Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19616 del 26/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 26/09/2011, (ud. 08/06/2011, dep. 26/09/2011), n.19616

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CHIBO S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE 87, presso lo studio

dell’avvocato BELLI BRUNO, che la rappresenta e difende unitamente

agli avvocati SCARICA MARIO, GIOVATI ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PETRONIO LUCIANO

GIORGIO, giusta delega in atti;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 503/2007 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 29/09/2008 r.g.n. 1234/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/06/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato RAPISARDA GIUSEPPE MARIA FRANCESCO per delega BRUNO

BELLI;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza dell’11/10 – 29/9/08 la Corte d’Appello di Bologna rigettò l’impugnazione proposta dalla Chibo s.r.l avverso la sentenza del 4/6/04 del giudice del lavoro del Tribunale di Parma, con la quale era stata dichiarata l’invalidità, per mancanza di giustificato motivo oggettivo, del licenziamento intimato a F. D. il 31/5/02, con condanna a reintegrala nel posto di lavoro e a risarcirle il danno provocatole, e condannò l’appellante alle spese del grado.

La Corte bolognese addivenne a tale decisione dopo aver rilevato che non era stata provata la causa del recesso, vale a dire la soppressione del posto di lavoro occupato dalla F., che vi era stata una riorganizzazione consistita nella adibizione di diverse persone alla funzione aziendale, che la società non aveva fornito la prova della impossibilità di reimpiego della lavoratrice licenziata in mansioni compatibili con le sue funzioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale e che nemmeno aveva dimostrato di occupare meno di sedici dipendenti ai fini della eccepita inapplicabilità della tutela reale.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Chibo s.r.l che affida l’impugnazione a tre motivi di censura.

Resiste con controricorso la F., la quale propone a sua volta ricorso incidentale e deposita memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

1. Col primo motivo del ricorso principale la Chibo s.r.l denunzia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1996, art. 6 della L. n. 300 del 1970, art. 18 nonchè degli artt. 416, 437, 115 e 116 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ., ex art. 360 c.p.c., n. 3 e a conclusione della doglianza pone il seguente quesito di diritto. Dica l’Ecc.ma Corte, allo scopo di dimostrare l’effettività della soppressione del posto di lavoro cui era addetto il dipendente licenziato, se sia richiesto o meno al datore di lavoro, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ovvero se le stesse possano essere diversamente ripartite ed attribuite nell’ambito dell’azienda. In pratica la ricorrente sostiene che a fronte della sua facoltà datoriale di sopprimere il posto di lavoro della F., quale responsabile del laboratorio, non aveva, per contro, il dovere di sopprimere anche le mansioni che la medesima aveva fino ad allora svolto, rientrando legittimamente nei suoi poteri quello di organizzarle diversamente ed affidarle, in modo ripartito, fra altre unità lavorative già presenti all’interno della struttura aziendale. Il motivo è infondato.

Si osserva, infatti, che la Corte d’appello ha condiviso il ragionamento del primo giudice per il quale nella fattispecie non era stata affatto provata la circostanza, posta a fondamento del licenziamento, della soppressione del posto di lavoro occupato dalla F., quale responsabile del laboratorio, così come non era stata dimostrata l’impossibilità di reimpiego della dipendente in mansioni compatibili con la qualifica da lei posseduta.

Invero, dalla sentenza d’appello emerge che all’esito delle prove orali il primo giudice aveva accertato che non era stata confermata la soppressione del posto di lavoro occupato dalla ricorrente, che per tale motivo era stata licenziata, nè delle mansioni dalla medesima espletate, essendo, viceversa, apparsa la ben diversa fattispecie di una revisione del precedente assetto organizzativo con assegnazione ad altri di tali mansioni, al punto che dopo il licenziamento della F. il dipendente M.C. era tornato a svolgere compiti di responsabile di laboratorio.

Pertanto, la tesi societaria, incentrata sulla indicazione della riorganizzazione aziendale quale asserita causa del provvedimento di risoluzione, tesi che è, oltretutto, contestata dalla lavoratrice per l’eccepito mutamento del titolo giustificativo del recesso, non scalfisce l’autonoma “ratio decidendi” dell’impugnata pronunzia, vale a dire la rilevata mancanza di prova del motivo posto a base del provvedimento espulsivo, cioè la comunicata soppressione del posto di responsabile del laboratorio, e non è di per sè sufficiente a giustificare il licenziamento in assenza di prova della possibilità di reimpiego della dipendente in mansioni compatibili con la qualifica dalla medesima posseduta al momento del recesso.

Al riguardo si è, invero, statuito (Cass. sez. lav. n. 12514 del 7/7/2004) che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, L. 15 luglio 1966, n. 604, ex art. 3 è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, con motivazione insufficiente e incompleta, aveva ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo desumendolo dall’avvenuta riorganizzazione delle mansioni affidate al lavoratore licenziato, nell’ambito dell’ufficio cui questi era addetto, attraverso una redistribuzione delle stesse tra il personale occupato nel medesimo ufficio, e comunque da un generale programma di riduzione dei costi aziendali), (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 21282 del 2/10/2006).

2. Col secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1996, art. 6 della L. n. 300 del 1970, art. 18 nonchè degli artt. 416, 437, 115 e 116 c.p.c., in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ., ex art. 360 c.p.c., n. 3 e pone il seguente quesito di diritto: ” Dica l’Ecc.ma Corte, al fine di dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore licenziato a mansioni equivalenti e differenti nell’ambito dell’azienda, se l’onere probatorio possa ritenersi assolto una volta accertato che il lavoratore stesso non abbia dedotto nè allegato alcuna mansione alternativa presente in azienda al momento del licenziamento”. Anche tale motivo, attraverso il quale la società tenta di far ricadere sulla parte lavoratrice l’onere della prova della impossibilità del suo impiego in mansioni alternative e comunque compatibili con la qualifica dalla medesima posseduta al momento del licenziamento, è infondato.

