può costituire prova idonea, peculiarmente sotto il profilo dell’inerenza del costo;

– quanto infine alla determinazione dell’ammontare delle sanzioni, i provvedimenti si erano attenuti alla regola del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 7 e 3, applicando la sanzione più favorevole, nè l’applicazione della regola del concorso tra plurime violazioni avrebbe potuto avere effetto favorevole alla parte contribuente, perchè si sarebbe pervenuti a determinate una sanzione di importo superiore a quella effettivamente irrogata.

4. Il ricorso per cassazione Il ricorso per cassazione è sostenuto con dieci motivi d’impugnazione e – previa indicazione del valore della lite in somma intermedia tra Euro 260.000 ed Euro 520.000 – si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia in ordine alle spese di lite.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Questione preliminare.

Preliminarmente necessita rilevare l’inammissibilità del ricorso proposto contro il Ministero delle Finanze.

Quest’ultimo non è stato parte del processo di appello (instaurato dopo il 1 gennaio 2001 – data di inizio dell’operatività delle Agenzie fiscali – dal solo Ufficio locale dell’Agenzia) sicchè non ha alcun titolo che lo legittimi a partecipare al presente grado.

6. Il primo motivo d’impugnazione.

Il primo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, e della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 2ed omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p,c., n. 5”.

Con detto motivo la parte ricorrente si è doluta del fatto che il giudice del merito non abbia spiegato – se non per il fatto della posteriorità cronologica rispetto alla disposizione del D.L. n. 269 del 2003, art. 34 – per quale motivo la norma della L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49, non potesse essere applicata al caso in esame, per quanto quest’ultima norma preveda espressamente che le disposizioni della L. n. 289 del 2002, art. 16, si applicano anche alle liti pendenti alla data di entrata in vigore della predetta L. n. 350.

D’altronde, il giudice del merito aveva anche errato a non considerare scusabile l’errore dell’omesso versamento delle rate successive, sulla base di un mero criterio quantitativo (la differenza notevole tra il versato ed il versando), pur avendo la parte contribuente correttamente determinato l’importo della rata effettivamente versata.

Il motivo di impugnazione è infondato per il primo profilo ed inammissibile per il secondo.

Quanto al primo motivo la parte ricorrente si limita ad eccepire che il giudicante non abbia ritenuto applicabile la norma della L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 49, che estende il beneficio di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16, anche alle liti alla data di entrata in vigore della L. n. 350 del 2003), per quanto non vi sia alcuna regola di delimitazione dell’ambito di applicazione dell’anzidetta norma.

La questione è già stata risolta da questa Corte con indirizzo che è condivisibile e che in questa sede non occorre nè rimeditare nè approfondire: “In tema di condono fiscale, la L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 2, comma 49, nello stabilire che “le disposizioni della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, si applicano anche alle liti fiscali pendenti, come definite dalla lettera a) del comma 3 del medesimo art. 16, alla data di entrata in vigore della presente legge”, vale a dire il 1 gennaio 2004, ha esteso l’ambito di applicazione del beneficio della definizione delle liti pendenti, introdotto con la normativa di condono recata dal detto art. 16 della legge del 2002, alle controversie instaurate (come nella specie) nel corso dell’anno 2003, prima escluse dal condono stesso, con conseguente applicazione anche ad esse, a decorrere dal 1 gennaio 2004, delle previsioni ivi contenute, compresa, quindi, quella (comma 6) relativa alla sospensione dei termini di impugnazione fmo alla data del 1 giugno 2004 (Cass Sez. 5, Sentenza n. 11056 del 14/05/2007; negli stessi termini Cass. 9.7.2010, n. 16222).

Consegue da ciò che nella specie di causa (causa che è pacificamente pendente già da epoca antecedente all’anno 2003) la disciplina del menzionato art. 2, comma 49, non può essere applicata, così come ha correttamente ritenuto anche il giudice dell’appello.

Quanto al profilo concernente la scusabilità dell’errore commesso, appare chiaro che con detta censura la parte ricorrente chiede a questa Corte di effettuare una nuova valutazione del merito della questione controversa, con esubero dei poteri che a questa Corte competono e con violazione dell’ambito riservato al giudice di merito, il quale è giudice esclusivo del fatto controverso.

7. Il secondo motivo d’impugnazione.

Il secondo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 39 e 40, ed omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Con detto motivo la parte ricorrente si duole che il giudice di merito non abbia motivato in alcun modo sulla censura proposta in appello in ordine al vizio del provvedimento impositivo, adottato con violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40.

