Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19661 del 22/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2019, (ud. 20/03/2019, dep. 22/07/2019), n.19661

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21258/2017 proposto da:

G.E.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CRESCENZIO 76, presso lo studio dell’avvocato ANGELO DE VINCENTI,

rappresentata e difesa dall’avvocato ALFONSO CANNATA;

– ricorrente –

contro

STIO’ S.R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1384/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 30/12/2016 R.G.N. 968/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/03/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELLA MARCHESE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato ANGELO DE VINCENTI per delega scritta Avvocato

ALFONSO CANNATA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Catania, con sentenza n. 1256 del 2011, dichiarava l’illegittimità del trasferimento e del licenziamento per superamento del periodo di comporto disposti dalla società STIO’ srl (di seguito, per brevità, anche STIO’) nei confronti di G.E.D., condannando la predetta società alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro presso la sede di Misterbianco ed al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento e fino all’effettiva reintegra.

2. La Corte di Appello di Catania, con sentenza n. 1384 del 2016, pronunciando sull’appello principale della parte datoriale e su quello incidentale della dipendente, in parziale accoglimento del primo, rigettato il secondo, ferma la illegittimità del licenziamento, condannava la STIO’ alla riassunzione della lavoratrice o, in alternativa, a risarcire il danno versandole un’indennità pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria dalla data della maturazione del diritto al soddisfo.

2.1. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha, preliminarmente, rigettato l’eccezione, proposta dalla lavoratrice, attinente alla regolarità della procura alle liti, rilasciata in primo grado, alla società STIO’ (in quanto in fotocopia e carente dell’attestazione di conformità all’originale), osservando come non vi fosse stato uno specifico disconoscimento della conformità dell’atto (in copia) all’originale.

2.2. Nel merito, ha giudicato, conformemente alla pronuncia di primo grado, il trasferimento illegittimo, perchè disposto in difetto dei presupposti di cui all’art. 2103 c.c., e riconosciuto il nesso di causalità tra il primo (id est: il trasferimento illegittimo) e la patologia insorta alla lavoratrice, con ogni conseguenza in termini di mancato superamento del periodo di comporto (dovendo dal comporto escludersi i periodi di malattia riconducibili a responsabilità datoriale) e di illegittimità dell’atto di recesso.

2.3. Tuttavia, quanto agli effetti di tale ultimo giudizio, accertata, altresì, l’assenza del requisito dimensionale per l’applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, ha concluso per l’operatività del regime sanzionatorio di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8; in proposito, ha osservato come, pure a qualificare nullo il licenziamento intimato senza il superamento del periodo di comporto, restasse diversificata la tutela, in ragione del requisito dimensionale, dovendosi applicare quella prevista dall’art. 8 cit. per il licenziamento senza giustificato motivo.

2.4. Infine, la Corte di appello ha respinto l’impugnazione incidentale della lavoratrice, giudicando nuova la domanda di risarcimento di danni “ulteriori” quale conseguenza del licenziamento.

3. Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso G.E.D., affidato a cinque motivi, articolati in più censure.

4. E’ rimasta intimata la società STIO’.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Motivi del ricorso.

1. Con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia nonchè violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., art. 2110 c.c., comma 2, L. n. 300 del 1970, art. 18, e della L. n. 604 del 1966.

1.1. Il motivo, nel suo complesso, investe la statuizione che ha riconosciuto, quanto agli effetti derivanti dal licenziamento intimato in mancanza del superamento del periodo di comporto, la tutela della L. n. 604 del 1966, art. 8,trattandosi di rapporto di lavoro sottratto all’ambito di operatività della L. n. 300 del 1970, art. 18; si sostiene, da parte della ricorrente, l’erroneità della pronuncia posto che il licenziamento, in tal caso, si pone in violazione dell’art. 2110 c.c., ed in quanto nullo rende il recesso come mai intervenuto, determinando la continuità, in fatto ed in diritto, del rapporto di lavoro (mai cessato), e ciò a prescindere dalle dimensioni aziendali.

2. Con il secondo motivo è dedotta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia nonchè violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2719 c.c., artt. 416 e 437 c.p.c., e della L. n. 183 del 1993.

2.1. Si imputa alla sentenza di non aver pronunciato anche sulla ulteriore eccezione secondo cui la procura alle liti non era contenuta nella memoria di costituzione e l’atto era stato trasmesso via fax senza il requisito di cui alla L. n. 183 del 1993, art. 1; in particolare, la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata ” sul punto b) della eccezione (…) (con cui) in aggiunta, si evidenziava anche che la stessa procura risulta(va) essere stata rilasciata con sottoscrizione illeggibile e risulta(va)no correzioni ed aggiunte scritte a mano su testo preconfezionato dattiloscritto non regolarmente siglate da chi l’avrebbe rilasciata nè dal procuratore che sottoscriveva l’autentica (…)”.

3. Con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta la violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., dell’art. 244 c.c., dell’art. 416 c.p.c..

3.1. Il motivo imputa alla sentenza impugnata l’esercizio dei poteri officiosi al di fuori dei limiti consentiti; la critica investe l’accertamento del requisito dimensionale.