Invero, si è già avuto modo di precisare (Cass. sez. lav. n. 7381 del 26/3/2010) che “in materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo determinati da ragioni inerenti all’attività produttiva, il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento alla capacità professionale del lavoratore ed alla organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento, anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come “extrema ratio”. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte territoriale che, con riferimento ad azienda di grandi dimensioni, aveva ritenuto non assolto dal datore di lavoro l’onere probatorio, sul rilievo delle numerose assunzioni nell’anno seguente a quello del licenziamento, di personale con la medesima qualifica del lavoratore licenziato, e dell’elevato livello di istruzione di questo, che ne consentiva l’utilizzazione in settori diversi da quello in cui era stato precedentemente addetto) (conforme in tal senso anche a Cass. sez. lav. n. 11720 del 20/5/2009).

3. Oggetto del terzo motivo di censura è la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 dell’art. 2697 cod. civ. L. n. 604 del 1966, artt. 5 e 8 dell’art. 1218 c.c., degli artt. 416, 437, 134, 421, 437 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., ex art. 360 c.p.c., n. 3, sostenendosi l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel ritenere applicabile nella fattispecie la disciplina della tutela reale.

Il quesito posto al riguardo è il seguente: “Dica l’Ecc.ma Corte se, in tema di dimostrazione del limite dimensionale prescritto per la tutela reale, sia a carico del lavoratore il relativo onere probatorio; e se, a fronte della produzione in giudizio del libro matricola della società datrice di lavoro, comprovante il mancato superamento del limite dimensionale, debba essere esclusa l’applicabilità della tutela reale sancita dalla L. n. 300 del 1970, art. 18. Anche quest’ultimo motivo è infondato.

Anzitutto, non può sfuggire che nella sentenza d’appello è chiaramente posto in evidenza che nella memoria difensiva di primo grado la società resistente aveva ammesso un requisito dimensionale di 23 dipendenti al momento del licenziamento della F., requisito sceso successivamente a 15 unità lavorative in data 10/12/2002 a seguito di altri licenziamenti e di dimissioni di altri lavoratori. In ogni caso, l’infondatezza della censura discende anche dalla pretesa della società di voler far ricadere sulla lavoratrice licenziata l’onere della prova della sussistenza del requisito dimensionale dell’impresa atto a giustificare l’accesso alla tutela reale pur dopo la pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte che, con sentenza n. 141 del 10/1/2006, hanno chiaramente statuito quanto segue: “In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro.

Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. -che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.

Col ricorso incidentale la F. denunzia, con un primo motivo, la violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132 c.p.c., n. 4, degli artt. 342 e 434 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) dolendosi della mancata pronunzia di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi, nonostante la spiegata eccezione in tal senso.

Secondo la lavoratrice la difesa della società aveva trascurato del tutto di impugnare l’aspetto essenziale della decisione di prime cure ad essa sfavorevole, vale a dire l’accertata insussistenza della soppressione del posto di lavoro come causa giustificativa del disposto recesso, per cui il gravame non si sottraeva alle censure di inammissibilità per mancanza di specificità dei relativi motivi, non essendo sufficienti in tal senso le sole ragioni esposte a sostegno della asserita legittimità del licenziamento. Tale motivo è infondato.

Invero, non è dato ravvisare la denunziata omissione di pronunzia per la semplice ragione che dalla lettura della sentenza emerge che la Corte territoriale non ha affatto ignorato la disamina dell’eccezione di inammissibilità del gravame, tanto da averla espressamente trascritta nelle conclusioni riportate in epigrafe congiuntamente alla richiesta alternativa di rigetto dell’appello, ma l’ha implicitamente disattesa risolvendo nel merito la dibattuta questione della soppressione del posto di lavoro, questione rispetto alla quale la società appellante aveva, comunque, formulato motivi di censura assumendo di aver dato prova dell’esistenza di una tale causa di recesso. Tra l’altro, la sentenza di primo grado faceva perno anche sulla distinta questione della mancanza di prova dell’assolvimento dell’obbligo datoriale di “repechage” della lavoratrice licenziata, questione, questa, che pure era stata fatta oggetto di rilievi da parte dell’appellante società, per cui una decisione nel merito si imponeva in ogni caso. Con un secondo motivo di censura la lavoratrice denunzia la violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132 c.p.c., n. 4, degli artt. 342 e 434 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) sostenendo che la resistente, nel costituirsi nel giudizio di primo grado, non aveva contestato le avverse deduzioni sulla ricorrenza del requisito dimensionale, e che nel giudizio di impugnazione non aveva censurato la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto la tardività e l’inammissibilità dell’eccezione di inoperatività della tutela reale, per cui, a fronte della espressa eccezione di inammissibilità del gravame, la Corte d’appello aveva, invece, finito per omettere di pronunziarsi al riguardo. Anche tale motivo è infondato.

Invero, la Corte d’appello ha dato correttamente rilievo alla circostanza dirimente per la quale la difesa della società convenuta aveva finito per confermare l’avversa deduzione sulla sussistenza del requisito dimensionale nel momento in cui aveva sostenuto, con la stessa memoria di costituzione, che alla data del licenziamento della F. erano occupati 23 dipendenti, per cui sussistevano ampiamente i presupposti affinchè la Corte territoriale addivenisse ad una decisione di merito.

Ne consegue che entrambi i ricorsi vanno rigettati.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza sostanziale della ricorrente principale e vanno poste a suo carico.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3040,00, di cui Euro 3000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2011

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA