Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19588 del 16/09/2010

Cassazione civile sez. lav., 16/09/2010, (ud. 02/07/2010, dep. 16/09/2010), n.19588

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL VIMINALE 43,

presso lo studio dell’avvocato LORENZONI FABIO, che la rappresenta e

difende, giusta procura speciale del 20/07/06, rep. 26581/65786;

– ricorrente –

contro

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE REGINA

MARGHERITA 294, presso lo studio dell’avvocato VALLEFUOCO ANGELO, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati AGOSTINI MICHELE,

MANCINI ROBERTO, VASAPOLLI ROBERTO, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 97/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 29/04/2006 R.G.N. 122/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/07/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato MACRI’ ANGELO F. per delega FABIO LORENZONI;

udito l’Avvocato CATERINA GIUFFRIDA per delega ANGELO VALLEFUOCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 8/2000 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Trento, disattesa l’eccezione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro del 2-11-1998, condannava la Provincia di Trento al risarcimento del danno, pari alle mensilità residue che sarebbero maturate dal licenziamento alla scadenza del termine, in favore di S.G., con il quale era intercorso prima un rapporto di lavoro, con inquadramento al 4^ livello CCPL dal 17-6-1997 al 9-10- 1998 per la sostituzione di una dipendente in maternità e successivamente un rapporto di lavoro dal (OMISSIS), con lo steso inquadramento, avendo il giudice ritenuto nullo il patto di prova apposto a quest’ultimo contratto, stipulato a termine in ragione del vuoto di organico che si era creato a seguito delle dimissioni volontarie di altra dipendente nell’agosto precedente.

Entrambe le parti proponevano appello e la Corte di Appello di Trento, con sentenza n. 288/2000, riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, statuendo la validità del patto di prova apposto al secondo contratto e respingendo tutte le domande dello S..

Sul ricorso dello S. la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5016 del 2004, accoglieva il motivo relativo alla insufficiente motivazione della legittima apposizione del patto di prova con riferimento alla identità/diversità delle mansioni per le quali era stata effettuata la seconda assunzione, riteneva assorbiti nella pronuncia ulteriori profili di censura relativi allo stesso motivo, nonchè il motivo di impugnazione relativo alla illegittimità della stipulazione di un contratto a termine.

Con ricorso del 25-2-2005 lo S. riassumeva il giudizio riproponendo tutte le eccezioni inerenti alla nullità del patto di prova, compresa la contestazione della corrispondenza fra le mansioni a cui era stato adibito e per le quali era stato ritenuto inidoneo e il livello di inquadramento, e riproponendo l’eccezione di nullità del contratto a termine.

La Provincia Autonoma di Trento si costituiva contestando a sua volta in fatto e in diritto gli argomenti svolti a sostegno della domanda.

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza depositata il 29-4-2006, notificata il 31-5-2006, respingeva l’appello principale e incidentale contro la pronuncia di primo grado e compensava per un terzo le spese di tutti i gradi di giudizio, condannando la Provincia Autonoma al pagamento in favore dello S. dei residui due terzi.

In sintesi il giudice di rinvio, confermava sia la nullità del patto di prova del secondo contratto (alla luce dei principi e delle indicazioni della sentenza di questa Corte n. 5016/2004) sia la validità della apposizione del termine apposto al contratto stesso, come affermate da giudice di primo grado.

Per la cassazione di tale sentenza la Provincia Autonoma di Trento ha proposto ricorso con sei motivi, illustrati con memoria.

Lo S. ha resistito con controricorso ed ha concluso per il rigetto del ricorso con conferma integrale della impugnata sentenza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denunciando violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c., deduce che, avendo la sentenza di primo grado espressamente rigettato “ogni altra domanda ed eccezione”, diversa dalla dichiarata illegittimità dell’apposizione del patto di prova, sulla domanda di declaratoria di illegittimità dell’esperimento della prova, per essersi svolto su mansioni ed attribuzioni superiori rispetto a quelle stipulate ex contraete, si era formato il giudicato, in quanto lo S. non aveva reiterato la relativa questione nell’appello incidentale, bensì soltanto nelle “note difensive” contro l’appello principale proposto da essa Provincia Autonoma.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 394 c.p.c., comma 3, deduce che, a fronte della mancata riproposizione in appello della domanda di illegittimità dell’esperimento della prova, come rilevata nel primo motivo, tale domanda in sede di riassunzione dinanzi alla Corte di Brescia doveva ritenersi “nuova” ed esorbitante dal campo del “processo chiuso” delimitato dalla sentenza di rinvio.

I detti motivi (corredati dai relativi quesiti di diritto, ex art. 366 bis c.p.c., applicabile nella fattispecie ratione temporis) risultano per un verso inammissibili e per altro verso infondati.

Osserva in primo luogo il Collegio che, le censure, in realtà, sono rivolte contro una argomentazione ad abundantiam (“A ciò va aggiunto che …”) svolta nell’impugnata sentenza dopo che la Corte di Brescia ha confermato la nullità del patto di prova in base alle considerazioni (da sole sufficienti a sostenere la decisione): che “è da escludere che la stipulazione a tre settimane di distanza dalla cessazione del precedente rapporto durato sedici mesi potesse realmente richiedere una nuova verifica del comportamento e della personalità complessiva del lavoratore”; che “il brevissimo intervallo fra l’uno e l’altro rapporto esclude che possano essere intervenuti significativi fatti nuovi (peraltro nemmeno allegati)”;

che si tratta, in sostanza, “in entrambe le ipotesi di compiti meramente esecutivi e ripetitivi, nel medesimo settore della attività amministrativa, con applicazione di nozioni semplici”.