Il motivo è inammissibile, perchè proposto in violazione del criterio dell7autosufficienza del ricorso per cassazione, atteso che la parte ricorrente non specifica adeguatamente dove e come e con quale specifico oggetto sarebbe stata proposta la predetta censura, in grado di appello.

8. Il terzo motivo d’impugnazione.

Il terzo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42″.

Con detto motivo la parte ricorrente si duole del rigetto da parte del giudice del merito della censura proposta con riferimento al difetto di motivazione del provvedimento impositivo impugnato, perchè detta motivazione era stata redatta con acritica ricezione del contenuto del processo verbale di constatazione.

Orbene, anche a voler lasciare in disparte il fatto che il ricorso pecca nuovamente sotto il profilo dell’autosufficienza (non avendo la parte ricorrente dato adeguato conto del contenuto della censurata motivazione del provvedimento impositivo), non può essere tralasciato invece l’indirizzo costantemente fatto proprio da questa Corte secondo cui:” In tema di accertamento dell’IVA, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modificazioni introdotte dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, art. 2, in attuazione dello “Statuto del contribuente”), l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento può essere assolto anche mediante rinvio ad altri atti conosciuti o conoscibili da parte del contribuente, ed in particolare al verbale redatto dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria: pertanto, in caso d’impugnazione, il giudice di merito deve accertare, motivando adeguatamente sul punto, se detto verbale sia stato posto nella sfera di conoscenza del contribuente, tenendo presente che tale presupposto deve considerarsi “in re ipsa” quando il riferimento attiene a verbali di ispezione o verifica redatti alla presenza del contribuente, o a lui comunicati o notificati nei modi di legge” (Sez. 5, Sentenza n. 2462 del 05/02/2007).

Deriva da ciò che (in difetto della protesta di non conoscenza dell’atto richiamato e di specifiche eventuali ragioni di pregiudizio che la modalità di compilazione della motivazione possa avere determinato alla difesa della parte contribuente) non vi è ragione alcuna di supporre che il provvedimento impositivo sia invalido per il solo fatto della modalità “indiretta” dell’argomentazione dedotta a sostengo della pretesa.

Non vi è ragione, dunque, di insistere oltre per concludere che anche questo motivo è da disattendersi.

9. Il quarto motivo d’impugnazione.

Il quarto motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; sulla insussistenza dei presupposti dell’obbligo di effettuare la ritenuta”.

La parte ricorrente assume che non è stato dimostrato in alcun modo che le trasferte non siano state effettivamente effettuate, nè sono state prodotte prove idonee a supportare l’assunto dell’Ufficio, condiviso acriticamente dai giudici di primo e secondo grado.

Il motivo è inammissibile per duplice ragione: sia perchè non è stata individuata la norma che si assume violata (atteso che anche nella rubrica della censura detta norma è stata lasciata in bianco), sia perchè la censura non è riferita ad una specifica argomentazione contenuta nel provvedimento del giudice di secondo grado.

10. Il quinto motivo d’impugnazione.

Il quinto motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 23, ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: sulla insussistenza dell’obbligazione di pagare l’importo corrispondente alle ritenute omesse”.

Con detto motivo la parte ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello abbia errato a non ritenere che l’obbligo di versamento della ritenuta d’acconto sorge solo in presenza dell’effettuazione della ritenuta medesima, in difetto di che viene meno lo stesso presupposto della sua effettuazione. Non avendo la cooperativa contribuente pacificamente, per il fatto stesso che le è stata irrogata una apposita sanzione-effettuato la ritenuta, lo Stato si sarebbe trovato nella condizione di ottenere due volte l’imposta se avesse potuto pretenderla sia dal sostituito (che infatti ha percepito la somma al lordo dell’imposta) sia dallo stesso sostituto.

Il predetto motivo di impugnazione è inammissibile per quanto concerne il profilo dedotto come vizio di motivazione (perchè la parte ricorrente non ha evidenziato alcun fatto controverso che costituisca l’oggetto di tale vizio, limitandosi a dolersi della mancanza di argomenti a sostengo della pronuncia di rigetto) ed infondato e da disattendersi per quanto concerne il profilo dedotto come violazione di legge.

