Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19629 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. III, 18/09/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 18/09/2020), n.19629

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26649-2018 proposto da:

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE, (OMISSIS), MINISTERO DIFESA

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende;

– ricorrenti –

contro

O.R., + ALTRI OMESSI; elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA GERMANICO N 197, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO GALASSO,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE OSNATO;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

MINISTERO DIFESA, (OMISSIS), MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E

TRASPORTI elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1323/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 07/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/07/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza 7.7.2017 n. 1323, pronunciando sull’appello principale proposto dal Ministero della Difesa e dal Ministero della Infrastrutture e dei Trasporti, ha rideterminato il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei familiari delle vittime del disastro aereo occorso sui cieli di (OMISSIS), in applicazione dei criteri desunti dalle Tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale redatte dal Tribunale di Milano, rigettando gli appelli incidentali dei superstiti volti ad ottenere anche il ristoro del danno tanatologico “jure hereditatis”, e confermando la sentenza di “prime cure” nella parte in cui veniva disposta la detrazione, dalle somme liquidate a titolo risarcitorio, degli importi già corrisposti dallo Stato agli eredi delle vittime a titolo di “indennità” ed “elargizioni”, previste dalla L. 20 ottobre 1990, n. 302, artt. 4 e 5 nonchè dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 272, e dalla L. 3 agosto 2004, n. 206, art. 5, commi 3 e 5, aventi funzione indennitaria e non assistenziale, la cui applicazione era stata estesa ai familiari delle vittime di (OMISSIS) dalla L. 8 agosto 1995, n. 340, art. 1.

La sentenza di appello è stata ritualmente impugnata per cassazione dalle Amministrazioni dello Stato con un unico motivo.

Resistono con controricorso e contestuale ricorso incidentale, affidato ad due motivi, O.R., + ALTRI OMESSI.

Le Amministrazioni statali hanno depositato controricorso al ricorso incidentale.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte.

La difesa delle parti resistenti ha depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Occorre rilevare in via preliminare che, sebbene nella intestazione del ricorso per cassazione siano indicati anche i nominativi dei seguenti soggetti danneggiati ” D.P.” (assistito in grado di appello dagli avvocati Vanessa, Fabrizio e Vincenzo Fallica); ” D.G.d.G.A., P.G.M., P.C.A., P.F.S.” (assistiti in grado di appello dagli avvocati Vanessa e Fabrizio Fallica); ” M.P., M.R.” (difesi in grado di appello dall’avv. Massimiliano Pace); ” S.A., L.M., L.V., L.B.” (difesi in grado di appello dall’avv. Giuseppe Incandela, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Gaetano Leto), non soltanto non sono state depositate le cartoline AR comprovanti la avvenuta notifica del ricorso, ma neppure risulta redatta dal difensore delle Amministrazioni statali ricorrenti, in calce al ricorso per cassazione depositato in originale, la relata di notifica indirizzata ai predetti soggetti con l’attestazione della consegna dell’atto notificando all’ufficio postale. Negli atti del fascicolo di ufficio si rinvengono, infatti, compilate dall’Avvocato dello Stato due note di deposito in Cancelleria: la prima in data 18.10.2018 e la seconda in data 28.11.2018, in ciascuna delle quali è attestato il deposito di un “avviso di ricevimento A/R”. Tali note recano in allegato due cartoline A/R in originale – sulle quali è apposto il timbro di Cancelleria, in data corrispondente a quella della singola nota di deposito – concernenti, rispettivamente: a) notifica eseguita in data 12.9.2018 e diretta ad ” O.R. ed altri nel loro domicilio eletto via G. Pacini 67, 90138 Palermo, presso st. avv. Alfredo Galasso”, sottoscritta per ricezione da persona qualificatasi per “segretaria” e seguita da firma illeggibile; b) notifica eseguita in data 12.11.2018 e diretta ad ” O.R. più altri nel loro domicilio eletto via Germanico 197, 00192 Roma, presso st. avv. Alfredo Galasso” sottoscritta per ricezione da persona qualificatasi “portiere dello stabile” e seguita da firma ” S.”. Indipendentemente dalla riferibilità o meno della seconda cartolina AR, come appare verosimile, al controricorso al ricorso incidentale (piuttosto che ad una mera rinnovazione della notifica del ricorso principale: dalle indicazioni che emergono, infatti, dalle relate di notifica del ricorso e del controricorso al ricorso incidentale, compilate dall’Avvocato dello Stato, emergono due distinti indirizzi: il ricorso indica quale luogo di destinazione (OMISSIS); il controricorso al ricorso incidentale indica quale luogo di destinazione (OMISSIS)), appare in ogni caso dato oggettivo inequivoco che le Amministrazioni statali hanno inteso rivolgere la impugnazione per cassazione esclusivamente nei confronti dei soli danneggiati assistiti dall’avv. Alfredo Galasso, come è dato evincere, appunto, dalla stessa “relata di notifica” redatta in calce al ricorso principale, in cui si dichiara che l’Avvocatura Generale dello Stato, ai sensi della L. n. 53 del 1994 e della L. n. 69 del 2009, art. 55 ha notificato l’antescritto atto ai predetti destinatari (nominativamente indicati), nonchè dalla assoluta mancanza di qualsiasi altra attività od atto – anche soltanto preordinato o meramente preparatorio compiuto dal difensore delle PP.AA., riferibile al procedimento notificatorio nei confronti degli altri soggetti danneggiati (in relazione ai quali non si configura alcuna posizione litisconsortile necessaria, introducendo ciascuna domanda risarcitoria un autonomo e separato rapporto obbligatorio, e che rimangono, peraltro, del tutto indifferenti rispetto alla impugnazione della sentenza proposta soltanto nei confronti di altri danneggiati) i nominativi dei quali, pertanto, sono riportati nella intestazione del ricorso solo a titolo descrittivo-notiziale, dovendo, in conseguenza, ritenersi costituito il rapporto processuale nel giudizio di legittimità esclusivamente tra le Amministrazioni statali ricorrenti e quei soggetti ritualmente intimati – tutti difesi dall’avv. Galasso – ai quali soltanto sono stati notificati, presso detto difensore, sia il ricorso principale che il controricorso al ricorso incidentale.

Tanto premesso, osserva il Collegio che la sentenza di prime cure, secondo quanto emerge dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata e dagli atti regolamentari delle parti, ha ritenuto che, al fine di evitare ingiustificate locupletazioni, dovessero essere detratti dalle somme liquidate a titolo risarcitorio ai familiari delle vittime gli importi già corrisposti dallo Stato “a titolo di elargizioni di cui alla L. 20 ottobre 1990, n. 302, artt. 4 e 5 alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 272, ed alla L. 3 agosto 2004, n. 206, art. 5, commi 3 e 5”.

