Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19673 del 22/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 22/07/2019), n.19673

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14718/2014 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– ricorrente –

contro

C.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 55/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 24/05/2013 R.G.N. 909/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo, assorbito il secondo motivo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. C.A. agiva innanzi al Tribunale di Venezia nei confronti della società cooperativa MAS e del Ministero della Giustizia, quest’ultimo nella qualità di committente dell’appalto per il servizio di pulizia presso il Palazzo Giustizia Minorile di (OMISSIS) aggiudicato alla suddetta società nel periodo dall’1/8/2007 al 31/10/2007, per ottenere il pagamento di somme a titolo di differenze retributive, ferie e festività nonchè mensilità aggiuntive ai sensi dell’art. 1676 c.c. e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2.

2. Il Tribunale accoglieva la domanda e condannava in solido la società cooperativa MAS e il Ministero della Giustizia al pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 1.550,09.

3. La decisione era confermata dalla Corte d’appello di Venezia.

3.1. Riteneva la Corte territoriale che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2 (nella versione applicabile nella specie, ratione temporis) non facesse alcuna distinzione tra committenti privati e committenti pubblici, nè tra contratto pubblico di appalto di servizi (disciplinato dal D.Lgs. n. 163 del 2006) e contratto di appalto di diritto comune (disciplinato dagli artt. 1655 c.c. e segg.) e che, d’altra parte, il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2, secondo cui: “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, dovesse essere interpretato alla luce della legge delega, per salvaguardarne la conformità con l’art. 76 Cost.. Ciò portava a concludere che l’espressione ivi contenuta “pubbliche amministrazioni… e il loro personale” fosse da considerare “come una endiadi”, equivalente all’espressione “il personale delle pubbliche amministrazioni”, in conformità alla Legge Delega n. 30 del 2003, art. 6.

3.2. Rilevava il giudice del gravame che la suddetta locuzione non potesse, invece, intendersi riferita alle pubbliche amministrazioni nel loro ruolo istituzionale, visto che in tale veste le amministrazioni non potevano dirsi escluse tout court dall’applicazione del D.Lgs. n. 276 cit., essendo esplicitamente contemplate come soggetti attivi di importanti discipline, quali quelle dettate dagli artt. 6 e 76; d’altra parte, avendo le pubbliche amministrazioni la veste di datrici di lavoro del personale assunto nelle forme del rapporto di lavoro pubblico, anche da questo punto di vista esse si dovevano considerare ricomprese nell’ambito di applicabilità del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, che faceva riferimento al “committente imprenditore o datore di lavoro” e che la suindicata interpretazione della normativa in oggetto fosse da preferire in quanto, diversamente, vi sarebbe stata una violazione dell’art. 3 Cost., derivante sia dalla posizione di ingiustificato privilegio riservato alle pubbliche amministrazioni committenti rispetto ai committenti privati sia dalla situazione di obiettivo svantaggio del lavoratore occupato nell’ambito di un appalto intercorso con un committente pubblico.

3.3. Precisava, infine, che optare per la non applicazione alle P.A. avrebbe costretto l’interprete a risolvere la delicata questione della sopravvivenza “parziale della L. n. 1369 del 1960, laddove non era sostenibile che fosse ancora in vigore una normativa espressamente abrogata in termini generali”.

3.4. Riteneva conclusivamente che l’unica soluzione sistematicamente accettabile fosse quella di annoverare anche le P.A. tra i destinatari del regime di responsabilità solidale di cui all’art. 29, con la conseguenza che gli enti pubblici erano, al pari degli operatori privati, tenuti al rispetto del regime di solidarietà ex art. 29, quando avessero agito stipulando contratti di appalto a titolo di committenti.

4. Per la cassazione di tale decisione ricorre il Ministero della Giustizia, affidando l’impugnazione a due motivi.

5. C.A. è rimasta intimata.

6. Con ordinanza interlocutoria del 19 novembre 2015 la causa è stata rimessa dalla Sezione Sesta a questa Sezione per la trattazione in pubblica udienza.

