Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19688 del 21/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 21/09/2020, (ud. 10/07/2020, dep. 21/09/2020), n.19688

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6224-2019 proposto da:

D.T.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

DI SAN SALVATORE IN CAMPO 33, presso lo studio dell’avvocato

NICOLINA GIUSEPPINA MUCCIO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO D.T. SRL, in persona del curatore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIROLAMO BENVENUTI

19, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO ZUCCARO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA GAROFALO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4245/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 21/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE

GRASSO.

 

Fatto

RITENUTO

che la Corte d’appello di Napoli, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettò l’impugnazione proposta da D.T.M. nei confronti del Fallimento T.D. s.r.l., avverso quella del Tribunale di Avellino, che aveva disatteso la domanda dell’appellante, con la quale costui aveva chiesto dichiararsi di sua esclusiva proprietà uno stacco di terreno, che era stato ingiustamente appreso dal Fallimento;

che gli snodi argomentativi rilevanti della sentenza d’appello possono sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il bene di cui si discute era stato conferito in società dal padre dell’appellante e quest’ultimo, succeduto al padre nella carica di amministratore unico della predetta società, poi fallita, ben sapeva che il bene faceva parte del patrimonio sociale e, di conseguenza, erano ininfluenti (come correttamente reputato dal Tribunale) i proposti capitoli di prova, poichè l’attore proprio nella sua qualità di amministratore era legittimato a gestire l’immobile;

– dalla relazione del Curatore fallimentare emergeva che in data 16/1/2007 D.T.M. aveva avanzato la proposta di acquistare l’area, con ciò stesso ammettendo la di lui assenza di signoria sul bene;

– l’asserita denunzia di successione del 3/4/1993 riguardava altro de cuius e altri beni;

– l’area in parola era asservita al capannone industriale della società e a quest’ultima era stata conferita, con atto del 15/9/1969, da T.D., padre dell’appellante;

– pur dandosi per plausibile che negli anni ‘70 del secolo scorso il padre dell’attore avesse concesso in locazione l’area, non v’era prova che il figlio, nato nel 1957, avesse successivamente gestito in proprio l’area; ritenuto che D.T.M. ricorre avverso la decisione d’appello sulla base di un unitario e articolato complesso censuratorio, ulteriormente illustrato da memoria, e che l’intimato fallimento resiste con controricorso;

ritenuto il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, in quanto:

– la circostanza, secondo la quale l’esponente aveva chiesto di acquistare il bene, che aveva formato oggetto di discussione fra le parti, non sussisteva, stante che l’esponente aveva solo chiesto alla Curatela di transigere la causa con reciproche concessioni, ma “giammai ha avanato un’offerta di acquisto”;

– una tale affermazione, contraria al vero, perchè smentita da una lettera del 16/5/2005, non poteva formare oggetto di revocazione proprio perchè aveva formato oggetto del dibattito processuale;

– anche l’affermazione della Corte campana, secondo la quale la denunzia di successione riguardava altro de cuius e non comprendeva il bene di cui si discute, non rispondeva al vero, perchè smentita dagli atti (il ricorrente fa riferimento a una denunzia di successione, prodotta in primo grado, nella quale il terreno risultava accatastato al foglio 1, particella 119, Mugnano del Cardinale, costituente il cespite n. 16);

– era stata omessa ogni valutazione della prova testimoniale.

Diritto

CONSIDERATO

che l’esposto motivo non supera il vaglio d’ammissibilità per il convergere delle plurime ragioni che seguono:

a) la censura, nel suo complesso, risulta aspecifica, sotto il profilo del difetto di autosufficienza, stante che il D. evoca documenti (una lettera del 16/5/2005 e una denunzia di successione) non posti precipuamente nella disponibilità di questa Corte;

b) il D. mostra di non cogliere la ratio decidendi: il rigetto della domanda è fondato essenzialmente sulla mancata prova positiva del possesso ad usucapionem, prova che, come ovvio, ricade sull’attore e, pertanto, la questione che investe l’esistenza e il contenuto della relazione del curatore non assume significato dirimente;

c) peraltro, la relazione del curatore fallimentare, in quanto formata da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fa piena prova fino a querela di falso degli atti e dei fatti che egli attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza (cfr. Sez. 1, n. 8704, 2/9/1998) e il ricorrente, a pag. 8 del ricorso, evoca, sulla base di documenti (in questa sede inconoscibili) che avrebbe depositato nel giudizio di merito, una mera proposta conciliativa, così finendo per invocare un inammissibile vaglio di merito da parte di questa Corte, peraltro sulla base di una nuda prospettazione;

d) manca, e radicalmente, la prova del mutamento del rapporto con la res, che trovava titolo esclusivo nella qualità di amministratore della società;

e) a prescindere dall’inconoscibilità del documento evocato, la mera circostanza della inclusione nella denunzia di successione di un cespite, per ciò solo, non integra un inequivoco segno di possesso utile all’usucapione;

f) l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,

ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e qui il fatto storico, consistito nella fallita prova del possesso ad usucapionem, non poggia affatto, come peraltro ha precisato la sentenza d’appello, sul rapporto fattuale del ricorrente col fondo, giustificato dalla carica sociale ricoperta, nè può trovare smentita nella lontana relazione del padre con la cosa, sempre ricollegata alla carica sociale;

g) nella sostanza, scevra da dissimulazione, il ricorrente con il motivo in esame insta per un riesame delle valutazioni del giudice del merito; trattasi di doglianze che mirano ad un inammissibile riesame degli insindacabili apprezzamenti di merito e la denunzia di violazione di legge non determina, per ciò stesso, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (cfr., da ultimo, Cass. nn. 11775/019, 6806/019, considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

30728/018);

considerato che, di conseguenza, siccome affen lato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle svolte attività, siccome in dispositivo;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2020

 

 

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