Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19696 del 03/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 03/10/2016, (ud. 08/06/2016, dep. 03/10/2016), n.19696

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3404-2014 proposto da:

S.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA LUCIO PAPIRIO 83, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

AVITABILE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.P., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE GIUSEPPE MAZZINI 73, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

FIORE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati DE

CRESCIENZO FULVIO e SERGIO VACIRCA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5328/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/08/2013, R.G. N. 10495/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/06/2016 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito l’Avvocato ANTONIO AVITABILE;

udito l’Avvocato SERGIO VACIRCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 5328/2013, depositata il 9 agosto 2013, la Corte di appello di Roma confermava, salvo che nel quantum delle differenze retributive, la sentenza di primo grado del Tribunale di Tivoli che, in accoglimento del ricorso di C.P. aveva accertato la sussistenza, fra lo stesso e S.A., di un unico rapporto di lavoro subordinato agricolo dal (OMISSIS) anzichè, come prospettato dal convenuto, di un rapporto agricolo fino al (OMISSIS) e di un rapporto di lavoro domestico dall'(OMISSIS); e che inoltre, dichiarata l’inefficacia del licenziamento, aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del C. nella misura di Euro 1.057,13 mensili per quattordici mensilità dal mese di settembre 2006, in cui il licenziamento era stato intimato, al momento della pronuncia della sentenza. La Corte territoriale rilevava, a sostegno della propria decisione, come, in primo luogo, risultasse confermato, attraverso le deposizioni assunte, che il C. aveva svolto le mansioni descritte nel ricorso, dedicandosi sia prima che dopo la cessazione della coltivazione dei kiwi alla lavorazione dell’intera tenuta, anche utilizzando mezzi meccanici e curandone la manutenzione, con la conseguenza che tale cessazione doveva considerarsi irrilevante ai fini della trasformazione del rapporto di lavoro da agricolo in domestico e che le regole sul licenziamento da applicarsi nel caso concreto rimanevano quelle della L. n. 604 del 1966; rilevava d’altra parte come fosse mancata del tutto la prova di un effettivo licenziamento nel (OMISSIS) e come nessun valore transattivo potesse essere attribuito alla scrittura dell’8/4/2004, unicamente valida come ricevuta dell’importo che vi era indicato; infine rilevava che l’inquadramento riconosciuto dal primo giudice appariva adeguato alle mansioni svolte dal C., il quale, essendo stato l’unico dipendente dell’azienda, era da ritenere avesse curato la parte più qualificata dell’intero lavoro, sia pure con la collaborazione periodica di lavoratori esterni.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il S. con sei motivi; il C. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il S. denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e la contestuale violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 117 c.p.c. e dell’art. 5 CCNL lavoro domestico vigente all’epoca dei fatti (art. 360 c.p.c., n. 3), sul rilievo che la Corte di appello avrebbe del tutto omesso, nella valutazione dei fatti, le dichiarazioni rese dal C. nel corso dell’interrogatorio libero ed inoltre erroneamente non applicato alla fattispecie l’indicata disposizione di fonte collettiva, la quale include nella 3a categoria dei collaboratori domestici anche gli addetti al giardinaggio.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 28 CCNL lavoro agricolo vigente all’epoca dei fatti (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte qualificato come un unico rapporto di lavoro agricolo i due distinti contratti di lavoro intercorsi fra le parti e per avere riconosciuto al C. le mansioni dal medesimo richieste, ignorando la reale portata delle prove acquisite e disapplicando la citata disposizione collettiva.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto discussione fra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2113 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per non avere la Corte di appello considerato che nei mesi di aprile, maggio e giugno 2004 nessun rapporto di lavoro era intercorso fra le parti, nè il fatto che al C., nel (OMISSIS), era stato intimato il licenziamento; e per non avere esattamente valutato il contenuto della dichiarazione in data 8/4/2004, che era stata sottoscritta da quest’ultimo nella convinzione di ricevere tutto quanto dovutogli per il pregresso e cessato rapporto di lavoro agricolo.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 8 e dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte di appello pronunciato ultra petita, confermando la sentenza di primo grado del Tribunale di Tivoli nella parte in cui aveva dichiarato l’inefficacia del recesso e la condanna al pagamento dell’ultima retribuzione globale di fatto per quattordici mensilità dalla data dell’intimazione a quella della pronuncia della sentenza, e comunque disapplicato il costante orientamento di legittimità, secondo il quale, in caso di licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui alla L. n. 108 del 1990, art. 2 la sua inidoneità ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoro alle retribuzioni maturate dal giorno del recesso ma solo quello al risarcimento del danno.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere la Corte condannato l’appellante al pagamento delle spese del giudizio senza procedere a compensazione, quanto meno parziale, delle stesse, tenuto conto del ridimensionamento della domanda per differenze retributive e della conseguente soccombenza.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e contestuale violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 36 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3) per non avere la Corte disposto la detrazione del valore del benefit dell’alloggio dall’ammontare delle differenze retributive riconosciute al C., nonostante che costituisse fatto comprovato in giudizio che egli ne avesse fruito anche successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro agricolo.