La L. 20 ottobre 1990, n. 302, recante “Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata” (estesa ai familiari delle vittime del disastro di (OMISSIS) dalla L. 8 agosto 1995, n. 340, art. 1) prevede:

– all’art. 4 (Elargizione ai superstiti), comma 1, la erogazione ai componenti la famiglia ed ai conviventi “more uxorio” ed alle persone conviventi da almeno tre anni con la vittima (comma 2), di una somma di denaro, “una tantum”, in misura pari ad un importo di Lire 150 milioni, successivamente elevato nella misura di Euro 200.000,00 dalla L. 3 agosto 2004, n. 206, art. 5, comma 5;

– all’art. 5 (Opzione dei superstiti per un assegno vitalizio), la facoltà per “il coniuge di cittadinanza italiana, o il convivente more uxorio e i parenti entro il secondo grado, di cittadinanza italiana” di beneficiare, in luogo della elargizione di cui all’art. 4, di un “assegno vitalizio personale non reversibile”, di importo variabile (da Lire 300.000 a Lire 600.000 mensili) secondo il numero dei chiamati alla elargizione.

La L. 23 dicembre 2005, n. 266 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)”, all’art. 1, comma 272, dispone: “A favore degli eredi delle vittime dell’evento occorso ad (OMISSIS) il (OMISSIS) è riconosciuta una indennità nel limite di spesa complessivo di 8 milioni di Euro per il 2006. Con decreto del Ministro dell’interno sono stabilite le modalità per l’attuazione del presente comma.”

La L. 3 agosto 2004, n. 206 recante “Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice” (estesa ai familiari delle vittime dell’evento occorso ad (OMISSIS) il (OMISSIS), dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 1270), dispone:

– all’art. 5, comma 3: “A chiunque subisca o abbia subito, per effetto di ferite o di lesioni, causate da atti di terrorismo e dalle stragi di tale matrice, un’invalidità permanente non inferiore ad un quarto della capacità lavorativa, nonchè ai superstiti delle vittime, compresi i figli maggiorenni, è concesso, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, oltre all’elargizione di cui al comma 1 (id est “L’elargizione di cui alla L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 1 e successive modificazioni” spettante alla persona, nei confronti della quale è stato commesso l’atto lesivo, che abbia subito un danno biologico consistito in una invalidità permanente), uno speciale assegno vitalizio, non reversibile, di 1.033 Euro mensili, soggetto alla perequazione automatica di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, art. 11 e successive modificazioni. Per le medesime finalità è autorizzata la spesa di 8.268.132 Euro per l’anno 2004, di 8.474.834 Euro per l’anno 2005 e di 8.686.694 Euro a decorrere dall’anno 2006. Ai figli maggiorenni superstiti, ancorchè non conviventi con la vittima alla data dell’evento terroristico, è altresì attribuito, a decorrere dal 26 agosto 2004, l’assegno vitalizio non reversibile di cui alla L. 23 novembre 1998, n. 407, art. 2 e successive modificazioni.

– all’art. 5, comma 5: “L’elargizione di cui all’art. 4, comma 1, e all’art. 12, comma 3 (che prevede la riliquidazione, fino all’importo di Euro 200.000,00 delle speciali elargizioni già erogate in base alla L. 13 agosto 1980, n. 466), della L. 20 ottobre 1990, n. 302, come sostituito dalla L. 23 novembre 1998, n. 407, art. 3, comma 2, lett. b), è corrisposta nella misura di 200.000 Euro. Per le stesse finalità è autorizzata la spesa di 34.300.000 Euro per l’anno 2004”.

Tanto premesso, osserva il Collegio che la questione pregiudiziale di giudicato interno, dedotta dai resistenti, appare inammissibile ed è comunque infondata.

Assumono i resistenti che si sarebbe formato, per omessa specifica impugnazione, il giudicato interno sulla statuizione del Tribunale che – secondo la tesi difensiva prospettata – aveva limitato il defalco del complessivo importo risarcitorio a quelle sole “elargizioni ed indennità” che erano state, anteriormente, “già corrisposte” dallo Stato, rimanendo, invece, sottratti a tale detrazione – in quanto non specificamente menzionati nella sentenza di primo grado – gli ulteriori importi dei predetti benefici non ancora corrisposti e da corrispondere successivamente alla detta pronuncia.

La eccezione pregiudiziale non supera il vaglio di ammissibilità, essendo rimasto indimostrato il “fatto processuale” presupposto. I resistenti hanno infatti omesso, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, di riportare – a supporto della eccezione – i motivi del gravame principale svolti dalle Amministrazioni statali, onde consentire a questa Corte la verifica della asserita mancanza di uno specifico motivo di impugnazione rivolto ad impugnare la predetta statuizione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012, secondo cui il vizio di nullità processuale, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, investe il Giudice di legittimità del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito e quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), onere tanto più necessario in quanto, come risulta dalle vicende processuali riferite nella sentenza impugnata, le PP.AA. avevano, fin dal primo grado, dedotto la infondatezza delle pretese attoree proprio in relazione al cumulo del danno risarcibile con le provvidenze erogate dallo Stato (cfr. sentenza appello, pag. 12), mentre, con l’appello principale, avevano investito la decisione di prime cure sotto tutti gli aspetti relativi sia all'”an” che al “quantum” del risarcimento del danno, contestando tutte le poste risarcitorie “liquidate in misura eccessiva” (cfr. sentenza appello, in motiv. paragr. 3, pag. 14 e 15: tale indicazione, contenuta nella sentenza di appello, non consente una precisa individuazione delle censure svolte dalle appellanti principali, ma proprio perchè onnicomprensiva, tanto più onerava gli attuali controricorrenti ad assolvere al requisito di specificità della eccezione pregiudiziale).

In ogni caso la eccezione pregiudiziale appare del tutto infondata.

I resistenti affidano, infatti, la formazione del giudicato interno ad una “interpretazione” della statuizione del Tribunale che, in quanto avulsa dal contesto motivazionale, non appare aderente al “dictum”: il Giudice di prime cure ha inteso, infatti, accertare l’effettiva consistenza del danno all'”attualità”, venendo a riferirsi, quindi, necessariamente alla situazione esistente al momento della pronuncia, e dunque operando la commisurazione dell’equivalente monetario del danno risarcibile alle provvidenze economiche, aventi funzione risarcitoria, “già” assegnate dallo Stato. E non poteva essere diversamente, atteso che una pronuncia di condanna che avesse inteso, invece, disporre “de futuro”, in relazione ad un evento del tutto ipotetico (attribuzione del diritto alla provvidenza) in quanto ancora incerto nell'”an” ed indefinito nel “quantum”, non è consentita dall’ordinamento processuale che richiede al Giudice di merito di stabilire la regola del caso concreto – come definito dall’accertamento dei fatti costitutivi della domanda e delle eccezioni – e non una mera pronuncia enunciativa del diritto in astratto o addirittura ipotetica-condizionale.

