Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19578 del 19/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 19/07/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 19/07/2019), n.19578

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2372/2018 proposto da:

AZIENDA MOBILITA’ & TRASPORTI S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO PUGLIESE;

– ricorrente –

contro

B.I., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato ERNESTO ROGNONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 470/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 06/11/2017 R.G.N. 41/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

14/05/2019 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del secondo

motivo del ricorso;

udito l’avvocato LEONARDO VESCI per delega verbale avvocato GERARDO

VESCI e avvocato PAOLO PUGLIESE;

udito l’avvocato ERNESTO ROGNONI.

Fatto

Con sentenza del 6 novembre 2017, la Corte d’appello di Genova annullava la destituzione emessa il 27 luglio 2015 dall’Azienda Mobilità e Trasporti (A.M.T.) s.p.a. nei confronti di B.I., propria dipendente dal 3 giugno 2000 con qualifica di operatrice di ex VI livello e mansioni di autista, condannava la società datrice alla sua reintegrazione e al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione ed interessi, nonchè al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal licenziamento all’effettiva reintegrazione: così riformando la sentenza di primo grado, di rigetto dell’opposizione della lavoratrice avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale, che aveva negato la giusta causa del licenziamento, ma dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra le parti con effetto dalla data del licenziamento e condannato la società a corrisponderle un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Preliminarmente esclusa l’ammissibilità, per mancata produzione di idonea procura speciale, della querela di falso proposta in riferimento ai certificati medici relativi alla malattia dei figli della lavoratrice, pure irrilevante l’eventuale loro falsità ai fini decisori per estraneità della circostanza ai fatti disciplinari contestati dalla datrice, la Corte territoriale ravvisava il rispetto del diritto di difesa di B.I., avendo ella presentato giustificazioni scritte alla lettera di contestazione del 17 luglio 2015, senza ulteriormente insistere nella richiesta di audizione personale, inizialmente proposta con assistenza di difensore, correttamente respinta.

Nel merito, la Corte ligure, pure ravvisando l’utilizzabilità degli accertamenti investigativi disposti da A.M.T., riteneva non provata la contestata assenza di uno stato di malattia, benchè certificato, tale da ostare alla prestazione di attività lavorativa; e invece provata l’inosservanza, parimenti contestata, dell’obbligo di rispetto delle fasce di reperibilità. Ma escludeva che essa integrasse alcuna delle ipotesi, debitamente scrutinate, di destituzione del R.D. n. 148 del 1931, art. 45, piuttosto ritenendola meno grave di quelle sanzionate in via conservativa dall’art. 42 R.D. cit. con la sospensione: sicchè, riconduceva la fattispecie all’ambito della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, novellato dalla L. n. 92 del 2012, applicando la tutela reintegratoria in forma attenuata, con liquidazione dell’indennità in misura massima, considerato il tempo trascorso dalla destituzione, pertanto annullata. Con atto notificato l’11 gennaio 2018 A.M.T. s.p.a. ricorreva per cassazione con due motivi, cui la lavoratrice resisteva con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce omessa motivazione su punto decisivo della controversia, con violazione connessa dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per motivazione perplessa e dell’art. 2104 c.c., R.D. n. 148 del 1931, art. 45, in relazione al mancato accoglimento del reclamo incidentale di A.M.T. s.p.a., per omesso esame in particolare: a) della coincidenza temporale, con il periodo feriale degli anni precedenti, delle presunte malattie da cui la lavoratrice era stata attinta in vacanza al mare all’isola di (OMISSIS) con i figli, potendo fruire soltanto di pochi giorni di permesso avendo consumato le ferie; b) del regime di permesso goduto dalla medesima all’esordio della malattia; c) del dato logistico di impossibilità, in soli due giorni, di un trasferimento da (OMISSIS) a (OMISSIS), nonchè della falsità delle certificazioni della malattia dei bambini portati con sè in vacanza. E la società datrice argomenta come tutte le superiori circostanze deponessero nel senso di una condotta fraudolenta della lavoratrice, la cui ritenuta insussistenza non era stata oggetto di adeguata motivazione, piuttosto integrante violazione delle norme di legge denunciate.

2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, in relazione al R.D. n. 148 del 1931, artt. 45 e 42, con la connessa violazione dell’art. 132 c.p.c., per motivazione contraddittoria e perplessa in riferimento alla forzata applicazione della tutela reintegratoria attenuata, per l’inclusione di una fattispecie, neppure specificamente sanzionata in via conservativa dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, novellato dalla L. n. 92 del 2012, a fronte di un regime di tutela reintegratoria ormai residuale.

