Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19672 del 22/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 22/07/2019), n.19672

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22104/2018 proposto da:

C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

GIULIANA 83-A, presso lo studio dell’avvocato WLADIMIRA ZIPPARRO,

rappresentato e difeso dagli avvocati PASQUALE REGINA, PASQUA

TRIGGIANI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FOGGIA, in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI, 6, presso lo

studio dell’avvocato VANIA ROMANO, rappresentato e difeso dagli

avvocati DOMENICO DRAGONETTI, ANTONIO PUZIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1279/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 11/06/2018 r.g.n. 337/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/05/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PASQUALE REGINA;

udito l’Avvocato DOMENICO DRAGONETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata l’11 giugno 2018) accoglie il reclamo del Comune di Foggia avverso la sentenza del Tribunale di Foggia n. 1014/2018 di rigetto dell’opposizione del Comune medesimo contro l’ordinanza con la quale era stato accolto il ricorso con il quale C.P., già dipendente comunale in qualità di istruttore amministrativo, aveva impugnato il licenziamento intimatole dal Comune con lettera del 9 dicembre 2016.

La Corte d’appello di Bari, per quel che qui interessa, precisa che:

a) in sede disciplinare la C. è stata licenziata per aver posto in essere una condotta fraudolenta consistita, in particolare, nella falsa attestazione della propria presenza in ufficio allontanandosi indebitamente dal posto di lavoro senza rilevare mediante timbratura della scheda magnetica il periodo di assenza, inducendo, in tal modo, in errore l’Amministrazione comunale circa la sua reale presenza in ufficio riportata nel cartellino marcatempo, procurandosi un ingiusto profitto con altrettanto danno per l’ente di appartenenza nonchè per aver proceduto alla timbratura del cartellino delle presenze di due colleghe;

b) la contestazione disciplinare non può considerarsi generica – e quindi impeditiva di un pieno esercizio del diritto di difesa da parte dell’interessata visto che la dipendente ha sempre dimostrato di conoscere i fatti del procedimento penale e nella contestazione si indicano in modo sufficientemente specifico le timbrature irregolari fatte dalla C. per altri colleghi e da questi ultimi per la ricorrente;

c) l’informativa PEC della Procura della Repubblica, pervenuta al Sindaco il 10 maggio 2016, riguardava alcuni colleghi della ricorrente attinti da misure cautelari ma non conteneva specifici e documentati elementi per dare l’avvio al procedimento disciplinare nei confronti della C.;

d) la “notizia di infrazione”, come intesa dalla giurisprudenza di legittimità, è pervenuta al Sindaco solo con la successiva informativa acquisita via PEC riguardante il rinvio a giudizio di alcuni dipendenti, tra i quali la C.;

e) pertanto, l’avvio del procedimento disciplinare risulta tempestivo D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis;

f) è da respingere anche la censura con la quale si sostiene la nullità dell’azione disciplinare per mancanza della forma collegiale della contestazione degli addebiti, in quanto dall’esame dei verbali dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD) – la cui mancata protocollazione è irrilevante in questa sede – antecedenti la comunicazione della suddetta contestazione risulta che la relativa Delibera è stata collegiale e che la comunicazione stessa è stata sottoscritta dal Dott. T., nella qualità di Presidente dell’UPD;

g) è altresì infondata la censura di composizione irregolare dell’UPD perchè non conforme alla Delib. Comunale n. 27 del 2014 – in quanto l’UPD al momento della deliberazione del provvedimento disciplinare è risultato essere costituito regolarmente da soggetti con qualifica dirigenziale;

h) ai fini della verifica della regolarità della composizione dell’UPD e del procedimento è del tutto irrilevante la mancanza del titolare del Servizio di appartenenza dell’incolpata, visto che, nella specie, si contesta che fra i componenti dell’UPD ci fosse il dirigente dell’Ufficio presso il quale la lavoratrice era impiegata al momento dell’apertura del procedimento disciplinare anzichè il dirigente dell’Ufficio presso il quale la dipendente lavorava al momento della commissione dei fatti;

i) una simile specificazione è del tutto estranea all’invocata Delib. Comunale e, peraltro, nella specie, il dirigente dell’Ufficio presso il quale la dipendente lavorava al momento della commissione dei fatti addebitati risultava essere stato licenziato per i medesimi fatti ascritti alla C..

2. Il ricorso di C.P., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, il Comune di Foggia.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I – Profili preliminari.

1. Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dalla controricorrente – peraltro senza una specifica motivazione – per inadeguata formulazione delle censure di violazione e falsa applicazione di norme di diritto formulate in ricorso.