La pronuncia di condanna emessa dal Tribunale – successivamente confermata in grado di appello – non è, pertanto, qualificabile come condanna generica ex art. 278 c.p.c., atteso che liquida alla attualità il risarcimento del danno per equivalente previa decurtazione dei benefici di legge attribuiti ai superstiti, e non viene a confrontare, ai fini della detrazione, un credito attuale (al risarcimento del danno) con un credito soltanto “ipotetico” e “futuro” (alla percezione del beneficio ex lege). Nel caso in esame, piuttosto, il Tribunale ha posto in comparazione dei valori economici determinabili, all’attualità, nei loro rispettivi importi, in quanto riferiti a diritti patrimoniali certi nell'”an” e nel “quantum”: il diritto al risarcimento del danno espresso nell’equivalente monetario, ed il diritto ai benefici di legge riconosciuti ai superstiti dallo Stato.

Ne segue che il “dictum” del Tribunale in ordine alla decurtazione dall’importo risarcitorio delle “elargizioni e indennità già corrisposte dallo Stato”, non può essere inteso – come appaiono invece prospettare i resistenti nel senso di circoscrivere il “quantum” detraibile a quelle sole somme che sono state materialmente versate dallo Stato ad una certa data, agli aventi diritto, rimanendo invece sottratti alla falcidia – in difetto di impugnazione da parte delle PP.AA. – i versamenti relativi ai predetti benefici effettuati successivamente alla pronuncia di prime cure. Tale ipotizzata limitazione verrebbe non solo a contraddire alla “regula juris” – immediatamente prima affermata dallo stesso Giudice di merito – secondo cui tutti indistintamente i benefici economici accordati dalla L. n. 302 del 1990 e dalla L. n. 266 del 2005 – in quanto aventi analoga natura ristoratrice del medesimo pregiudizio dovevano essere scomputati dall’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno, ma finanche ad introdurre tra le stesse parti danneggiate una ingiustificata discriminazione, non evincibile dalla “ratio decidendi”, fondata sulla arbitraria distinzione tra beneficiari di prestazioni “una tantum” già eseguite, assoggettati alla detrazione, e beneficiari di prestazioni periodiche, che sarebbero fatti salvi dalla decurtazione, per quelle prestazioni non ancora eseguite ma da eseguire (nel senso che il credito è già interamente insorto mentre non è ancora intervenuto il pagamento del debito): e ciò sebbene entrambe le categorie di soggetti danneggiati risultino destinatarie delle medesime provvidenze economiche accordate dalla legge.

Onde evitare l’indicato paradosso, il “dictum” del Tribunale, confermato in grado di appello, non può allora che essere interpretato nel senso che dall’importo liquidato in sentenza a titolo risarcitorio ai familiari delle vittime deve essere scomputato il corrispondente importo relativo, indistintamente, a tutti i benefici economici che, alla data del passaggio in giudicato della decisione, fossero stati “riconosciuti” ai superstiti, con provvedimento ricognitivo dei presupposti di fatto e giuridici cui la legge ricollega il diritto alla percezione della “elargizione”, dell'”assegno vitalizio”, e della “indennità”, così come determinati nel “quantum” direttamente dalla legge, indipendentemente, quindi, dal momento della esecuzione della materiale erogazione delle corrispondenti somme.

L’assunto dei resistenti per cui sarebbe intervenuto il giudicato interno sulla detrazione dei benefici ex lege, limitatamente a quei soli pagamenti che alla data della decisione erano stati materialmente “già” eseguiti dallo Stato, mentre dovrebbe – invece – “cumularsi” l’importo risarcitorio con quello relativo ai benefici ex lege per i quali risultassero dovuti ancora ulteriori versamenti, appare del tutto illogico rispetto alla “ratio decidendi” ed infondato, dovendo al contrario ravvisarsi nella statuizione di condanna al risarcimento del danno decurtato dei benefici di legge già erogati dallo Stato, una pronuncia condizionata alla venuta ad esistenza della circostanza di fatto oggetto di mera constatazione – della emissione del provvedimento attributivo del beneficio economico.

A- Ricorso principale delle Amministrazioni statali.

Venendo all’esame dell’unico motivo del ricorso principale, con cui le PP.AA. deducono il vizio di violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 1223 c.c. e della L. n. 302 del 1990, art. 10 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rileva il Collegio che sul punto della detrazione dalle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno di tutti indistintamente i benefici di cui alla L. n. 302 del 1990 (elargizione o assegno vitalizio) ed alla L. n. 266 del 2005 (indennità speciale), i Giudici di merito avevano accolto la difesa subordinata delle Amministrazioni statali.

Pertanto, se la censura deve intendersi rivolta a contestare alla Corte territoriale di non avere statuito che tra le provvidenze economiche erogate dallo Stato ai superstiti delle vittime del disastro di (OMISSIS), detraibili dalle somme liquidate a tiolo risarcitorio, deve ricomprendersi anche l'”assegno vitalizio”, il motivo deve ritenersi inammissibile per carenza di interesse, atteso che già il Tribunale aveva statuito che l'”assegno vitalizio”, previsto dalla L. n. 302 del 1990, art. 5, comma 1, dovesse essere detratto dal complessivo ammontare dell’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno, e tale statuizione è stata integralmente confermata in grado di appello.

La Corte d’appello, infatti, non è venuta a modificare sul punto la sentenza del Giudice di prime cure, avendo rigettato gli appelli incidentali proposti dai danneggiati che erano rivolti, sia a contestare la stessa “compensabilità” delle provvidenze economiche con il valore equivalente del danno (cfr. il motivo di gravame incidentale, riportato alle pag. 9-12 del controricorso), sul duplice assunto della natura non risarcitoria dei benefici e della paradossale conseguenza per cui lo Stato, responsabile civile, veniva al tempo stesso ad elargire somme delle quali poi chiedeva la restituzione; sia ad eccepire la prescrizione breve ex art. 2948 c.c. della pretesa restitutoria delle somme già erogate a titolo di benefici, nonchè l’assenza di legittimazione attiva delle Amministrazioni pubbliche a far valere tale pretesa.

Dal rigetto degli indicati motivi dell’appello incidentale proposto dai danneggiati, non deriva, pertanto, alcuna situazione di soccombenza, neppure parziale, sulla questione della detraibilità dei benefici ex lege, tale da legittimare le Amministrazioni statali alla impugnazione per cassazione, in parte qua, della sentenza di appello, che risulta meramente confermativa della pronuncia del Tribunale di integrale accoglimento della “eccezione” subordinata di merito, svolta in primo grado dalle stesse Amministrazioni statali, e diretta a far valere la detrazione, dal complessivo importo risarcitorio, delle somme attribuite ai danneggiati a titolo di benefici di legge.

Nè, peraltro, è dato rinvenire una situazione di parziale soccombenza delle PP.AA., per avere la Corte d’appello pronunciato in eccedenza rispetto al “quantum devolutum” con l’appello incidentale, in quanto – pur dopo aver confermato sul punto la decisione del Tribunale – avrebbe poi limitato la detraibilità al solo beneficio della “elargizione”, di cui alla L. n. 302 del 1990, art. 4, comma 1, ed alla “indennità speciale” prevista dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 272, omettendo di richiamare anche l'”assegno vitalizio”.