3. Il primo motivo, relativo ad omessa motivazione con connessa violazione delle norme di diritto suindicate per motivazione perplessa e per illegittimità del recesso di A.M.T. s.p.a., è inammissibile.

3.1. Non ricorre infatti il vizio di motivazione, per la preliminare constatazione di assenza della deduzione di un fatto storico: tanto meno decisivo, per la pluralità delle concorrenti circostanze prospettata, nessuna delle quali ex se decisiva (Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625).

In realtà, il motivo involge piuttosto la rivalutazione critica nel merito del comportamento della lavoratrice, sicchè eccede l’ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, al quale è in particolare estraneo l’esame delle risultanze istruttorie (Cass. s.u. 7 aprile 2014 n. 8053; Cass. s.u. 22 settembre 2014 n. 19881; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439). E alla fine, esso ridonda in una contestazione dell’accertamento di fatto della Corte territoriale, pure congruamente argomentato (in particolare dal primo capoverso di pg. 16 al penultimo di pg. 21 della sentenza), sollecitandone un riesame del merito, indeferibile in sede di legittimità.

3.2. Tanto meno si configura, sempre alla luce del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittorietà nè insufficienza motivazionale della sentenza, restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6. Esso è peraltro individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza), certamente non ricorrenti, di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”. Al di fuori di esse, il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940), già escluso per le ragioni esposte.

3.3. Infine, neppure ricorre nel caso di specie una violazione dell’obbligo di motivazione, sotto il profilo di inidoneità assoluta alla funzione specifica di esplicitazione delle ragioni della decisione (per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure per tenore perplesso ed obiettivamente incomprensibile), che realizza una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. 25 settembre 2018, n. 22598).

4. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione delle norme di diritto e vizio motivo suindicati per la forzata applicazione della tutela reintegratoria attenuata, è invece fondato.

4.1. Per un più chiaro esame della questione devoluta, giova ancora una volta sottolineare come il giudizio di impugnazione del licenziamento introdotto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, lett. b), sia articolato in una scansione bifasica, che prevede una prima fase di qualificazione della fattispecie (ossia di accertamento di legittimità o di illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di una seconda di selezione del regime di tutela, se indennitaria ovvero reintegratoria. E ribadire poi quale in questa seconda, eventuale (cui il giudice accede solo in caso di illegittimità del licenziamento) e comunque distinta, sia il corretto ambito di esercizio del potere giudiziale nella selezione della tutela, al cospetto di previsioni sanzionatorie conservative contenute nei contratti collettivi ovvero nei codici disciplinari applicabili.

Si comprende allora l’importanza di tenere separati i due suddetti piani di valutazione, in ragione della diversa autonomia del giudice proprio in riferimento alle previsioni sanzionatorie delle parti sociali.

4.2. E così, da sempre si ritiene che, nell’accertamento della sussistenza o meno della giusta causa (prima fase di giudizio nel testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, qui applicabile ratione temporis), il giudice non sia vincolato dalla tipizzazione contrattuale collettiva di “giusta causa”, in quanto nozione legale, ben potendo far riferimento alle valutazioni delle parti sociali di gravità di determinate condotte come espressive di criteri di normalità (Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906; Cass. 4 aprile 2017, n. 8718, in motivazione), dovendo appunto “tenerne conto”, anche a norma della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3; e con il solo limite che, ove un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, esso non possa formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice (Cass. 17 giugno 2011, n. 13353; Cass. 7 maggio 2015, n. 9223).

E’ in questa fase che deve essere compiuto un accertamento in concreto, oltre che della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, sia quando si riscontri l’astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, sia a maggior ragione ove manchi una precisa corrispondenza tra i fatti addebitati e le specifiche ipotesi esemplificative elencate dal contratto collettivo, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa (Cass. 4 marzo 2013, n. 5280).

4.3. Ben diverso è invece l’ambito di autonomia giudiziale nella selezione della tutela (seconda fase del giudizio, qui appunto in questione), rispetto alle previsioni sanzionatorie conservative contrattuali collettive: in funzione dell’applicazione di un regime di reintegrazione attenuata (art. 18, comma 4 L. cit.) ovvero indennitario c.d. forte (art. 18, comma 5 L. cit.).

Secondo il più recente ed ormai consolidato indirizzo di questa Corte, cui deve essere data continuità, la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra poi nell’art. 18, comma 4, solo nell’ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Ma al di fuori di tale caso, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l’art. 18, comma 5, prevede la tutela indennitaria c.d. forte: avendo la novella del 2012 introdotto una graduazione delle ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva dettata da motivi disciplinari, facendo corrispondere a quelle di maggiore evidenza la sanzione della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria alla ipotesi del difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto collettivo (Cass. 25 maggio 2017, n. 13178, in motivazione; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25534; Cass. 14 dicembre 2018, n. 32500, in motivazione).