Ed invero è giurisprudenza costante di questa Corte che: “Il rapporto che si costituisce tra il sostituto d’imposta e il sostituito è quello dell’obbligazione solidale passiva con il Fisco, con la conseguente applicabilità dei principi disciplinanti tale tipo di obbligazioni, ivi compreso quello di cui all’art. 1306 cod. civ., riguardante l’estensione del giudicato. A tale conclusione non è di ostacolo nè la diversità della fonte normativa delle obbligazioni relative a sostituto e sostituito, nè il carattere meramente strumentale di quella del sostituto rispetto all’altra.

Infatti, a parte l’espressa previsione della solidarietà nella fase della riscossione – pur limitata al caso della ritenuta d’imposta -, di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 35, che male si adatta alla concezione autonomistica dei due rapporti di obbligazione, nella specie opera la presunzione, stabilita dall’art. 1294 cod. civ., secondo la quale i condebitori sono ritenuti obbligati in solido se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente, e ciò in ragione dell’unicità della prestazione, almeno fino a concorrenza della ritenuta dovuta dal sostituto” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10082 del 25/06/2003; in termini anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 5020 del 02/04/2003; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10082 del 25/06/2003. Da ultimo anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20676 del 30/07/2008).

E d’altronde, la solidarietà tributaria ha, appunto, lo scopo di rendere più agevole la riscossione dell’imposta, il cui pagamento può essere preteso per l’intero nei confronti di ciascun coobbligato, nonostante il carico definitivo del tributo gravi soltanto su altri coobbligati, o sia prevista una ripartizione di tale carico nei rapporti interni tra gli obbligati stessi. Non è perciò condivisibile l’assunto secondo il quale la mancata effettuazione della ritenuta d’imposta abbia l’effetto di determinare addirittura il mutamento della tipologia dell’obbigazione di cui trattasi, la quale ultima -se nasce connotata dall’attributo della solidarietà- non muta certamente il proprio carattere per il solo fatto dell’inadempimento (o del mancato tempestivo adempimento) commesso da uno dei condebitori.

Consegue da ciò che l’Agenzia (a termini dell’art. 1296 cod. civ.) ha correttamente agito nei confronti di uno qualsiasi dei due condebitori solidali il quale, onde liberarsi dell’obbligazione, avrebbe dovuto assolvere all’onere di fornire la prova che il medesimo debito qui fatto valere è già stato adempiuto dall’altro condebitore solidale, prova che non può essere certo surrogata dalla semplice considerazione che l’Agenzia (irrogando la sanzione per omessa effettuazione della trattenuta) avrebbe in tal modo riconosciuto che il sostituto ha provveduto a corrispondere al lordo dell’imposta le somme dovute al sostituito.

Ed invero l’oggetto dell’onus probandi, in riferimento alla questione qui controversa, non è già il fatto che la prestazione pecuniaria dovuta sia stata corrisposta al lordo o al netto delle ritenute a favore del creditore della stessa (di che -per la verità- neppure risulta che la parte oggi ricorrente abbia offerto prova), ma invece il fatto che l’imposta correlata con detta prestazione pecuniaria sia stata effettivamente assolta a favore all’Erario, poichè è soltanto con siffatto adempimento che si determina “l’estinzione ipso iure del debito anche nei confronti di tutti gli altri coobbligati” (in termini Cass. Sez. L, Sentenza n. 12174 del 02/07/2004; Sez. 1, Sentenza n. 1681 del 15/02/2000).

In difetto di una simile prova, non resta che ritenere che anche il presente motivo di impugnazione (per quanto attiene al profilo di violazione di legge, peraltro rimasto appena accennato, atteso che null’altro il ricorrente ha detto se non richiamare il menzionato art. 23, senza adeguatamente esplicare in quale parte l’anzidetta disposizione sarebbe stata vulnerata) debba essere disatteso.

11. Il sesto motivo d’impugnazione.

Il sesto motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 11, ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: sulla applicazione delle agevolazioni previste dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 11”.

Con il presente motivo di impugnazione la parte ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello, pur muovendo dalla premessa che spettano le agevolazioni fiscali previste dal menzionato art. 11 (ciò che implica il requisito della mutualità), ha poi confermato le riprese a tassazione effettuate nei provvedimenti impositivi, sotto forma di costi “in quanto inerenti ad operazioni inesistenti” (ciò che implica il disconoscimento del requisito della mutualità).

Infatti, il requisito della mutualità è da ritenersi esistente quando (come nella specie di causa, per la quale è pacificamente sussistente anche il presupposto del costo del personale superiore alla percentuale del 50% degli altri costi effettivamente sostenuti) sono presenti nello statuto della cooperativa le clausole previste dal D.Lgs. n. 1557 del 1947 , art. 26.