1.1. Tale eccezione – che riguarda un profilo eventualmente rilevabile anche d’ufficio – è infondata perchè nel presente ricorso per cassazione risultano chiaramente indicati gli errori di diritto imputati alla sentenza impugnata, in relazione alla concreta controversia e viene dato modo di apprezzarne la decisività e, dunque, l’interesse a proporre le relative censure (vedi, per tutte: Cass. SU 23 settembre 2013, n. 21672; Cass. 14 gennaio 2019, n. 640).

2. E’, invece, da accogliere l’altra eccezione di inammissibilità, riguardante l’erronea formulazione delle censure di vizi di motivazione, presenti nei primi tre motivi di ricorso.

2.1. Infatti – al di là della formale configurazione di tutte tali censure come di “omesso esame circa un fatto decisivo della controversia” contenuta nell’ultima parte dell’intestazione dei suddetti motivi – nella sostanza le censure con essi proposte si risolvono nella denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti.

Si tratta, quindi, di censure che finiscono con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dal Giudice del merito, che come tale è di per sè inammissibile. A ciò va aggiunto che in base all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano.

II – Sintesi dei motivi di ricorso.

3. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

3.1. Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, in combinato disposto con l’art. 111 Cost. e con l’art. 6 CEDU; b) omesso esame circa un fatto decisivo della controversia.

Si contesta la statuizione della Corte d’appello con cui si è affermata la tempestività dell’avvio del procedimento disciplinare considerando come dies a quo il giorno 11 agosto 2016 – giorno in cui è pervenuta al Sindaco l’informativa acquisita via PEC da cui risultava che era stato disposto il rinvio a giudizio di vari dipendenti comunali, ivi compresa la C. – anzichè il 10 maggio 2016, giorno in cui era stata comunicata al Comune sia la conclusione delle indagini preliminari sia l’ordinanza con la quale si disponeva l’adozione di misure cautelari nei confronti di altri dipendenti comunali le cui condotte era state valutate in un unico contesto processuale che riguardava anche l’attuale ricorrente.

Si aggiunge che da maggio a dicembre 2016 il Comune non ha posto in essere alcuna attività istruttoria e, comunque, in base al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, l’Ente datore di lavoro ha la facoltà di sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale se ritiene di non avere elementi sufficienti a disposizione, ma è comunque tenuto ad avviare tempestivamente il procedimento disciplinare non potendo disporre tale avvio nella data che ritenga più congrua per sè.

Peraltro, entrambe le suddette comunicazioni erano sintetiche, come si riconosce anche nella sentenza impugnata nella quale però si aggiunge che la genericità della seconda informativa poteva considerarsi sanata dalla conoscenza da parte dell’interessata del proprio fascicolo penale.

3.2. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 7 St.lav.; b) omesso esame circa un fatto decisivo della controversia.

Si contesta l’entità della sanzione, rilevandosi che nel Comune vi era un sistema di controllo dell’uso dei badge di ingresso agli uffici, ma anche chi vi era preposto si comportava in modo scorretto quindi non si dovrebbero sanzionare nello stesso modo controllati e controllori, quanto meno per l’assenza dell’elemento soggettivo dei primi che potevano sentirsi autorizzati nel porre in essere comportamenti scorretti dall’esempio che ricevevano dai secondi.

Proprio la suddetta situazione, in sede locale conosciuta da tempo, rende ancora più evidente l’ingiustificata inerzia del Comune nel dare inizio al procedimento disciplinare a carico della C., in violazione anche dei principi di cui all’art. 7 St.lav. (in particolare di quello dell’immediatezza della contestazione disciplinare) cui fa riferimento il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51.

3.3. Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, nonchè dell’art. 2697 c.c. (in combinato disposto con gli artt. 2702,2703 e 2704 c.c.) e dell’art. 1362 c.c.; b) omesso esame circa un fatto decisivo della controversia.

Si contesta il rigetto disposto dalla Corte d’appello delle censure che la dipendente aveva avanzato nel giudizio di primo grado e che erano state dichiarate assorbite, riguardanti: a) il difetto di collegialità del provvedimento di contestazione degli addebiti adottato dall’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD); b) l’illegittima composizione dell’UPD (profilo sviluppato nel quarto motivo).

Quanto alla prima censura si sostiene che il suddetto vizio, nella specie, si sarebbe riscontrato perchè la contestazione risulta essere stata effettuata dal solo Presidente dell’UPD.

Al riguardo si rileva che la Corte d’appello ha considerato rispettata la collegialità per il fatto che la contestazione degli addebiti deve considerarsi firmata dal solo Presidente dell’UPD per tutto il collegio, visto che dai precedenti verbali dell’Ufficio risulta che la relativa Delibera è stata assunta collegialmente.