7. il Ministero ha depositato memoria

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, art. 29, comma 2, Legge Delega n. 30 del 2003, art. 6, anche in combinato disposto con l’art. 1676 c.c..

In primo luogo, il Ministero ricorrente precisa che il rapporto di lavoro di cui si tratta si è svolto nel periodo compreso tra l’1/8/2007 al 31/10/2007. Pertanto ad esso si deve applicare l’art. 29, comma 2, nella versione all’epoca vigente, che è quella risultante dalle modifiche introdotte dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 911, salvo restando che, non essendo tali ultime modifiche rilevanti ai fini del presente giudizio, quella che conta è la previsione, comune a tutte le versioni, secondo cui “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore”.

Sostiene il ricorrente che il tenore letterale dell’art. 1, comma 2, cit. è tale da evidenziare la volontà del legislatore di escludere dal campo di operatività del decreto sia il personale delle pubbliche amministrazioni, sia le pubbliche amministrazioni in quanto tali e che la solidarietà prevista dall’art. 29, comma 2, cit. non può riguardare l’amministrazione pubblica come datore di lavoro del personale assunto nelle forme del pubblico impiego, visto che la norma ha sempre riferimento a soggetti che operano nel mercato, e che la Legge Delega n. 30 del 2003, affidava al legislatore delegato il compito di introdurre “un regime particolare di solidarietà tra appaltante e appaltatore nei limiti di cui all’art. 1676 c.c., per le ipotesi in cui il contratto di appalto sia connesso ad una cessione di ramo d’azienda”, con ciò confortando un’interpretazione della normativa difforme da quella seguita dalla Corte territoriale.

Rileva, altresì, che il titolo III del D.Lgs. n. 276 del 2003, si compone di due capi, il primo concernente la somministrazione di lavoro ed il secondo l’appalto ed il distacco, e che tutta la normativa riguarda gli appalti di diritto comune ex artt. 1655 c.c. e segg., non potendo interpretarsi in maniera atomistica la disposizione di cui all’art. 29, il cui comma 1, detta il criterio distintivo del contratto di appalto “stipulato e disciplinato dall’art. 1655 c.c.” dalla somministrazione di lavoro, individuandolo nella organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore e nella assunzione, da parte dello stesso, del rischio di impresa, con ciò avendo riguardo sicuramente all’appalto “privato” essendo univoco il riferimento all’art. 1655 c.c., che non fa alcun richiamo agli appalti pubblici disciplinati dal successivo D.Lgs. n. 163 del 2006. Il naturale organico e consequenziale collegamento tra il comma 1 ed il comma 2 dell’art. 29 induce, secondo il Ministero, ad escludere che il comma 2 sia riferito anche agli appalti disciplinati dalla normativa speciale.

Peraltro, se si seguisse l’opzione interpretativa accolta in sentenza il lavoratore interessato in ipotesi di appalto non genuino potrebbe chiedere al giudice, come previsto dell’art. 29, comma 3, introdotto dal D.Lgs. n. 251 del 2004, art. 6,comma 2, la costituzione di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione.

La mancata applicazione dell’art. 29 in oggetto non riduce, poi, secondo quanto osserva il Ministero, le tutele dei lavorati in caso di inadempimento riscontratosi nei loro confronti da parte degli appaltatori negli appalti pubblici. Infatti, tale tutela non solo deriva dalla pacifica applicabilità dell’art. 1676 c.c., ma anche dal D.M. 19 aprile 2000, n. 145, art. 13,attualmente sostituito dal D.P.R. 207 del 2010, art. 5, che specificamente si occupano di garantire i lavoratori dipendenti da imprese affidatarie di pubblici appalti, prevedendo un efficace strumento di tutela delle loro ragioni per il caso di mancata percezione del trattamento economico loro spettante, previa conseguente tempestiva informativa alla stazione appaltante.