In conseguenza di ciò e per effetto dell’esenzione che ne deriva, secondo la parte ricorrente, per la contribuente cooperativa “non viene mai a configurarsi un debito d’imposta per IRPEG-ILOR”.

Il motivo di impugnazione è inammissibilmente formulato e da disattendersi.

Ed infatti, per quello che è dato di capire dalla sintetica (e di difficile intelligenza) ricostruzione del fatto contenuta nel ricorso introduttivo, la parte ricorrente si duole del capo della pronuncia di appello che ha ritenuto non deducibili i costi (non meglio determinati) per difetto di idonea documentazione (e cioè per il fatto che la parte ricorrente aveva inteso documentarne l’inerenza a mezzo della sola “scheda di cassa”).

Rispetto a siffatta ratio decidendi è del tutto irrilevante e non correlata la censura proposta dalla parte ricorrente, censura che infatti muove anch’essa dal presupposto implicito che – pur non incombendo alla cooperativa alcun obbligo di imposta in relazione ad IPEG-ILOR – la medesima abbia comunque provveduto al pagamento di siffatte imposte dirette nei periodi qui in contestazione, altrimenti non potendosi neppure porre il problema della ripresa a tassazione dei costi di cui trattasi, i quali ultimi intanto rilevano numerariamente in quanto vi sia un’imponibile da cui detrarli.

Senonchè, la ragione per la quale la cooperativa abbia provveduto al pagamento di un’imposta e la ragione per la quale detta specifica imposta non sarebbe stata dovuta, dalla parte ricorrente non sono state adeguatamente lumeggiate, sicchè la censura si risolve in un’affermazione apodittica priva di supporto dimostrativo.

D’altronde, egualmente apodittico e privo di idonea giustificazione sotto il profilo dell’autosufficienza è l’assunto per cui la censura ora in esame sarebbe stata tempestivamente dedotta nel grado di appello. Non rinvenendosene menzione tra quelle che sono state considerate dal giudice di appello, sarebbe spettato anzitutto alla ricorrente giustificarne la proposizione nel thema decidendum dei pregressi gradi e, ciò non essendo stato fatto, non resta che concludere per l’inammissibilità anche di questo motivo.

12. Il settimo motivo d’impugnazione.

Il settimo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109”.

Con detto motivo di impugnazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici di appello abbiano affermato che essa appellante non aveva dimostrato la deducibilità dei costi ripresi a tassazione, per quanto la “scheda cassa” costituisca “documento idoneo a dimostrare la deducibilità dei costi ripresi a tassazione”.

A quest’assunto segue, nel ricorso, la sola elencazione dei costi ritenuti indeducibili. Il motivo ora in esame è inammissibilmente proposto.

La ragione per la quale l’idoneità probatoria del documento di cui si è detto dovrebbe derivare dalle regole contenute nell’art. 109, menzionato in epigrafe non è stata esplicata in alcun modo dalla parte ricorrente, sicchè non resta che concludere che il motivo di impugnazione è privo del requisito della specificità.

13. L’ottavo motivo d’impugnazione.

L’ottavo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art.360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, artt. 7 e 16, ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: difetto di motivazione delle pene pecuniarie”.

Con tale motivo la parte ricorrente si duole che sia stata dal giudice del merito disattesa l’eccepita censura di totale assenza di motivazione nel provvedimento impositivo a proposito della quantificazione delle pene pecuniarie, in relazione agli elementi che – ai sensi del menzionato art. 7 – l’Amministrazione deve considerare. Ad emenda di ciò il giudice di appello aveva argomentato che era stata comunque applicata la sanzione più favorevole, ma erroneamente, giacchè il dovere di motivazione del provvedimento di irrogazione prescinde dal fatto che la sanzione sia applicata in grado minimo.

La censura è proposta con violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ed è perciò inammissibile.

Ed invero, si desume dalla sentenza di appello qui impugnata che il giudicante ha anche espressamente affermato che “gli avvisi di accertamento, relativamente alle sanzioni si sono attenuti alle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7”.

Sarebbe spettato quindi alla parte ricorrente, che ha censurato la pronuncia anche sotto questo aspetto, almeno evidenziare come concretamente sia stato motivato il provvedimento di irrogazione delle sanzioni, senza di che non è possibile intendere se l’espressa pronuncia del giudice di appello – sia in punto di motivazione insufficiente o contraddittoria sia in punto di violazione di legge – meriti di essere cassata.