Al riguardo è appena il caso di evidenziare come il primo Giudice abbia sinteticamente impiegato il lessema “elargizioni”, declinato al plurale, per individuare tutti i benefici, accordati dalla L. n. 302 del 1990, peraltro specificamente individuati mediante l’espresso richiamo degli artt. 4 e 5 predetta legge, e come la Corte d’appello, adeguandosi a tale sintetica forma lessicale, abbia ribadito la detraibilità di tutte “le elargizioni” previste da detta L. n. 302 del 1990 (sentenza appello, in motivazione, pag. 18 ss.), attesa la natura compensativa-risarcitoria delle stesse, desunta dalla medesima disciplina dello “scomputo” cui tali provvidenze venivano assoggettate dalla L. n. 302 del 1990, art. 10, commi 2 e 3, (disciplina la cui uniforme applicazione trova piena giustificazione, come esplicitato nel medesimo art. 10, comma 1 nella piena equiparazione della “elargizione” all'”assegno vitalizio”, trattandosi della medesima provvidenza, diversificata soltanto in relazione alla modalità di erogazione scelta dal beneficiario: in forma anticipata, “una tantum”, ovvero in forma di emolumento periodico in rate costanti), non sussistendo pertanto alcun dubbio in ordine alla inequivoca riconduzione anche dell'”assegno vitalizio” tra “le elargizioni” dichiarate detraibili nella sentenza impugnata, e risultando in conseguenza priva di fondamento la censura di legittimità per vizio dell’attività di giudizio dedotta dalle Amministrazioni pubbliche ricorrenti.

La censura, peraltro, non appare fondata neppure se riguardata con riferimento alla asserita omessa determinazione dell’esatto importo dell'”assegno vitalizio” detraibile.

Al proposito occorre considerare che la L. n. 302 del 1990, art. 5, comma 1 e art. 10, commi 2 e 3, contengono una disciplina completa dell’assegno vitalizio, là dove la prima norma definisce chiaramente l’importo mensile erogabile, mentre la seconda pone il criterio di capitalizzazione della rendita (“moltiplicando l’ammontare annuale dell’assegno per il numero di anni corrispondente alla differenza tra l’età del beneficiario e la cifra 75” – art. 10, comma 2 -).

Orbene l’impianto motivazionale su cui poggia la decisione del Giudice di secondo grado è interamente incentrato sull’affermazione del principio – che rinviene il proprio fondamento normativo nell’art. 1223 c.c. – secondo cui deve escludersi che il danneggiato, a seguito e per effetto del risarcimento, possa conseguire vantaggi addirittura maggiori rispetto alla situazione in cui versava anteriormente alla lesione subita, e la Corte territoriale proprio nella L. n. 302 del 1990, art. 10, commi 2 e 3, ha riconosciuto un’applicazione normativa di detto principio, venendo ad escludere tale norma la cumulabilità dell’importo liquidato a titolo risarcitorio con quello erogato a titolo di benefici di legge, in quanto entrambi diretti a ristorare lo stesso pregiudizio.

La norma dell’art. 10, al comma 2, prevede che “se il beneficiario ha già ottenuto il risarcimento del danno” il relativo importo si detrae dalla entità della elargizione o, se il danneggiato ha optato per l'”assegno vitalizio” in luogo della “elargizione”, la detrazione va applicata sull’importo capitalizzato della rendita (secondo il criterio sopra indicato). Diversamente, “qualora il risarcimento non sia stato ancora conseguito”, lo Stato è surrogato nel diritto del beneficiario verso i responsabili, “fino all’ammontare dell’elargizione o della somma relativa alla capitalizzazione dell’assegno vitalizio” (comma 3).

Il Giudice di appello non ha ritenuto di ostacolo il fatto che, nella fattispecie concreta, lo Stato rivestisse la duplice posizione di soggetto tenuto alla erogazione dei benefici e di responsabile civile chiamato ad adempiere la obbligazione risarcitoria del danno cagionato ai familiari delle vittime del disastro aereo, argomentando che la norma trova collocazione in un provvedimento legislativo originariamente “a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata” e, dunque, le disposizioni sono formulate nel presupposto che l’autore dell’illecito sia un soggetto terzo rispetto alla Amministrazione statale chiamata ad erogare i benefici, con la conseguenza che, non potendo trovare applicazione nel caso di specie l’istituto della “surrogazione legale”, il divieto di duplicazione delle poste risarcitorie non poteva trovare altrimenti attuazione che decurtando gli importi dei benefici, riconosciuti ai familiari delle vittime, dall’ammontare complessivo della liquidazione del danno.

Osserva il Collegio che la statuizione resa dal Giudice di appello si articola secondo i seguenti passaggi motivazionali, volti, da un lato, a rigettare la eccezione di prescrizione “parziale” ex art. 2948 c.c. formulata dai danneggiati e, dall’altro, a confermare la applicazione della decurtazione degli importi dei benefici ex lege dall’ammontare complessivo del “quantum” liquidato a titolo di risarcimento del danno:

– risulta accertato che lo Stato ha corrisposto indennità ed elargizioni;

– in mancanza di “dati di riferimento sulle date” in cui lo Stato ha corrisposto i benefici la “eccezione di prescrizione” va rigettata;

– dalle somme riconosciute a titolo risarcitorio in favore di ciascuno dei danneggiati va detratto quanto già corrisposto dallo Stato a titolo di elargizioni ed indennità (cfr. sentenza appello, dispositivo, pag. 54-55), non occorrendo effettuare i relativi calcoli, in quanto “la pronuncia di contenuto generico sulla decurtazione di indennità ed elargizioni dal risarcimento, consegna alla fase esecutiva esclusivamente operazioni di tipo aritmetico” (cfr. sentenza appello, in motivazione, pag. 25).

Il Giudice territoriale ha, quindi, considerato che, anche nel caso in cui fosse stato attribuito l'”assegno vitalizio”, il calcolo della detrazione del relativo importo da quello liquidato a titolo di risarcimento del danno, veniva ad integrare una mera operazione aritmetica, tanto potendo argomentare in quanto era dato rinvenire direttamente nella stessa L. n. 302 del 1990, all’art. 10, comma 2, in relazione all’art. 5, comma 1, il criterio di quantificazione dell’importo dell’indicato beneficio. Stabilita, infatti, nel provvedimento attributivo dell'”assegno vitalizio” la entità dell’emolumento mensile, è del tutto agevole, in base ai dati della età del danneggiato-beneficiario ed al numero di anni mancanti a 75, procedere alla capitalizzazione della rendita utilizzando la formula matematica indicata nell’art. 10, comma 2.

Ma se così è, non è allora ravvisabile nella sentenza impugnata l’errore di diritto dedotto dalle Amministrazione statali, non avendo la Corte d’appello limitato la detrazione ai soli importi delle rate dell’assegno vitalizio materialmente già corrisposte alla data della decisione, ma avendo esteso la decurtazione all’intero importo capitalizzato dell’assegno vitalizio, indicando anche il criterio di computo.