4. Con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – è dedotta violazione e falsa applicazione del principio del contraddittorio nonchè del principio di non contestazione ed anche pronuncia su domanda od eccezione non formulata.

4.1. La censura afferisce alla statuizione secondo cui, ai fini dell’accertamento del requisito dimensionale, sarebbe stata “dirimente la circostanza che l’eccezione sollevata dalla società in primo grado nella memoria difensiva non (sarebbe) stata oggetto di contestazione alcuna alla prima udienza da parte del procuratore della ricorrente”.

La parte ricorrente giudica errata l’affermazione della Corte territoriale, in base al principio per cui il fatto dedotto dal resistente non può essere considerato pacifico se nell’atto introduttivo del giudizio il ricorrente abbia allegato circostanze incompatibili con quel fatto; in ogni caso, deduce che gli effetti derivanti dalla non contestazione (id est: dal principio di non contestazione) avrebbero dovuto essere prospettati al giudice di secondo grado, con uno specifico mezzo di impugnazione; la Corte di appello avrebbe dunque deciso su una domanda mai formulata.

5. Con il quinto motivo, è dedotta omessa pronuncia sulla domanda proposta in via incidentale e/o falsa interpretazione della domanda incidentale.

5.1. E’ censurata la statuizione di novità, perchè formulata solo in appello, della domanda di risarcimento del danno (ulteriore) derivante dal licenziamento; la critica investe l’affermazione secondo cui la ricorrente, in primo grado, avrebbe richiesto il risarcimento solo quale conseguenza del mobbing; conseguentemente, avrebbe errato la Corte di Appello a regolare le spese di lite in base alla argomentazione della reciproca soccombenza.

Esame dei motivi.

6. Giudica il Collegio fondato il primo motivo.

7. E’ opportuno premettere l’orientamento di questa Corte (cfr., ex aliis, Cass. n. 24525 del 2014; Cass. n. 12031 del 1999; Cass. n. 9869 del 1991), ribadito, in ultimo, dalle sezioni unite, con la pronuncia n. 12568 del 2018, secondo cui il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso, vale a dire una situazione di per sè idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 c.c., ed alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3.

7.1. Il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equità -, infatti, di per sè non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); nè per dare luogo al licenziamento si richiede un’accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.

7.2. Nell’art. 2110 c.c., comma 2, si rinviene un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito delle conseguenze che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.

8. Ciò posto in via generale, quanto alle conseguenze derivanti dall’intimazione di un licenziamento, prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto – questione che maggiormente rileva nella fattispecie concreta -, in continuità con la pronuncia delle sezioni unite di cui si è detto (id est: n. 12568 del 2018), deve affermarsi la nullità del recesso (negli stessi termini delle sezioni unite cit., anche Cass. n. 24525 del 2014; Cass. n. 1404 del 2012; Cass. n. 12031 del 1999; Cass. n. 9869 del 1991).

8.1. Tale conclusione è imposta dall’interpretazione dell’art. 2110 c.c., comma 2, accolta fin da Cass., sez. un., n. 2072 del 1980, come norma di carattere imperativo, in combinata lettura con l’art. 1418 dello stesso codice.

8.2. E’ noto, infatti, che dottrina e giurisprudenza definiscono l’imperatività delle norme in rapporto all’esigenza di salvaguardare valori morali o sociali o valori propri d’un dato ordinamento giuridico. Il valore della tutela della salute è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento, atteso che l’art. 32 Cost., lo definisce come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. La salute – osservano le citate sezioni unite – non può essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.

8.3. La riconducibilità del licenziamento, intimato prima del maturarsi del periodo di comporto, alla categoria negoziale della nullità, non sembra, peraltro, messa in discussione neppure dalla sentenza impugnata.

9. Il profilo controverso riguarda piuttosto il piano ulteriore degli effetti derivanti dall’accertamento di un siffatto vizio; al riguardo, rileva precisare che il licenziamento di cui si discute è stato intimato il 15.7.2008 e, secondo l’accertamento compiuto dalla Corte di appello, in relazione ad un rapporto di lavoro assistito da tutela cd. obbligatoria, per avere la parte datoriale, alte sue dipendenze, meno di quindici dipendenti.

9.1. Secondo la normativa ratione temporis vigente, la Corte territoriale ha ritenuto di applicare, alla fattispecie concreta, il regime sanzionatorio di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8.

10. Le raggiunte conclusioni non sono condivise dal Collegio.

10.1. L’equiparazione del licenziamento nullo con quello illegittimo, in applicazione di una sorta di “parallelismo delle tutele”, non appare coerente con il sistema normativo e neppure rispondente ad una precisa scelta del legislatore.

10.2. Si è evidenziato come il licenziamento disciplinato dall’art. 2110 c.c., rappresenti una categoria diversa dal licenziamento per giustificato motivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, cui consegue, per l’ipotesi di violazione, un differente vizio dell’atto datoriale: nullità piuttosto che annullabilità.