La ricorrente sostiene che i suddetti verbali non sarebbero atti pubblici, non avendone i requisiti e che comunque non erano protocollati quindi ad essi non si potrebbe fare riferimento per attestarne la datazione antecedente alla contestazione e quindi per escludere la sussistenza del vizio denunciato, che comporterebbe la nullità del licenziamento, visto che la contestazione degli addebiti risulterebbe essere stata adottata non collegialmente dall’UPD ma esclusivamente dal Presidente dell’Ufficio.

3.4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg., con riferimento all’interpretazione del “Regolamento disciplinare del personale dirigente del Comparto Regioni e Autonomie locali” adottato dal Comune di Foggia con Delib. n. 27 del 2014, in applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4.

Si sottolinea che il licenziamento intimato alla ricorrente sarebbe da considerare nullo anche perchè adottato da un UPD incompetente.

Infatti, pur essendovi nell’UPD tre dirigenti tuttavia mancavano sia il Dirigente Affari generali – Gabinetto del Sindaco sia il Dirigente del Servizio/Struttura di appartenenza dell’incolpata, visto che il titolare era stato anche lui attinto dall’iniziativa penale che ha riguardato la C., ma non ne era stata disposta la sostituzione.

Di conseguenza, la suindicata composizione dell’UPD era diversa da quella stabilita dal suindicato Regolamento, pur facendone parte tre dirigenti specifici di Servizi/Strutture e un segretario verbalizzante, perchè non si trattava di dirigenti “specifici”.

III – Esame delle censure.

4. L’esame dei motivi di censura – che residuano rispetto alla suindicata dichiarazione di inammissibilità (vedi sopra: punto 2) – porta al complessivo rigetto del ricorso, per le ragioni di seguito esposte e in continuità ai principi affermati da questa Corte con riguardo a controversie sostanzialmente sovrapponibili alla presente (vedi, per tutte: Cass. 7 giugno 2019, n. 15515 e altre in corso di pubblicazione).

5. Il primo motivo non è da accogliere in quanto in base a costanti e condivisi orientamenti di questa Corte (vedi spec.: Cass. 20 marzo 2017, n. 7134; Cass. 25 giugno 2018, n. 16706; Cass. 7 agosto 2018, n. 21193):

a) in tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 4) assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione;

b) il suddetto termine non può, pertanto, decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito e ciò comporta che la contestazione può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, nel senso anzidetto;

c) quella indicata è l’unica interpretazione della normativa in oggetto ad essere conforme al principio del giusto procedimento – cui deve conformarsi l’azione della P.A. anche in sede di procedimento disciplinare a carico dei dipendenti – che è posto a garanzia dei principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione della P.A. ai quali “va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost., comma 1), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa Amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.)”, nonchè la tendenza ad indirizzare la suddetta azione al rispetto dei principi di economicità ed efficacia, grazie anche al conseguente deflazionamento del contenzioso derivante dall’emanazione del provvedimento finale (nella specie: di irrogazione della sanzione) sulla base di una corretta e partecipata acquisizione dei fatti rilevanti (vedi, per tutte: Corte costituzionale, sentenza n. 310 del 2010);

d) ciò vale anche nell’ipotesi in cui il procedimento disciplinare abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente.

5.1. Nella specie ci troviamo in presenza proprio di tale ultima evenienza in quanto all’instaurazione del procedimento disciplinare di cui si discute si è giunti dopo il rinvio a giudizio di alcuni dipendenti del Comune di Foggia, tra i quali la C., per l’uso disinvolto e arbitrario del badge.

La Corte d’appello, con ampia motivazione, ha affermato che la “notizia di infrazione”, come intesa dalla giurisprudenza di legittimità, è pervenuta al Sindaco solo l’11 agosto 2016 con la ricezione dell’informativa acquisita via PEC riguardante il suddetto rinvio a giudizio, mentre ha escluso che fosse idonea allo scopo l’informativa PEC della Procura della Repubblica, pervenuta al Sindaco il 10 maggio 2016, riguardante misure cautelari adottate nei confronti di alcuni colleghi della ricorrente per fatti analoghi.

Tale statuizione si basa sull’osservazione secondo cui tale prima informativa non conteneva specifici e documentati elementi per dare l’avvio al procedimento disciplinare nei confronti della C., aggiungendo che l’interessata “pretende di far decorrere il termine decadenziale addirittura dalla conoscenza di un’ordinanza cautelare riguardante altro dipendente, ossia quando, all’evidenza, il quadro probatorio relativo alle infrazioni commesse dalla C. era nient’affatto corroborato da documentazione e ben lontano dall’essere ancor prima che granitico, sufficientemente apprezzabile”.