B- Ricorso incidentale proposto dai danneggiati.

Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione della L. n. 302 del 1990, art. 10 e dell’art. 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostengono i ricorrenti incidentali che il Giudice di appello avrebbe fatto scorretta applicazione della disciplina dello “scomputo” dettata dalla L. n. 302 del 1990, art. 10, commi 2 e 3, in quanto la decurtazione era prevista esclusivamente nel caso in cui il danneggiato avesse conseguito l’integrale risarcimento del danno “prima” della erogazione dei benefici di legge, e comunque, nella specie, non avrebbe potuto trovare applicazione neppure il principio della “compensatio lucri cum damno” poichè le provvidenze economiche non erano effetti prodotti dall’illecito, prevedendo, al contrario, la norma la percezione dei benefici “indipendentemente” dal risarcimento del danno. Inoltre, secondo i ricorrenti incidentali, la impossibilità di “surrogazione” dello Stato derivava dal fatto che le condotte illecite erano allo stesso imputabili e che, quindi, non aveva fondamento logico impedire il “cumulo” del risarcimento e delle provvidenze, in quanto lo scomputo presupponeva la distinzione tra autore dell’illecito ed Amministrazione pubblica tenuta alla erogazione dei benefici.

Il motivo è infondato.

La tesi difensiva secondo cui l’impianto legislativo della L. n. 302 del 1990, era stato dettato sul presupposto della perpetrazione di atti di terrorismo o di criminalità organizzata, e dunque non sarebbe possibile trasferire la disciplina legislativa dello “scomputo” nella differente fattispecie in cui la condotta illecita è riferibile allo Stato, è priva di pregio, posto che la norma della L. 8 agosto 1995, n. 340, art. 1, comma 1, è intervenuta proprio a disciplinare tale fattispecie, disponendo la estensione dei medesimi benefici, di cui alla L. n. 302 del 1990, ai familiari delle vittime della strage di (OMISSIS). Nè è a dire che tale estensione è limitata solo alla individuazione del “tipo” e del “quantum” delle provvidenze concesse ai danneggiati (“elargizione” di cui all’art. 4, comma 1, ed “assegno vitalizio” di cui alla L. n. 302 del 1990, art. 5, comma 1), atteso che il medesimo art. 1, al comma 2, ha espressamente previsto che “ai fini della attuazione della disposizione di cui al comma 1, nonchè della determinazione della cumulabilità del beneficio si applicano la L. 20 ottobre 1990, n. 302, artt. 6,10,13 e 16….”.

Pertanto l’intera disciplina contenuta nella L. n. 302 del 1990, art. 10 trova applicazione anche alla fattispecie, peculiare al caso concreto, in cui del danno cagionato dall’illecito sia tenuto a rispondere lo Stato.

Tanto premesso, non può essere condiviso il criterio interpretativo della legge adottato dai ricorrenti incidentali, volto a frazionare le disposizioni contenute nell’art. 10, commi 1, 2 e 3 estrapolandone precetti normativi isolati e tra essi non coordinati, secondo un modo argomentativo che non appare conforme ai criteri ermeneutici delle leggi (art. 12 preleggi).

Quanto alla rivendicata totale separatezza della prestazione risarcitoria da quella compensativa, che – secondo i ricorrenti incidentali – attesterebbe la cumulabilità delle due prestazioni patrimoniali, occorre premettere che alcun elemento interpretativo può essere desunto dalla “rubrica” dell’art. 10 (intitolata “autonomia del beneficio e concorrenza con il risarcimento del danno”), nè dal comma 1 stesso articolo che prevede la erogazione dei benefici “indipendentemente” dal diritto al risarcimento del danno spettante ai danneggiati nei confronti dei responsabili dei fatti delittuosi. La “rubrica” non fa altro che rimandare, infatti, alle successive disposizioni il significato normativo da riconoscere alle nozioni di “autonomia” e di “concorrenza”, che trovano in parte esplicitazione nel comma 1, laddove viene affermata la “indipendenza” della erogazione della prestazione compensativa rispetto alle vicende relative all’esercizio del diritto al risarcimento del danno. La disposizione è certamente opportuna, in quanto volta a scollegare la prestazione indennitaria certa nell'”an” e nel “quantum”, diretta a compensare immediatamente, almeno in parte, il pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, rispetto alle vicende relative all’azione risarcitoria, impedendo in tal modo qualsiasi relazione di “condizionamento o subordinazione” della erogazione del beneficio all’esito delle azioni eventualmente esperite nei confronti degli autori dell’illecito per conseguire il ristoro del danno; ciò che frustrerebbe altrimenti l’obiettivo della legge di assicurare al danneggiato un primo ed immediato intervento riparatore.

La nozione di “concorrenza” viene, invece, sviluppata nei commi successivi, entrambi collegati al primo in sequenza, attraverso l’uso di unità linguistiche relazionali collocate nell’incipit dei due commi: nel comma 2, la congiunzione avversativa “Tuttavia”; nel comma 3, la congiunzione temporale-condizionale “Qualora”.

Consegue che il beneficio deve essere in ogni caso concesso (comma 1) ma la determinazione del suo importo, predeterminata ex lege, costituisce variabile dipendente del risarcimento del danno eventualmente già riscosso (comma 2), il cui importo “si detrae dall’entità della elargizione” o dalla entità dell'”assegno vitalizio” previa “capitalizzazione” della rendita (comma 2).

Orbene è proprio la disposizione del comma 2 che viene a richiamare nella specifica materia il “principio cd. indennitario” (secondo una espressione tratta dalla disciplina della assicurazione danni), ribadendolo nell’art. 13 stessa Legge (che esclude il concorso di benefici conferiti o conferibili in ragione delle medesime circostanze), norma anch’essa applicabile alla fattispecie in esame, principio secondo cui dal ristoro del pregiudizio subito il danneggiato non può trarre ingiustificati arricchimenti, dovendo egli essere compensato di tutto e solo il danno effettivamente patito in conseguenza dell’illecito.

Non è dubbio che la legge possa espressamente disporre la cumulabilità o la non cumulabilità del risarcimento del danno con la erogazione di provvidenze economiche, per le più diverse ragioni. Ma nel caso di specie la esclusiva “natura compensativa-indennitaria” svolta dai benefici accordati ai familiari delle vittime trova integrale riscontro nella funzione svolta dai benefici (elargizione; assegno vitalizio) che è quella di anticipare e mettere immediatamente a disposizione del danneggiato una somma destinata a ristorare – almeno parzialmente – le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, funzione quindi “reintegratoria” della sfera giuridica lesa del danneggiato, del tutto analoga a quella svolta dalla prestazione risarcitoria cui è tenuto il responsabile civile, come, peraltro, bene evidenziato dal Giudice di appello nella comparazione effettuata tra le “elargizioni e la indennità” e gli “altri benefici fiscali, assistenziali e previdenziali” previsti dalla stessa L. n. 309 del 1990 (cfr. sentenza appello, in motiv. pag. 21).

