Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19696 del 21/09/2020

Cassazione civile sez. II, 21/09/2020, (ud. 21/01/2020, dep. 21/09/2020), n.19696

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19579/2019 proposto da:

C.A., domiciliato in ROMA, piazza Cavour, presso la

cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa

dall’Avvocato Giuseppe Briganti, del foro di Ancona con procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato

e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– intimato –

avverso il decreto n. 6146/2019 del Tribunale ordinario di Ancona,

depositata il 12/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/01/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 18.09.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione C.A., che veniva respinta dal Tribunale di Ancona con decisione n. 6146 del 12.05.2019;

– la decisione impugnata evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando, in primo luogo, una valutazione di non credibilità del racconto del ricorrente reso alla Commissione territoriale, considerata la contraddittorietà della vicenda narrata circa la reazione del datore di lavoro del ricorrente, che definito amico fraterno, che gli aveva affidato il trasporto di circa 10 mila Euro, non credendo alla versione della rapina, faceva di tutto per farlo arrestare e persino tentato di ucciderlo; inoltre dal racconto del ricorrente emergerebbe che la polizia prendereva ordini da un datore di lavoro del lavoro rinchiudendolo in cella per 7 mesi e poi nella ricerca per ucciderlo Siffatte circostanze non consentivano il riconoscimento dello status di rifugiato in capo all’appellante, al parti della protezione sussidiaria. Veniva negata la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria – neanche allegato dal ricorrente l’affiliazione politica ovvero un timore persecutorio per il riconoscimento dello status di rifugiato, giacchè dalle informazioni assunte attraverso fonti pubbliche (Unità COI aggiornata al 09.01.2018, documento di ACLED del marzo 2017, un articolo di Minority Right Group International del gennaio 2018, report EASO del 09.01.2018) risultava che in Guinea non vi fossero elementi per ritenere che il ricorrente potesse subire un grave danno dal rimpatrio; del pari non sussistevano i presupposti per gravi motivi di carattere umanitario, non allegato dal ricorrente neanche un elemento di giudizio indicante la elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio ovvero per effetto dello sradicamento del richiedente dal contesto socio-economico nazionale, anche in base ad una valutazione tra vita privata e familiare dell’istante;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il C. affidato a quattro motivi;

– il Ministero dell’interno è rimasto intimato.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità del decreto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, art. 737 c.p.c., art. 135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 111 Cost., comma 6, perchè il Tribunale non avrebbe correttamente applicato al caso di specie il principio del cd. onere probatorio attenuato di cui alla sentenza di questa Corte n. 27310 del 2008. Ad avviso del ricorrente, la ricostruzione dei termini e delle condizioni del Paese operato dal giudice dorico sarebbe errata e comunque inadeguata perchè avrebbe dovuto indagare se le istituzioni guineane in quello specifico caso fossero in grado di assicurare quella effettiva ed idonea protezione in simili casi richiesta dalla normativa.

La censura è priva di pregio.

La decisione impugnata è invero pienamente coerente con i principi posti dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass., Sez Un., 17 novembre 2018 n. 27310), in quanto il giudice dorico ha svolto quel “… ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria” che è ritenuto necessario, in materia di protezione internazionale, a seguito del recepimento in Italia della Direttiva 2004/83/CE, operato con D.Lgs. n. 251 del 2007. Il Tribunale ha infatti adempiuto al dovere di cooperazione del giudice nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, esercitando i suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche dall’adozione del rito camerale, in particolare ricostruendo le condizioni in Guinea ed indicando le fonti consultate in detto procedimento. Il giudice di merito ha poi considerato la tipologia dell’offesa indicata dal ricorrente ed ha valutato tutte le circostanze del contesto, ivi incluso il fatto che il datore di lavoro, del quale il ricorrente sarebbe “fraterno amico”, oltre a farlo imprigionare, lo voleva uccidere, ritenendo – all’esito di detta articolata ricostruzione fattuale e logica – non credibile la minaccia di morte allegata dal richiedente la protezione. Trattasi di motivazione non utilmente censurabile, in sè stessa, in questa sede, non potendo essere invocata dinanzi a questa Corte una revisione del giudizio di fatto operato dal giudice di merito e non avendo il ricorrente offerto, nel ricorso, alcuno specifico elemento idoneo ad inficiare le premesse e lo svolgimento del ragionamento logico-argomentativo e del percorso motivazionale del giudice di merito;

– con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentati dall’esame di tutti i fatti rappresentati dal richiedente in sede di audizione presso la Commissione territoriale, dell’attuale condizione socio-economica del Paese di provenienza, nonchè la mancata effettuazione di un esame comparativo di tutti gli elementi di vulnerabilità presenti nella fattispecie e costituiti dalla minore età al momento della partenza, il percorso migratorio, l’effettivo radicamento in Libia, gli effetti dello sradicamento, l’integrazione socio-lavorativa in Italia.

Anche la seconda censura è infondata.