Ora – a parte che, per quel che si è detto, il principio secondo cui la “notizia di infrazione” per consentire di dare l’avvio al procedimento disciplinare in modo corretto debba essere dotata dei suindicati caratteri, risponde anche alla tutela diritto di difesa dell’incolpato – è comunque assorbente che le censure prospettate dalla ricorrente sul punto risultano avulse dal contesto perchè formulate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione e, nella sostanza, generiche.

In base a tale principio il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti (o atti processuali) è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 (a pena di inammissibilità) e all’art. 369 c.p.c., n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), indicando nel ricorso specificamente il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice del merito (trascrivendone il contenuto essenziale) e fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, onde porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la ritualità dell’allegazione del documento stesso e la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569).

Nella specie tale principio non risulta osservato con riguardo agli atti che vengono richiamati dalla ricorrente (in primo luogo le informative inviate al Sindaco).

6. Tutte le censure residue proposte con il secondo motivo sono inammissibili perchè con esse, nella sostanza, si chiede a questa Corte di effettuare una “rivisitazione” del giudizio sulla proporzionalità della sanzione espulsiva agli addebiti contestati, che è devoluto al giudice del merito, rientrando nella ricostruzione del fatto da questi operata.

Si reitera inoltre la censura di mancata immediatezza della contestazione disciplinare, già esaminata a proposito del primo motivo.

7. Le censure di violazione e falsa applicazione di norme di diritto formulate nel terzo motivo e quelle proposte nel quarto motivo – da trattare insieme perchè intimamente connesse – non sono fondate.

7.1. Come da questa Corte già affermato (Cass. 6 febbraio 2019, n. 3467) la formazione della volontà degli organi collegiali resta distinta dalla relativa manifestazione, sicchè mentre la prima deve avvenire all’interno dell’organo collegiale secondo le regole che ne presiedono il funzionamento, all’esterno invece l’organo agisce in persona del soggetto che lo rappresenta.

Questo significa che gli atti del collegio ben possono essere sottoscritti solo da quest’ultimo soggetto, non avendo giuridico fondamento la tesi del ricorrente, secondo cui dalla natura perfetta del collegio deriverebbe la necessità che tutte le persone fisiche che lo pongono assumano anche all’esterno la paternità dell’atto, sottoscrivendolo.

7.2. A detto assorbente rilievo si deve aggiungere che secondo la giurisprudenza amministrativa il collegio perfetto è caratterizzato dalla necessaria operatività con il plenum dei suoi componenti nelle fasi in cui è chiamato a compiere valutazioni tecnico-discrezionali o ad esercitare prerogative decisorie, rispetto alle quali si configura l’esigenza che tutti i componenti dell’organo offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale, esigenza che, invece, non ricorre rispetto agli atti istruttori (Consiglio di Stato: n. 5187/2015 e n. 40/2015).

7.3. Alle medesime conclusioni questa Corte è pervenuta in relazione all’attività dell’UPD, se a composizione collegiale, in ordine alla quale si è sottolineato che devono essere collegialmente compiute “solo le attività valutative e deliberative vere e proprie (rispetto alle quali sussiste l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il proprio contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale) e non anche quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall’intero consesso” (v. Cass. 26 aprile 2016, n. 8245 richiamata da Cass. 4 giugno 2018, n. 14200).

Anche sotto questo profilo, pertanto, le doglianze sono infondate perchè la contestazione, con la quale si dà avvio al procedimento disciplinare, non ha natura decisoria nè è espressione di un potere discrezionale, in quanto nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato, a differenza di quanto accade nell’impiego privato, l’iniziativa disciplinare è doverosa (vedi: Cass. n. 4 aprile 2017, n. 8722, richiamata fra le più recenti da Cass. 21 agosto 2018, n. 20880), tanto che la sua omissione è fonte di responsabilità per il soggetto tenuto ad attivare il procedimento.

7.4. Quanto, poi, alla pretesa di far discendere la nullità della sanzione disciplinare dalla violazione della regola della composizione dell’organo sul presupposto che, a termini di Regolamento, la forma collegiale sarebbe stata prevista per tutte le fasi del procedimento disciplinare, va ribadito il principio già affermato da Cass. 25 ottobre 2017 n. 25379secondo cui occorre distinguere le regole legali sulla competenza da quelle regolamentari che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell’organo collegiale secondo l’ordinamento interno di ciascuna Pubblica Amministrazione, in quanto il D.Lgs. n. 165 del 2001, “non attribuisce natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’UPD”. Ciò perchè l’interpretazione dell’art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici, senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente rilevanti, ma tenendo conto dei principi di cui agli artt. 54,97 e 98 Cost..