A tal proposito è sufficiente rimarcare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso – è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti (cosa che nella specie non è accaduta) testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (v. Cass. n. 15867 del 2004).

14. Il nono motivo d’impugnazione.

Il nono motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica:

“Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. 26 otto 1972, n. 633, artt. 41 e 48 e del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, artt. 13 e 14”.

La parte ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello abbia considerato tra loro compatibili le sanzioni irrogate ai sensi degli art. 13 e 14 dianzi menzionati, mentre invece avrebbe dovuto considerare non applicabile al caso di specie la sanzione dell’art. 13, concernente l’ipotesi dell’omesso versamento di tributi in generale, alla luce del fatto che il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 3, n. 1, impone il versamento delle ritenute realmente effettuate, ciò che nella specie, pacificamente, non era avvenuto. Da ciò la mancanza dell’obbligo di procedere al versamento e perciò stesso il difetto del presupposto di applicabilità della sanzione.

In termini basterà qui richiamare il condivisibile indirizzo adottato da questa Corte in uno specifico precedente: “In tema di sanzioni per le violazioni nella materia della riscossione delle imposte sui redditi, qualora il contribuente abbia omesso di effettuare le ritenute alla fonte sui compensi corrisposti a lavoratori dipendenti e di versare l’importo delle trattenute non operate in tesoreria, è configurabile il concorso tra le sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, artt. 13 e 14, sia per la diversità delle condotte punite, sia per il tenore dello stesso art. 14 che nel prevedere per chi non esegue, in tutto o in parte, le ritenute alla fonte, l’applicazione della sanzione amministrativa pari al venti per cento dell’ammontare non trattenuto, “salva l’applicazione delle disposizioni dell’art. 13 per il caso di omesso versamento” ricorre alla tecnica normalmente adoperata in tema di concorso apparente di norme (ai sensi dell’art. 15 cod. pen.)” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22855 del 10/11/2010).

Nè questa interpretazione confligge con il principio di proporzionalità della pena, come asserisce la parte ricorrente, atteso che è del tutto opinabile (e francamente non condivisibile) l’assunto secondo cui sarebbe più grave di quella qui in esame l’ipotesi del sostituto di imposta che abbia operato le ritenute omettendo poi di procedere al versamento, anche alla luce del fatto che detta ultima fattispecie trova repressione anche per mezzo di norme penali che sono idoneo presidio della concorrente lesività criminale, mentre sotto il profilo meramente fiscale la omissione di un obbligo solo non può dirsi certo meno grave dell’omissione di due distinti obblighi.

Ciò detto, non resta che concludere per l’infondatezza del motivo di impugnazione ora in esame.

14. Il decimo motivo d’impugnazione.

Il decimo motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12, ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: sulla applicabilità del concorso”.

Con l’anzidetto motivo la parte ricorrente si duole della mancata applicazione alla specie di causa della disciplina della continuazione, ai sensi del menzionato art. 12, con la conseguente irrogazione della sola pena prevista per il reato più grave, in ragione dell’argomento – valorizzato dal giudice di appello – che si perverrebbe in tal modo all’irrogazione di un sanzione di maggiore importo rispetto a quella concretamente irrogata.

Il predetto giudice avrebbe adottato una “motivazione” apparente, in quanto avrebbe “omesso di verificare in concreto se la disciplina è stata applicata correttamente da parte dell’Ufficio”.

La censura è frustraneamente ed inammissibilmente formulata, poichè priva di specificità oltre che di omessa indicazione del “fatto decisivo” donde si originerebbe il vizio di motivazione in concreto valorizzato dalla parte ricorrente.

Ed infatti, quest’ultima avrebbe dovuto almeno allegare il fatto decisivo controverso (implicitamente sotteso alla censura) secondo cui l’applicazione della regola invocata produrrebbe un effetto favorevole al contribuente, ciò che la ricorrente ha omesso di chiarire con modalità specifiche proprio perchè non ha giustificato quale sarebbe l’ammontare della pena in tesi determinabile ove si dovesse fare applicazione dell’anzidetta regola.

Nessun concreto argomento di censura è stato invece sviluppato sotto il profilo della violazione di legge.

Nulla sulle spese di lite, non avendo svolto l’intimata alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto contro il Ministero. Rigetta il ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia.

Nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2011

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