Sulla natura indennitaria dei benefici in esame, con funzione equipollente a quella del risarcimento del danno, l’elemento interpretativo dirimente è dato dall’art. 10, comma 3 che consente allo Stato che ha già attribuito e corrisposto i benefici di legge, di “surrogarsi”, fino a concorrenza del corrispondente importo, nello stesso diritto al risarcimento del danno vantato nei confronti del responsabile civile “qualora il risarcimento non sia stato ancora conseguito” dal danneggiato.

Il meccanismo della surroga, infatti, è volto, da un lato, ad impedire che il terzo autore dell’illecito e responsabile del danno possa fruire dell’esonero anche parziale della propria responsabilità, grazie all’intervento del terzo; dall’altro, a dimostrare che il credito risarcitorio è della stessa natura del credito indennitario, potendo rivolgersi il terzo surrogatosi nei confronti dell’autore dell’illecito azionando lo “stesso credito risarcitorio” vantato dal danneggiato. La norma in esame prevede la surroga (art. 1203 c.c., comma 1, n. 5), proprio perchè lo Stato, erogando i benefici, subentra nello stesso credito risarcitorio originario, e dunque non aggiunge alla pretesa risarcitoria fatta valere dal danneggiato nei confronti del responsabile civile una ulteriore e distinta pretesa, volta a trasferire sul medesimo responsabile civile anche l’onere patrimoniale della “prestazione ex lege” cui lo Stato ha dovuto adempiere in dipendenza del medesimo illecito: la prestazione compensativa-indennitaria dello Stato viene, dunque, a coincidere con la prestazione risarcitoria.

La questione sollevata dai ricorrenti incidentali, fondata sul criterio cronologico dell’avvenuto o meno adempimento della obbligazione risarcitoria da parte del responsabile civile, secondo cui i benefici sarebbero sempre cumulabili ove non si possano verificare le condizioni per operare la detrazione (in quanto il risarcimento del danno non era stato ancora conseguito dal danneggiato), ovvero per attuare la “surroga” (in quanto il risarcimento del danno era stato già corrisposto al danneggiato), non ha alcun fondamento logico, solo che si consideri che le disposizioni di cui al comma 2 ed al comma 3 sono poste in relazione di speculare reciprocità, e dunque non può mai darsi la astratta ipotesi di irrealizzabilità assoluta delle condizioni di operatività delle norme. Nè appare pertinente il rilievo per cui, non potendo – nella specie – surrogarsi lo Stato contro se stesso, e non essendo stato conseguito dai danneggiati il risarcimento del danno liquidato in sentenza, non potrebbe attuarsi alcuna decurtazione della entità dei benefici (secondo la formula letterale tratta dal comma 2). L’assunto è specioso: ferma la “funzione indennitaria” dei benefici, il Legislatore ha, infatti, voluto impedire indebite locupletazioni, sicchè ha ritenuto che, una volta procedutosi alla “aestimatio” del danno, il complessivo ammontare delle poste patrimoniali, derivanti dal risarcimento e dalle provvidenze economiche, concorresse in modo unitario alla soddisfazione dell’unico credito risarcitorio: a tale risultato soccorrono i due meccanismi previsti dalla legge della detrazione del risarcimento dalla entità del beneficio e della erogazione della provvidenza con surroga, in quanto entrambi funzionali al perseguimento del medesimo risultato, e che bene possono anche concorrere tra loro le volte in cui il danneggiato abbia ricevuto soltanto un parziale risarcimento del danno di importo inferiore a quello del beneficio erogabile (in tal caso l’importo del parziale risarcimento verrà detratto da quello del beneficio, mentre lo Stato per il maggiore importo del beneficio erogato – non essendo stato conseguito il corrispondente risarcimento – verrà a surrogarsi nel credito risarcitorio ancora insoluto).

Ma se l’obiettivo della norma di legge è quello di escludere il cumulo tra provvidenze economiche e risarcimento del danno, non è dato trarre allora dalla mera lettera della legge – peraltro con argomentazione asistematica rispetto alla indicazione fornita dalle altre disposizioni contenute nella stessa norma – un significato normativo inteso a pervenire, in uno dei casi considerati dalla norma, ad un risultato confliggente con lo scopo perseguito dal Legislatore. Collegare al fatto, del tutto casuale, del momento in cui vengono erogate le provvidenze, “dopo” (comma 2) o “prima” (comma 3) del conseguimento del risarcimento del danno, la realizzazione del risultato volto ad impedire la locupletazione, giocando sul fatto che nel primo caso soltanto è espressamente previsto che la provvidenza economica deve essere decurtata, mentre nel secondo caso la provvidenza erogata non può essere decurtata, è un modo di procedere alla interpretazione della legge non conforme al criterio logico-sistematico, omettendo di considerare che nel secondo caso, disciplinato nel comma 3, la decurtazione della provvidenza economica non viene espressamente considerata dalla norma, non per ostacoli tecnici, nè perchè si intende affermare (illogicamente) la “cumulabilità” delle poste, ma più semplicemente perchè, in assenza di qualsiasi ristoro percepito ancora dal danneggiato, l’immediato intervento economico dello Stato – cui provvedono la L. n. 302 del 1990 e quelle successive rivolte a sostenere i danneggiati colpiti da atti di terrorismo o criminalità – è diretto ad attuare il principio “vulneratus ante omnia reficiendus” e dunque, necessariamente, prescinde dai tempi e dalle vicende relativi all’esercizio dell’azione risarcitoria nei confronti degli autori dell’illecito (in tal senso appunto l’art. 10, comma 1 stabilisce che il beneficio va erogato “indipendentemente” dal diritto al risarcimento del danno).

Risulta, quindi, chiaro perchè nel comma 3 non viene in questione la “decurtazione” della provvidenza economica: perchè l’ipotesi considerata è quella in cui il danneggiato non ha ricevuto ancora alcun ristoro da parte del responsabile civile, e la “surrogazione” è allora l’unico mezzo per potere evitare che il danneggiato cumuli la provvidenza ricevuta con il risarcimento del danno.

Ma allora, se entrambi i commi 2 e 3 esplicitano lo stesso “principio indennitario”, non vi è ragione per ritenere inapplicabile la decurtazione del beneficio qualora la surrogazione, come nel caso di specie, non possa realizzarsi, perchè il responsabile civile tenuto a risarcire il danno coincide con lo Stato erogatore del beneficio.

In questo caso, infatti, viene in rilievo il fenomeno della “compensatio lucri cum damno” secondo cui la detrazione dell’attribuzione patrimoniale occasionata dall’illecito o dall’inadempimento, dall’ammontare del risarcimento del danno ad esso conseguente, presuppone, sul piano funzionale, che il beneficio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito, e, sul piano strutturale, che ad essa si accompagni un meccanismo di surroga o rivalsa, capace di evitare che quanto erogato al terzo danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per il responsabile.