Si è conseguentemente ritenuto che ai fini della legittimità della sanzione rileva che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, il che “postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente” (v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5317).

7.5. Dalle considerazioni che precedono deriva che quel che rileva, ai fini del diritto di difesa del dipendente, è che sia stata garantita la terzietà nei termini sopra indicati, questione che qui non è posta in discussione.

7.6. Ne consegue che nell’interpretazione della disciplina regolamentare riservata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., applicabili agli atti unilaterali in forza del rinvio contenuto nell’art. 1324 c.c. – la Corte d’appello non ha violato i suddetti canoni, come è dato desumere dal Regolamento stesso, di cui nel ricorso sono riprodotti alcuni brani salienti (sicchè le relative censure possono dirsi correttamente formulate: in tal senso, fra le più recenti, Cass. 17 agosto 2018, n. 20775; Cass. 30 maggio 2018, n. 13667).

Alla suddetta conclusione si perviene rilevandosi che il suddetto accertamento di fatto risulta essere stato svolto dalla Corte territoriale in conformità con gli indicati principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte avendo portato alle seguenti conclusioni:

a) rigetto della censura di nullità dell’azione disciplinare per mancanza della forma collegiale della contestazione degli addebiti, in quanto dall’esame dei verbali dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD) – la cui mancata protocollazione è irrilevante in questa sede – antecedenti la comunicazione della suindicata contestazione risulta che la relativa Delibera è stata collegiale e che la comunicazione stessa è stata sottoscritta dal Dott. T., nella qualità di Presidente dell’UPD;

b) infondatezza della censura di composizione irregolare dell’UPD – perchè non conforme alla Delib. Comunale n. 27 del 2014 – in quanto l’UPD al momento della deliberazione del provvedimento disciplinare è risultato essere costituito regolarmente da soggetti con qualifica dirigenziale;

c) irrilevanza – ai fini della verifica della regolarità della composizione dell’UPD e del procedimento – della mancanza del titolare del Servizio di appartenenza dell’incolpata al momento della commissione dei fatti (peraltro licenziato per i medesimi fatti ascritti alla C.), dal momento che fra i componenti dell’UDP era compreso il dirigente dell’Ufficio presso il quale la lavoratrice era impiegata al momento dell’apertura del procedimento disciplinare e all’invocata Delibera era estranea una distinzione di tale tipo (nè, può aggiungersi, essa è stata evidenziata dalla ricorrente, in conformità con il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione n.d.r.).

7.7. Deve, infine aggiungersi, che anche con riguardo all’affermata irrilevanza, in questa sede, della mancata protocollazione dei verbali dell’UPD su cui si sofferma la ricorrente – la sentenza impugnata è immune da censure.

Va al riguardo osservato che anche per gli atti amministrativi la catalogazione in ordine cronologico, tramite apposizione di un numero progressivo, cosiddetto di protocollo, riportato in un registro costituisce elemento non irrilevante di buon andamento dell’Amministrazione per l’ordinata conservazione e l’agevole reperibilità nel tempo degli atti stessi; ma non può considerarsi requisito di validità del provvedimento, i cui elementi costitutivi – motivazione, dispositivo, data di emanazione – sono riportati nell’atto stesso ed attestati dalla firma dell’autorità competente (Cons. Stato 6 agosto 2013, n. 4113).

Nella specie, non vengono in considerazione atti amministrativi pubblici bensì atti posti in essere dalla P.A. con i poteri propri del datore di lavoro privato e come tali soggetti alla disciplina privatistica, visto che i procedimenti disciplinari D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55 e segg., non costituiscono procedimenti amministrativi (vedi, per tutte: Cass. 18 ottobre 2016, n. 21032).

Ne consegue che, a maggior ragione, per tali procedimenti l’utilizzazione della protocollazione degli atti può essere utile (Cass. 21 settembre 2016, n. 18517; Cass. 8 maggio 2019, n. 12160), ma si tratta di una mera scelta di modalità organizzative della P.A., la cui mancata adozione non può avere alcuna incidenza sulla validità del procedimento disciplinare e sulla sussistenza della causa dell’atto di recesso datoriale, la cui legittimità è compito del giudice del merito valutare, come accaduto nella specie (Cass. 8 giugno 2016, n. 11751).

IV – Conclusioni.

8. In sintesi, il ricorso deve essere respinto.

9. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, Euro 5500,00 (cinquemilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2019

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