A parte tale rilievo (che già sarebbe sufficiente a ritenere inammissibili le censure in esame, v. fra le altre Cass. 23-11-2005 n. 24591, Cass. 28-3-2006 n. 7074), non può trascurarsi che, al di là della espressione di stile contenuta nella premessa del dispositivo (“ogni altra domanda ed eccezione rigettata, così provvede: …), la sentenza di primo grado non aveva affrontato la questione della illegittimità dell’esperimento in quanto assorbita dalla nullità del patto di prova. La relativa domanda, poi, era stata anche riproposta dallo S., non solo nelle difese avverso l’appello principale di controparte (come pure sarebbe stato sufficiente ex art. 346 c.p.c.), ma anche nell’appello incidentale (vedi l’espresso richiamo a pagina 22 dello stesso, riportato anche nel controricorso).

Infine la questione è stata anche riproposta con il pregresso ricorso per cassazione (come si evince anche dalla lettura della sentenza rescindente n. 5016/2004) e nessun giudicato al riguardo è stato rilevato in quella sede, laddove (anzi) questa Corte, in particolare, dopo aver affermato che “occorreva stabilire se alla data di stipulazione del secondo contratto di lavoro (novembre 1998) vi fosse effettiva necessità per la datrice di lavoro di verificare le qualità professionali, il comportamento e la personalità complessiva del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione” e che “nessuna indagine sul punto” era stata svolta dalla Corte di Trento, ha precisato che “i giudici di appello avrebbero dovuto innanzi tutto accertare che le nuove mansioni fossero davvero diverse ed ancora che le stesse fossero correttamente da inquadrare nel 4^ livello (ovvero nel livello superiore, come specificato dallo S.)”.

Pertanto è il dictum stesso della sentenza rescindente che esclude la fondatezza della odierna tesi della ricorrente, sviluppata nei primi due motivi.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 42 e falsa applicazione della L.P. n. 7 del 1997, art. 36 e formulando il relativo quesito di diritto, deduce che “nell’ordinamento della Provincia Autonoma di Trento l’inserimento nel contratto di lavoro del patto di prova non è rimesso alla facoltà delle parti, come accade nell’ambito di qualsiasi rapporto privatistico e come consentito ai sensi dell’art. 2069 c.c., ma è invece obbligatorio”, “con norma speciale” “in ragione della particolare tutela riconosciuta agli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione amministrativa sono finalizzati”.

Anche tale motivo non può essere accolto, in quanto la questione (del tutto nuova) esula dai limiti del giudizio di rinvio come sopra dettati dalla sentenza n. 5016/2004.

Del resto la censura risulta anche infondata, giacchè il disposto di cui alla L.P. n. 7 del 1997, art. 42, comma 2, che prescrive che “il contratto individuale deve prevedere l’effettuazione di un periodo di prova”, deve essere comunque inserito nel quadro dei principi fissati dalle “norme del diritto comune del lavoro”, richiamate anche nell’art. 36 della stessa legge provinciale, con la conseguenza che deve, comunque, escludersi la sussistenza dell’obbligo di inserire il patto di prova nel contratto di lavoro quando tale prova non risulti più necessaria in base ai detti principi, riaffermati nella sentenza rescindente.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia “omessa e/o insufficiente motivazione circa la reale diversità delle nuove mansioni assegnate al sig. S.”.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia “contraddittoria e/o insufficiente motivazione circa la qualificazione delle mansioni di protocollazione quali mansioni rientranti nel livello superiore, il 5^”.

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia “contraddittoria motivazione circa l’illegittima apposizione del patto di prova”.

Tali motivi risultano inammissibili perchè sostanzialmente privi dei rispettivi necessari momenti di sintesi (omologhi ai quesiti di diritto) idonei a circoscrivere le rispettive censure, avanzate ex art. 360 c.p.c., n. 5.

L’art. 366 bis c.p.c., infatti, “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, numeri 1, 2, 3 e 4 ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione” (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

In particolare il quesito di diritto “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339), mentre “poichè nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo al quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità” (v. Cass. S.U. 1-10-2007 n. 20603, Cass. 20-2-2008 4309).

Nel caso di specie la ricorrente, in sostanza, con riferimento a tali ultimi tre motivi, ha omesso del tutto di esporre i necessari momenti di sintesi, formulando, invece, soltanto dei generici pretesi “quesiti di diritto “, rivolti alla semplice e scontata affermazione che il “giudice del rinvio deve svolgere con completezza gli apprezzamenti richiesti dalla sentenza di cassazione, pena l’insufficienza di motivazione” (per il 4^ e 5^ motivo), ovvero “deve svolgere con coerenza logica e senza contraddittorietà gli apprezzamenti richiesti dalla sentenza di cassazione pena la contraddittorietà di motivazione” (per il 6^ motivo).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata, in ragione della soccombenza, al pagamento delle spese in favore dello S..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dello S., delle spese liquidate in Euro 61,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 2 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2010

 

 

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