Il ricorso deve essere respinto.

Per ciò che attiene al vizio di motivazione dedotto espressamente con i motivi primo, terzo e sesto e, nella sostanza, anche con il secondo motivo, mediante il quale, sotto lo schermo della violazione dell’art. 115 c.p.c., si contesta, in realtà, alla sentenza di secondo grado di avere fatto un cattivo governo del materiale probatorio, ignorando l’effettiva portata delle risultanze acquisite nel corso del procedimento, si osserva che le relative censure non tengono conto della modifica introdotta all’art. 360 c.p.c., n. 5 con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di appello depositata in data 9/8/2013 e, pertanto, in data posteriore all’entrata in vigore della modifica (11 settembre 2012).

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l’art. 360 c.p.c., n. 5, così come riformulato a seguito della novella legislativa, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

In particolare, si osserva: (a) quanto al primo motivo, che le dichiarazioni rese dal ricorrente non costituiscono un fatto “storico” nei sensi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 e che, in ogni caso, il contenuto di tali dichiarazioni ha formato oggetto di esame da parte della Corte territoriale, sia nella parte relativa alla liquidazione di una somma in denaro nel (OMISSIS), sia nella parte in cui il C. ha descritto le sue attività dopo la cessazione della coltivazione di kiwi (cfr. sentenza, pag. 3); (b) quanto al secondo motivo, che esso tende scopertamente ad una nuova lettura e valutazione del materiale di prova da parte di questa Corte di legittimità, così da presentare profili di inammissibilità già nel vigore della formulazione precedente dell’art. 360, n. 5; (c) quanto al terzo motivo, che la Corte di appello, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, ha esaminato il fatto dell’intimazione del licenziamento nel (OMISSIS) (cfr. ancora sentenza, pag. 3, terzo capoverso), rilevando come mancasse, in proposito, la prova di un recesso effettivo, ed inoltre preso in esame sia la circostanza dell’affermato venir meno di qualsiasi rapporto di lavoro nel periodo aprile-giugno (OMISSIS), stante la ritenuta continuità delle prestazioni di lavoratore agricolo del C., tanto prima che dopo la cessazione della piantagione di kiwi (cfr. pag. 3, primo capoverso), sia la portata della quietanza “liberatoria” (cfr. pag. 3, terzo capoverso), a tacere del difetto di dimostrazione in ordine alla “decisività” dei fatti indicati e della inottemperanza agli oneri di deduzione richiesti dalla nuova formulazione della norma, secondo le puntuali precisazioni della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata; (d) quanto al sesto motivo, si osserva come anch’esso risulti carente sotto il profilo del rispetto degli oneri di deduzione, non essendo precisato, quanto meno, dove e quando i fatti, che ne costituiscono l’oggetto, abbiano formato oggetto di discussione fra le parti.