Ulteriore argomento a sostegno della tesi propugnata è poi quello che si fonda sul riferimento nella vigente formulazione dell’art. 29 ai contratti collettivi nazionali sottoscritti dall’associazione dei datori di lavoro, che rende evidente la volontà del Legislatore di escludere l’applicazione dell’articolo agli appalti stipulati dalla P.A., atteso che i contratti nazionali di lavoro che regolano il pubblico impiego sono sottoscritti dall’ARAN.

2. Il secondo motivo è proposto in via subordinata ed attiene alla denunzia dell’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per giudizio.

3. E’ fondato il primo motivo e determina l’assorbimento del secondo.

4. La sentenza impugnata si pone in contrasto con l’orientamento di questa Corte, consolidatosi successivamente all’ordinanza interlocutoria del 5/11/2015, secondo cui “ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2, non è applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, del richiamato decreto. Il D.L. n. 76 del 2013, art. 9, convertito dalla L. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede l’inapplicabilità dell’art. 29 ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, non ha carattere di norma di interpretazione autentica, dotata di efficacia retroattiva, ma lo stesso non ha innovato il quadro normativo previgente, avendo solo esplicitato un precetto già desumibile dal testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni” (Cass. 10 ottobre 2016, n. 20327 e negli stessi termini Cass. n. 15432/2014, Cass. nn. 23746, 23651, 20434 del 2016; Cass. nn. 17013 e 17368 del 2017; Cass. nn. 31468, 31325, 30908, 30128, 17518, 9741 del 2018).

4.1. A detto orientamento il Collegio intende dare continuità, perchè la motivazione delle sentenze sopra indicate, da intendersi qui richiamata ex art. 118 disp. att. c.p.c., affronta tutte le questioni prospettate nella motivazione della sentenza impugnata e nel ricorso, esclude ogni profilo di illegittimità costituzionale dell’interpretazione accolta e pone in risalto le differenze fra appalto pubblico e privato, che giustificano la diversità della disciplina.

4.2. In particolare per gli appalti pubblici l’ordinamento prevede un complesso articolato di tutele, volte tutte ad assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori, tutele che difettano nell’appalto privato e che compensano la mancata previsione della responsabilità solidale prevista dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, non applicabile alla pubblica amministrazione in quanto in contrasto con il principio generale (oggi rafforzato dal nuovo testo dell’art. 81 Cost., che affida alla legge ordinaria il compito di fissare “i criteri volti ad assicurare l’equilibrio fra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni”) in forza del quale gli enti pubblici sono tenuti a predeterminare la spesa e, quindi, non possono sottoscrivere contratti che li espongano ad esborsi non previamente preventivati e deliberati.

4.3. La responsabilità prevista dall’art. 1676 c.c., applicabile anche alle pubbliche amministrazioni, al pari dell’intervento sostitutivo di cui al D.Lgs. n. 163 del 2006, opera nei limiti di quanto è dovuto dal committente all’appaltatore, mentre l’art. 29 comporta la responsabilità dell’appaltante anche nell’ipotesi in cui lo stesso abbia già adempiuto per intero la sua obbligazione nei confronti dell’appaltatore. Detta responsabilità, pertanto, non può essere estesa alle pubbliche amministrazioni, in relazione alle quali vengono in rilievo interessi di carattere generale che sarebbero frustrati ove si consentisse la lievitazione del costo dell’opera pubblica, quale conseguenza dell’inadempimento dell’appaltatore nei confronti dei propri dipendenti.

4.4. La diversità delle situazioni a confronto e degli interessi che in ciascuna vengono in rilievo giustifica, quindi, la diversa disciplina e rende manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, in relazione all’art. 3 Cost..

5. La sentenza impugnata si è discostata dal principio di diritto richiamato nei punti che precedono e va, pertanto, cassata in relazione al motivo accolto con rinvio della causa alla Corte d’appello di Venezia che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame alla luce del principio di diritto sopra esposto e provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2019

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