Ed invero questa Corte ha affermato (cfr Cass. n. 13449 del 2019; Cass. n. 13450 del 2019; Cass. n. 13451 del 2019 e Cass. n. 13452 del 2019, la prima delle quali massimata) il principio per cui il giudice di merito, nel fare riferimento alle c.d. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata, nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (sul punto, cfr. anche Cass. n. 11312 del 2019).

Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa indica le fonti in concreto utilizzare dal giudice di merito – Unità COI aggiornata al 09.01.2018, documento di ACLED del marzo 2017, un articolo di Minority Right Group International del gennaio 2018, report EASO del 09.01.2018 – ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, consentendo in tal modo alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione.

Quanto poi alla doglianza che le informazioni sulla base delle quali il giudice di merito ha deciso sarebbero smentite da altre fonti internazionali, si osserva che questa Corte non può spingersi sino alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito, laddove nel motivo di censura non vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il giudice territoriale ha deciso siano state superate da altre e più aggiornate fonti qualificate. Solo laddove dalla censura emerga la precisa dimostrazione di quanto precede, infatti, potrebbe ritenersi violato il c.d. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede. Può quindi affermarsi il principio secondo cui “non è sufficiente la mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice di merito, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal predetto giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali. A tal riguardo, la censura deve contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla Corte di Cassazione l’effettiva verifica circa la predetta violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (cfr Cass. n. 26728 del 2019);

– con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3, art. 32 Cost., L. n. 881 del 1977, art. 11,D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, 32, art. 16 direttiva Europea n. 2013/32, artt. 2, 3, anche in relazione all’art. 115 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5,6,7 e 14 e T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, per essersi il Tribunale limitato ad affermare l’inattendibilità del ricorrente, senza esporre le ragioni logico-giuridiche di tale conclusione. La circostanza della evasione, ad avviso del ricorrente, poteva e doveva essere verificata interpellando le autorità della Guinea in virtù dei poteri istruttori che fanno capo al giudicante. Neanche sono state accertate le narrate torture subite in prigione.

Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 6 e 13 CEDU, art. 47Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 46 della direttiva Europea n. 2013/32, per non essere stato rispettato il principio di effettività del ricorso in presenza della denunciata violazione del dovere di cooperazione istruttoria.

Le due censure – che vanno trattate congiuntamente per la evidente connessione argomentativa – sono prive di fondamento.

La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340; sui limiti del sindacato circa la credibilità del racconto del richiedente, cfr. pure Cass. 7 agosto 2019, n. 21142).

Il decreto impugnato non presenta alcuna di tali gravi anomalie motivazionali, come già esposto nei precedenti motivi, nè sarebbe corretto sostenere che il giudice abbia mancato di prendere in esame la vicenda personale del richiedente, come pure è lamentato in ricorso, dal momento che la narrazione reputata inattendibile aveva precisamente ad oggetto tale vicenda: ciò che è mancato, in ultima analisi, è – quindi – non già l’apprezzamento di tale vicenda, quanto il riscontro dell’insussistenza delle condizioni che consentissero di ritenere provati i fatti dedotti dal ricorrente. Come è ben noto, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma (Cass. 29 gennaio 2019 n. 2458; Cass. 10 luglio 2014 n. 15782).

Nel caso in esame, come si è detto, il Tribunale ha escluso che la narrazione di C.A. fosse credibile: i fatti descritti, pertanto, non potevano essere posti a fondamento della decisione impugnata. D’altro canto, il giudice del merito non aveva motivo di accertarsi di profili che interessano, in via generale, l’operato delle autorità pubbliche del paese di provenienza del richiedente se la vicenda, da questi narrata – rispetto alla quale assumerebbe importanza l’attività o l’inerzia, giusta il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), di dette autorità sul piano della persecuzione o del rischio del grave danno che dà titolo alla protezione sussidiaria – non poteva reputarsi veritiera secondo i criteri di cui all’art. 3, comma 5, D.Lgs. cit.. Una tale indagine si manifestava in altri termini inutile proprio in quanto nell’indicata evenienza il rischio prospettato dall’istante, siccome correlato a fatti non dimostrati, difettava di concretezza e non avrebbe potuto comunque presentare il richiesto grado di personalizzazione.

Va ricordato, al riguardo, che lo status di rifugiato esige che si dia conto di una personalizzazione del pericolo di essere fatto oggetto di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica: ciò che nel caso in esame deve evidentemente escludersi; con riguardo alle fattispecie tipizzate dall’art. 14, lett. a) e lett. b), è necessario invece osservare che l’esposizione dello straniero al rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti deve pur sempre rivestire un certo grado di individualizzazione (cfr Cass. 20 giugno 2018 n. 16275; Cass. 20 marzo 2014 n. 6503): individualizzazione che nella fattispecie, per le ragioni indicate, non ricorre.

Quanto poi al passaggio in Libia, la Corte di merito registra la irrilevanza della circostanza, argomento a cui resta del tutto estraneo il proposto ricorso che dell’indicata evidenza si limita a denunciarne l’omessa valutazione, trattandosi di paese diverso da quello di origine, nel quale non potrà essere rimpatriato il ricorrente.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il Collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2020

 

 

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