Una tale interpretazione è coerente con la lettera dell’art. 18, comma 4, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l’eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria (da ritenersi espressione, secondo la volontà del legislatore, di “una valenza di carattere generale”: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in specifico riferimento alla c.d. tutela indennitaria forte, prevista dal citato art. 18, comma 5) nonchè, dal punto di vista sistematico, in quanto violerebbe la chiara ratio nel nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore (Cass. 9 maggio 2019, n. 12365).

Anche a superamento di un iniziale precedente di questa Corte, aperto ad una valutazione di proporzionalità anche nella selezione della tutela al cospetto di previsioni sanzionatorie collettive, neppure particolarmente argomentato (“Considerato che il contratto collettivo parifica all’insubordinazione grave, giustificativa del licenziamento, gravi reati accertati in sede penale… si deve ritenere rispettosa del principio di proporzione la decisione… che non ha riportato il comportamento in questione, certamente illecito, alla più grave delle sanzioni disciplinari”: Cass. 11 febbraio 2015, n. 2692), richiamato pure dalla sentenza della Corte territoriale (a sostegno della propria autonomia interpretativa nell’ambito in esame: ai primi due capoversi di pg. 23 della sentenza), il più recente arresto citato ha chiarito quale debba essere la latitudine interpretativa della nuova disciplina dell’art. 18, comma 4. E ha puntualizzato come vi sia spazio per un’interpretazione estensiva, in linea generale consentita ai sensi dell’art. 1365 c.c., al riguardo precisando, per richiamo, la sua praticabilità solo ove risulti l'”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione: in tale ipotesi, dovendo l’interprete tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare la possibilità di ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi in essa non contemplate, attenendosi nel compimento di tale operazione ermeneutica al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma (Cass. 13 aprile 2017, n. 9560). E ha quindi evidenziato come la suddetta verifica debba essere eseguita con particolare severità in un contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente; così escludendo un’apertura all’analogia o a un’interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati, che produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto (Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, cit.).

4.4. Ebbene, il percorso decisionale della Corte ligure, pure attento e criticamente argomentato, ha tuttavia disatteso i suenunciati principi di diritto.

Ed infatti, dopo avere escluso (per le ragioni esposte a pgg. 24 e 25 della sentenza) la ricorrenza di alcuna delle ipotesi, debitamente scrutinate, di destituzione del R.D. n. 148 del 1931, art. 45, essa ha ritenuto che l’infrazione disciplinare contestata da A.M.T. s.p.a. alla propria dipendente, di inosservanza delle fasce di reperibilità, sia pure non tassativamente prevista, potesse essere inclusa (per le ragioni esposte dal primo capoverso di pg. 26 all’ultimo di pg. 27 della sentenza) in una delle ipotesi di condotta punibile con la sanzione conservativa della sospensione, a norma dell’art. 42 R.D. cit.: in particolare in quella sub p.to 7 (simulazione di malattia o per sotterfugi diretti a sottrarsi all’obbligo del servizio) o in quella sub p.to 8 (assenze arbitrarie di durata maggiore di un giorno e non superiore a cinque), così applicando la tutela reintegratoria attenuata prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 (nel testo novellato dalla L. n. 92 del 2012).

A ciò la Corte territoriale è pervenuta in esito ad una stima di minor gravità dell’ipotesi disciplinare contestata rispetto a quelle per le quali la normativa contrattuale ha stabilito la sanzione conservativa, “attraverso il riferimento alle esemplificazioni contenute nella contrattazione collettiva”, recuperando “un certo margine di apprezzamento circa la gravità del fatto e, di conseguenza, la proporzionalità ex art. 2106 c.c., della sanzione” (così al primo capoverso di pg. 23 della sentenza). Ossia, proprio operando quella valutazione di (non) proporzionalità preclusa, come più sopra illustrato, nella fase di selezione della tutela, al di fuori della stretta interpretazione delle ipotesi tipizzate cui rimanda l’art. 18, comma 4, non utilizzabili in via esemplificativa, come invece possibile nella prima fase del giudizio, di qualificazione della fattispecie.

Sicchè, in tale caso la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l’art. 18, comma 5, prevede la tutela indennitaria c.d. forte: come ritenuto dal Tribunale.

5. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, inammissibile il primo, con la cassazione della sentenza e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte

accoglie il secondo motivo di ricorso, inammissibile il primo; cassa la sentenza, in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2019

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