Osserva il Collegio che la questione relativa alla applicabilità della “compensatio lucri cum damno” è stata recentemente oggetto di rivisitazione da parte delle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Corte cass. Sez. U -, Sentenze n. 12564 – 1267 del 22/05/2018) che hanno scolpito le condizioni alle quali può ritenersi operante il principio del “divieto di cumulo” di plurime prestazioni patrimoniali eseguite, anche a diverso titolo, da diversi obbligati a favore del soggetto danneggiato in conseguenza del medesimo illecito, e che possono essere sintetizzate: 1- nella derivazione causale della prestazione dall’illecito: oltre le conseguenze negative, anche i vantaggi collegati all’atto dannoso debbono, infatti, rispondere alla regola della causalità giuridica ex art. 1223 c.c., in quanto la esatta commisurazione del danno deve essere compiuta alla stregua di tutte le conseguenze negative ed eventualmente positive relazionate al fatto illecito in quanto “il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato” e cioè tanto la perdita subita che il mancato guadagno, “ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale invece deve essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito”; 2- nella medesima funzione ristoratrice del danno assolta dalla prestazione patrimoniale che il soggetto diverso dall’autore dell’illecito è tenuto, per legge od altro titolo negoziale, ad eseguire in favore del danneggiato: se la ragione giustificatrice dell’indennizzo è rivolta alla rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito, sussiste una piena coincidenza delle prestazioni risarcitoria ed indennitaria, con il rischio di indebito cumulo delle somme riconosciute al danneggiato; 3- nella previsione legislativa di meccanismi di recupero (rivalsa, surrogazione, regresso, ecc.) delle somme erogate dal terzo, tenuto per legge o per altro titolo. La previsione di tali meccanismi spetta in via esclusiva al Legislatore: “così in tutti i casi in cui sia una norma legislativa ad attribuire, senza regolare l’eventuale rapporto con il tema risarcitorio, un vantaggio collaterale, il giudice della responsabilità civile non potrebbe procedere tout court ad effettuare la operazione compensativa o di defalco. Se così facesse, egli vanificherebbe il senso più profondo della previsione normativa costituente il titolo della attribuzione, che risiede nell’assunzione da parte della generalità del carico di determinati svantaggi subiti dal o dai soggetti danneggiati, (e) non nella volontà di premiare chi si è comportato in modo negligente od alleggerire la sua posizione debitoria”; 4- nella applicazione della regola della “compensati lucri cum damno” anche in tutti quei casi in cui un unico soggetto, responsabile civile delle conseguenze pregiudizievoli derivate dall’illecito, risulti tenuto, sia pure a diverso titolo, a ristorare il danno patito da un soggetto a causa dell’illecito (la regola “opera in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni”).

Pertanto, non assume rilevanza nella fattispecie la circostanza che, essendo unico il soggetto (Amministrazione statale) obbligato al risarcimento del danno ed al pagamento della “elargizione”, della “indennità speciale” e degli “assegni vitalizi”, non può darsi surrogazione, trovando anche in questa ipotesi, comunque, applicazione la regola per cui quando, “pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria, vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente finalità compensativa” (cfr. in termini, con riferimento a fattispecie analoga: Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 24180 del 04/10/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 31007 del 30/11/2018).

Correttamente pertanto la Corte d’appello ha disposto che dagli importi liquidati a titolo risarcitorio ai familiari delle vittime dovessero essere detratti gli importi riconosciuti ai medesimi danneggiati a titolo di elargizione, indennità od assegno vitalizio (previa capitalizzazione della rendita).

Con il secondo motivo i ricorrenti incidentali deducono il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. e di violazione dell’art. 132 c.p.c., per contrasto inconciliabile tra le argomentazioni svolte nella motivazione della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la Corte d’appello, da un lato, esposto la regola di diritto secondo cui, doveva farsi ricorso alla applicazione delle Tabelle milanesi relative alla liquidazione dei danni non patrimoniali, liquidando il danno per la perdita del rapporto parentale nella misura massima tabellare prevista per i fratelli e le sorelle (pari ad Euro 142.420,00 – con rivalutazione ed interessi: complessivi Euro 287.357,54 -), tuttavia liquidando al danneggiato P.F., familiare sopravvissuto al fratello ed alla sorella G. ed P.A. deceduti nel disastro aereo, l’importo corrispondente ad un solo parente.

Questa Corte ha ben chiaro che la correzione degli errori in cui sia incorso il Giudice in sentenza per “omissioni, errori materiali o di calcolo” costituisce oggetto di un apposito procedimento disciplinato, quanto alla correzione delle sentenze del Giudice di merito, dagli artt. 287 e 288 c.p.c. e deve introdursi con ricorso diretto allo stesso Giudice che ha pronunciato la sentenza da emendare.

Tuttavia non è dato ravvisare ostacoli a che la richiesta di correzione venga svolta, anzichè mediante l’indicato procedimento attraverso l’impiego di un mezzo di tipo impugnatorio, eccedente rispetto allo scopo, ma comunque idoneo ad intervenire nell’emendare sul punto la sentenza, tenuto conto che alla inosservanza della forma dell’atto processuale o di una determinata forma procedimentale, salvo diversa espressa previsione normativa (che si esprime con una sanzione di nullità o di altra conseguenza ricondotta al vizio-invalidità comprensivo genericamente anche della assenza della condizione o dell’elemento presupposto: inammissibilità; improcedibilità), non consegue “necessariamente” una preclusione della possibilità di conseguire il petitum.

Tanto si ricava dal sistema dei vizi formali degli atti processuali per cui non può pronunciarsi la nullità dell’atto quando è risultato comunque idoneo al raggiungimento del suo scopo. Principio che deve essere coniugato con quelli rinvenibili aventi diretto fondamento nella Carta costituzionale (art. 111 Cost.) della ragionevole durata del processo (che implica la necessità per l’interprete di fornire nel dubbio quella soluzione che evita inutile duplicazione o proliferazione di attività processuale, con conseguente inevitabile incremento di inefficienza della attività degli Uffici giudiziari, confliggente con l’art. 97 Cost.) e del giusto processo declinato sotto il profilo di effettività della tutela giurisdizionale (che si ricollega direttamente alla tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost.) e che impone, secondo una linea interpretativa ormai stabilizzatasi a livello generale – in conformità allo sviluppo della giurisprudenza delle Corti -, di ridurre l’area “sanzionatoria” dei vizi meramente formali privilegiando soluzioni volte ad assicurare alle parti la definizione nel merito della controversia ovvero della questione giuridica sottoposta al Giudice.