10.3. Questa Corte ha già osservato, in relazione a rapporti di lavoro assistiti da

tutela obbligatoria e ratione temporis regolati dall’art. 8 cit. (Cass. 15093 del 2009: licenziamento nullo per illiceità del motivo; Cass. n. 18537 del 2004; Cass. n. 9549 del 1995: licenziamento nullo perchè intimato in violazione della L. n. 1204 del 1971, art. 2, comma 2; Cass. n. 2856 del 1979: licenziamento per rappresaglia, ante disciplina della L. n. 108 del 1990, art. 3), come gli effetti del licenziamento dichiarato nullo non fossero disciplinati, in via di estensione analogica, dalla normativa dettata dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, recando quest’ultima esclusivamente la disciplina per la diversa ipotesi dell’annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo.

10.4. In tali ipotesi, in mancanza di un’espressa regolamentazione, la Corte ha ritenuto dovesse trovare applicazione la disciplina generale del codice civile per l’atto nullo, improduttivo di effetti (nella specie sulla continuità del rapporto di lavoro), secondo il noto brocardo “quod nullum est nullum producit effectum”: con la dichiarazione di nullità dell’atto estintivo del rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni contrapposte, nascenti dal contratto di lavoro, restano integre e le parti vengono a trovarsi in una posizione di inadempienza reciproca, originata dall’iniziale rifiuto del creditore di ricevere la prestazione di lavoro e di versare il corrispettivo pattuito, così che si realizza una fattispecie da regolare secondo le norme che disciplinano l’inadempimento delle obbligazioni nei contratti con prestazioni corrispettive.

10.5. Coerentemente, la medesima disciplina di diritto civile deve trovare applicazione in caso di licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., comma 2, in relazione ad un rapporto di lavoro non disciplinato dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, quale è quello oggetto di causa.

11. Gli altri motivi vanno, invece, respinti.

11.1. Quanto al secondo motivo, la censura non soddisfa gli oneri di deduzione e specificazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6, e art. 369 c.p.c., n. 4, non risultando neppure trascritti gli atti difensivi in cui (l’ulteriore) eccezione sarebbe stata sollevata e tanto meno il contenuto della procura, della cui validità si dubita; vale il principio per cui, anche in presenza della denuncia di “errores in procedendo”, cui devono ricondursi le dedotte censure, nonostante la Cassazione sia anche giudice del fatto “processuale”, è pur sempre necessario che il vizio sia stato ritualmente indicato e allegato nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (ex plurimis, Cass., sez. un., n. 8077 del 2012; Cass. n. 31671 del 2018).

12. Anche il terzo motivo, per come illustrato, va disatteso.

12.1. Il Collegio intende dare continuità al consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 6753 del 2012; Cass. n. 12856 del 2010; n. 2379 del 2007; Cass. n. 278 del 2005) per cui nel rito del lavoro, stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorchè le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può, in via eccezionale, ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.

Nel caso di specie, l’accertamento, con i poteri di ufficio, del requisito dimensionale è compiuto in corretta applicazione dell’enunciato principio, risultando, dalla sentenza impugnata (pagg. 12 e 13), il contrasto tra le parti in merito al requisito dimensionale oltre a richieste istruttorie, in proposito, da parte della datrice di lavoro.

12.2. Nel seguito, il motivo sviluppa critiche alla valutazione del materiale probatorio, attività riservata esclusivamente al giudice di merito ed, in questa sede, non validamente censurata.

13. Il quarto motivo è inammissibile.

13.1. La censura non coglie l’esatta portata dell’iter argomentativo posto a base della decisione. La Corte di appello ha accertato il requisito dimensionale sulla base degli acquisiti elementi di prova (orale e documentale) e non in applicazione del principio di non contestazione.

13.2. La parte ricorrente censura un passaggio motivazionale, privo di autonoma decisività; la Corte territoriale ha ritenuto solo di desumere argomenti di prova anche dal contegno processuale della parte appellante, quale assunto nel giudizio di primo grado, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 116 c.p.c., comma 2.

14. Il quinto motivo difetta di specificità.

15. L’esame della denuncia di omessa pronuncia sulla domanda risarcitoria e/o di erronea interpretazione della stessa è, in radice, impedita dalla trascrizione, nei passaggi significativi per la valutazione di decisività della questione, del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e, poi, della memoria difensiva in appello, contenente l’impugnazione in via incidentale.

16. Sulla scorta di tali considerazioni, in accoglimento del primo motivo, la decisione impugnata va, dunque, cassata e la causa rinviata alla Corte di Appello di Catania che, in diversa composizione, nel procedere al riesame della fattispecie concreta, farà applicazione del seguente principio di diritto:

“Secondo la normativa ratione temporis vigente, nei rapporti di lavoro ai quali non si applica la L. n. 300 del 1970, art. 18,gli effetti del licenziamento dichiarato nullo, ai sensi dell’art. 2110 c.c., comma 2, perchè intimato in mancanza del superamento del periodo cd. di comporto, non sono regolati, in via di estensione analogica, dalla disciplina dettata dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, bensì, in assenza di una espressa regolamentazione, da quella generale del codice civile”.

17. Al giudice di rinvio è rimessa, altresì, la regolazione anche delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, respinti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in merito alle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2019

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