Con riguardo, poi, alla violazione e falsa applicazione di norme di legge e di contratti collettivi denunciata con i motivi in esame, si osserva quanto segue:

– la violazione dell’art. 5 CCNL lavoro domestico, di cui al primo motivo, non ha un rilievo autonomo, fornendo, nella prospettazione del ricorrente, un argomento per dimostrare l’erroneità delle conclusioni tratte dalla Corte territoriale, laddove ha accertato la natura agricola e non domestica dell’attività svolta dal C. anche dopo che era venuta meno la coltivazione dei kiwi;

– la violazione dell’art. 28 CCNL lavoro agricolo, di cui al secondo motivo, risulta insussistente, posto che, accertato dal giudice di merito lo svolgimento da parte del C. delle attività descritte nel ricorso introduttivo e, in particolare, l’impiego nella lavorazione dell’intera tenuta, che comprendeva varie coltivazioni, oltre ai kiwi, e che veniva effettuata anche mediante l’utilizzo di mezzi meccanici, di cui il ricorrente curava la manutenzione, è da ritenersi corretto l’inquadramento attribuito dal primo giudice e confermato dalla Corte di appello, rientrando nella declaratoria dell’area la non soltanto i lavoratori in possesso di un titolo professionale ma anche quelli in possesso “di specifiche conoscenze e capacità professionali che consentono loro di svolgere lavori complessi o richiedenti specifica specializzazione”;

– quanto alla violazione e falsa applicazione dell’art. 2113 c.c., di cui al terzo motivo, il ricorso difetta di “autosufficienza”, non risultando trascritto il testo della scrittura in data (OMISSIS), di cui è contestata la valutazione (“unicamente valida come ricevuta dell’importo ivi indicato”) compiutane dalla Corte di appello mentre è inconferente il richiamo alla violazione e falsa applicazione dell’art. 35 CCNL lavoro domestico, avendo la Corte escluso la sussistenza nella specie di un rapporto avente tale natura;

– quanto infine al sesto motivo, si osserva che la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. confluisce nel vizio di motivazione contestualmente denunciato, risolvendosi, nel resto, il motivo in una censura di violazione di legge generica e, come tale, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., inammissibile.

Il quarto motivo è, per una parte, inammissibile e, per l’altra, infondato.

E’, infatti, costante l’orientamento, secondo il quale la violazione dell’art. 112 c.p.c. deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, con la conseguenza che è inammissibile il motivo di ricorso con cui tale censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto (riconducibile al n. 3 dell’art. 360) ovvero come vizio della motivazione (cfr. ex multis Cass. 27 ottobre 2014 n. 22759).

Il motivo è poi infondato laddove censura la sentenza per avere la Corte di appello confermato la decisione del primo giudice nella parte in cui, dichiarata l’inefficacia del licenziamento, ne aveva tratto la conseguenza, sul piano patrimoniale, della condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni per quattordici mensilità dalla data del recesso a quella della pronuncia della sentenza: decisione che sarebbe da ritenersi in contrasto con il consolidato indirizzo di questa Corte di legittimità, per il quale, nei rapporti sottratti al regime della tutela reale, il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui alla L. n. 108 del 1990, art. 2 pur inidoneo a produrre effetti sulla continuità del rapporto, non comporta il diritto del lavoratore al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace ma solo il risarcimento del danno.

Al riguardo, si osserva, infatti, come il giudice di merito non si sia discostato da tale orientamento di legittimità, avendo emesso nei confronti del datore di lavoro una pronuncia di risarcimento del danno (cfr. ricorso, pag. 6, ove risultano trascritte le statuizioni della sentenza di primo grado, integralmente confermata sul punto dalla Corte di appello) e cioè una pronuncia che, liquidando il lucro cessante (nella misura delle retribuzioni spettanti al lavoratore dalla data del recesso), risulta ad esso conforme, come, d’altra parte, emerge anche dal riferimento nella motivazione della sentenza di primo grado, fatta propria dalla Corte, alla sentenza n. 2392/2003 (cfr. ancora ricorso, pag. 24), che si inscrive nell’indirizzo in esame; nè comunque il ricorrente ha svolto alcuna deduzione sul quantum che valesse di contenimento della misura risarcitoria liquidata.

E’ infondato anche il quinto motivo di ricorso.

Al riguardo, si richiama il consolidato orientamento, in tema di compensazione delle spese processuali, secondo il quale, poichè il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio per il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato, e rientra quindi, nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altre giuste ragioni (secondo il regime applicabile ratione temporis), senza che la relativa statuizione sia censurabile in cassazione (cfr., fra le altre, Cass. 6 ottobre 2011 n. 20457).

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2016

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