Tanto premesso ritiene il Collegio di seguire la strada tracciata da quei precedenti che hanno ritenuto non preclusa la istanza di correzione di errore materiale proposta sub specie di motivo di ricorso per cassazione, laddove con tale mezzo impugnatorio siano stati dedotti anche altri vizi propriamente di legittimità. In tal senso appare condivisibile il principio secondo cui qualora “l’errore materiale di liquidazione venga denunciato col ricorso per cassazione fondato anche su altri motivi – che nulla abbiano a che fare con l’errore medesimo -, esso può essere vagliato dal giudice di legittimità in considerazione dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, senza che l’accoglimento del motivo e l’effettuazione della correzione materiale leda il diritto di difesa delle controparti, essendosi pienamente dispiegato il contraddittorio” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 29029 del 13/11/2018). Osserva il Collegio che d’altronde non può ritenersi sanzionato un “uso indiretto” del mezzo processuale, nel senso di impiego di uno strumento molto più complesso ed oneroso sul piano dei requisiti dell’atto, per la parte che se ne avvale, rispetto agli effetti (petitum) che si intendono conseguire (nella specie implicati un mera verifica percettiva della lacuna, o dell’errore contenuto nella sentenza, invece che un esame volto alla verifica della tenuta dell’attività processuale o di giudizio svolta, rispetto al parametro normativo indicato violato), potendo al più riverberare tale scelta, ove dovesse comportare maggiori aggravi per la controparte, sul piano della determinazione delle spese di lite. Tale soluzione è stata seguita da questa Corte, quando è stato affermato che, in presenza di omessa condanna alle restituzioni (pur richiesta nel’atto di appello) “ove la condanna alle restituzioni sia sottratta a qualunque forma di valutazione giudiziale sia nell'”an” sia nel “quantum” del provvedimento, può essere azionata anche la procedura di correzione dell’errore materiale, dovendosi ritenere che i due rimedi, qualora la statuizione acceda al “decisum” della controversia e non siano necessarie ulteriori indagini o determinazioni sostanziali, siano fra loro alternativi” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 17664 del 02/07/2019).

Pertanto il secondo motivo del ricorso incidentale con il quale viene prospettato un errore materiale della sentenza di appello e ne viene richiesta la correzione direttamente a questa Corte, deve dichiararsi ammissibile, risultando altresì fondato.

La Corte d’appello ha, infatti, indicato il criterio di liquidazione equitativa del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale, nei parametri forniti, nel “range” minimo e massimo, dalle Tabelle milanesi, ed ha ritenuto di dover liquidare il danno nella misura massima “a favore dei fratelli conviventi” (cfr. sentenza appello in motiv. pag. 27-28).

Tuttavia nel calcolare le somme spettanti a P.F., n. (OMISSIS) dell’elenco danneggiati (cfr. sentenza appello prospetto, pag. 36-37) il Giudice di merito ha poi omesso di considerare che il danno doveva essere liquidato in relazione alla perdita di due e non di un solo fratello.

Nella specie l’errore omissivo è evidente, non venendo in questione alcun nuovo accertamento, nè valutazione di fatti, e neppure la esigenza di interpretare le statuizioni della sentenza di appello, in quanto:

a) è inequivoca la pronuncia che riconosce in favore dei familiari superstiti il danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale conseguita al decesso del familiare nel sinistro aereo (sentenza appello in motivazione, pag. 29);

b) risulta precisamente determinato nel “quantum” l’ammontare del danno risarcibile, essendo stato parametrato dal Giudice di appello in riferimento al massimo tabellare previsto dalle Tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale in uso presso il Tribunale di Milano, trascritte alle pag. 27-29 della motivazione della sentenza di appello, ed essendo stato liquidato detto ammontare per la perdita dell’altro fratello.

Pertanto, in accoglimento del secondo motivo di ricorso incidentale, va disposta la correzione dell’errore materiale nel senso di seguito indicato:

1) nella motivazione della sentenza della Corte di appello di Palermo 7.7.2017 n. 1323:

– alla pagina n. 37, là dove è scritto “I danni non patrimoniali subiti da P.F. vanno determinati secondo il seguente conteggio: danno 142.420,00 Euro; capitale devalutato 29.322,83; capitale rivalutato con interessi 287.357,54” deve intendersi sostituito “I danni non patrimoniali subiti da P.F. vanno determinati secondo il seguente conteggio: danno 142.420,00 + 142.420,00 Euro; capitale devalutato 58.645,66; capitale rivalutato con interessi 574.715,08”; 2) nel dispositivo della sentenza della Corte di appello di Palermo 7.7.2017 n. 1323:

– alla pagina 50, là dove è scritto “(OMISSIS) Euro 287.357,54 oltre ulteriori interessi legali dalla data della presente sentenza al soddisfo, in favore di P.F.;”, deve invece intendersi sostituito “(OMISSIS). Euro 574.715,08 oltre ulteriori interessi legali dalla data della presente sentenza al soddisfo, in favore di P.F.;”.

In conclusione va rigettato il ricorso principale ed il ricorso incidentale, quanto al primo motivo, dichiarando interamente compensate le spese del giudizio di legittimità.

Sulla istanza di correzione dell’errore materiale, formulata con il secondo motivo del ricorso incidentale, rilevata la omissione in cui è incorso il Giudice di appello, dispone in conformità, non dovendosi disporre sulle spese del procedimento, avuto riguardo alla prevalenza della natura sostanziale del procedimento non contenzioso sulla scelta della forma introduttiva del ricorso, in conformità al principio secondo cui, nel procedimento di correzione degli errori materiali di cui all’art. 287 c.p.c. non è ammessa alcuna pronuncia sulle spese processuali, in quanto la natura ordinatoria e sostanzialmente amministrativa del provvedimento che accoglie o rigetta l’istanza di correzione non consente di riconoscere la presenza dei presupposti richiesti dall’art. 91 c.p.c., che si riferiscono ad un procedimento contenzioso idoneo a determinare una posizione di soccombenza (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 8103 del 28/03/2008; id. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 28610 del 06/11/2019).

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale, quanto al primo motivo, e dichiara interamente compensate le spese del giudizio di legittimità.

Dispone la correzione materiale della sentenza di appello, richiesta con il secondo motivo di ricorso incidentale, nel senso che:

1) nella motivazione della sentenza della Corte di appello di Palermo 7.7.2017 n. 1323:

– alla pagina n. 37, là dove è scritto “I danni non patrimoniali subiti da P.F. vanno determinati secondo il seguente conteggio: danno 142.420,00 Euro; capitale devalutato 29.322,83; capitale rivalutato con interessi 287.357,54” deve intendersi sostituito “I danni non patrimoniali subiti da P.F. vanno determinati secondo il seguente conteggio: danno 142.420,00 + 142.420,00 Euro; capitale devalutato 58.645,66; capitale rivalutato con interessi 574.715,08”

2) nel dispositivo della sentenza della Corte di appello di Palermo 7.7.2017 n. 1323:

– alla pagina 50, là dove è scritto “(OMISSIS). Euro 287.357,54 oltre ulteriori interessi legali dalla data della presente sentenza al soddisfo, in favore di P.F.; “, deve intendersi sostituito “(OMISSIS). Euro 574.715,08 oltre ulteriori interessi legali dalla data della presente sentenza al soddisfo, in favore di P.F.;”.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

 

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