Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19570 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. II, 18/09/2020, (ud. 20/02/2020, dep. 18/09/2020), n.19570

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19856/2016 proposto da:

G.P., rappresentata e difesa dagli Avvocati GIUSTINO

MASSARO, e CLAUDIO STEFANO TANI, ed elettivamente domiciliata presso

lo studio dell’Avv. Renato Della Bella, in ROMA, V.LE di VILLA

MASSIMO 36;

– ricorrente e controricorrente all’incidentale –

contro

INIZIATIVE IMMOBILIARI PLEBISCITI s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore Ga.Fa., rappresentata e difesa

dall’Avvocato CRISTINA MERCOGLIANO, ed elettivamente domiciliata

presso il suo studio in ROMA, VIA CLAUDIO MONTEVERDI 16;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1236/2016 della CORTE d’APPELLO di MILANO,

depositata in data 31/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/02/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 17.12.2008, G.P., proprietaria di un immobile a uso abitazione, sito in (OMISSIS), conveniva in giudizio INIZIATIVE IMMOBILIARI PLEBISCITI s.r.l., proprietaria del fabbricato confinante, al fine di sentir accertare e dichiarare l’intervenuta violazione delle norme in materia di distanze legali da parte di quest’ultima, che aveva proceduto all’abbattimento e alla ricostruzione del proprio immobile (realizzando un condominio a più piani con autorimesse su tre piani fuori terra), senza il rispetto della distanza minima prevista dall’art. 873 c.c.. L’attrice deduceva che, al momento dell’acquisto nel 1988, il proprio appartamento risultava già dotato di una finestra al primo piano, mentre ella aveva provveduto a ripristinare l’apertura di una finestra al piano terra che, sebbene preesistente, era stata chiusa dal precedente proprietario (entrambe le aperture erano affacciate sul terreno di proprietà della convenuta). In particolare, l’attrice chiedeva la condanna della società convenuta al ripristino dello status quo ante e la condanna della medesima al risarcimento dei danni consistenti nella riduzione di aria e di luce nei locali di sua proprietà, in fenomeni di infiltrazioni e nello sfondamento del muro di sua pertinenza.

Si costituiva in giudizio Iniziative Immobiliari Plebisciti s.r.l. contestando gli assunti dell’attrice e affermando di avere rispettato la normativa dettata in tema di distanze legali, in quanto riteneva di avere costruito il nuovo stabile in aderenza alla parete di proprietà della G..

In data 15.5.2009 l’attrice proponeva ricorso ai sensi dell’art. 1170 c.c., al fine di ottenere la riduzione in pristino delle proprie aperture, lamentandone l’illegittima chiusura da parte della convenuta il 15.3.2009 (pochi giorni prima della costituzione in giudizio). Il ricorso veniva accolto.

Esperita CTU, con sentenza n. 46/2014, depositata in data 3.1.2014, il Tribunale di Milano dichiarava che la costruzione realizzata dalla convenuta fosse stata eretta in violazione della distanza minima prevista dall’art. 873 c.c.; condannava quest’ultima ad arretrare la propria costruzione alla distanza di almeno 3 metri dall’immobile dell’attrice; condannava la convenuta al pagamento delle spese di lite e di CTU.

Contro detta sentenza proponeva appello Iniziative Immobiliari Plebisciti s.r.l. chiedendo la riforma della sentenza di primo grado. Si costituiva in giudizio la G. che chiedeva il rigetto dell’appello.

Con sentenza n. 1236/2016, depositata in data 31.3.2016, la Corte d’Appello di Milano rigettava le domande della G.; dichiarava il diritto di Iniziative Immobiliari Plebisciti s.r.l. di chiudere ex art. 877 c.c., le due aperture esistenti sul muro perimetrale dell’immobile di proprietà della G. e posto al confine con la proprietà della suddetta società; compensava le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione G.P. sulla base di un motivo, illustrato da memoria; resiste la Iniziative Immobiliari con controricorso, proponendo da parte sua ricorso incidentale sulla base di un motivo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il motivo di ricorso principale, la ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 873,874,875 e 877 c.c. e dei principi vigenti in materia (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa e/o contraddittoria e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”, poichè secondo la Corte d’Appello non sussistono le violazioni in materia di distanze in quanto la costruzione realizzata dalla società resistente era in aderenza alla proprietà della ricorrente. La ricorrente sottolinea che il proprietario del fondo confinante al muro altrui può costruire sul confine, in aderenza al muro altrui, senza appoggiarsi a questo e senza doverne chiedere la comunione forzosa solo se l’edificio combaci perfettamente da almeno un lato con altro edificio preesistente, restandone autonomo dal punto di vista strutturale e funzionale (Cass. n. 4549 del 1982). Nella fattispecie, invece, tale requisito non sarebbe stato soddisfatto in assenza di alcuna perizia o documentazione che potesse confermare l’autonomia strutturale del manufatto edificato dalla resistente. Pertanto, la dipendenza strutturale induceva a ritenere trattarsi di una costruzione “in appoggio” e non in aderenza, trovando applicazione l’art. 874 c.c.. Inoltre, la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto del principio di prevenzione temporale in materia di distanze legali, per cui il proprietario che costruisce per primo determina le distanze da osservare per le altre costruzioni da realizzare sui fondi vicini e ciò proprio per evitare la costruzione di spazi angusti o di insalubri intercapedini che possano rivelarsi nocive per la salute, l’igiene e la sicurezza (Cass. se. un. 10318 del 2016). Pacifico essendo che la costruzione precedente fosse quella della ricorrente, la società resistente nell’edificare doveva mantenere una distanza di 3 metri dalla proprietà G. o chiedere la comunione forzosa del muro o costruire in aderenza.

1.1. – Il motivo, con riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile.

1.1.1. – Va posto in rilievo che la denuncia di “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, non è più riconducibile al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 31 marzo 2016.

Il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non v’è specifica adeguata indicazione.

1.1.2. – Laddove, poi, va aggiunto che è altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014); così per risolvere per sostenere e il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico), o per lamentarsi di una motivazione non corretta (Cass. n. 27415 del 2018); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

1.2. – Con riguardo alla censura di violazione o falsa applicazione di legge, il motivo non è fondato.

1.2.1. – Va premesso che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, come detto, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attingono all’apprezzamento delle risultanze istruttorie motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

1.2.2. – Orbene, la Corte territoriale osservava che la G. non aveva il diritto di opporsi alla costruzione di un edificio in aderenza al proprio muro perimetrale. Infatti, dagli atti di causa si desumeva che l’apertura posta nella parete perimetrale dell’edificio della G. – già all’epoca della causa iniziata nel 1997 dalla confinante Bocchi s.r.l., precedente proprietaria dell’immobile divenuto di proprietà dell’appellante si presentava chiusa da inferriata (più ampia rispetto a quella prevista dall’art. 901 c.c.), con un vetro satinato e il davanzale posto a un’altezza di circa 178 cm rispetto al pavimento, per cui essa costituiva una “luce irregolare”, in relazione alla quale la giurisprudenza esclude la possibilità di un acquisto a titolo originario di una servitù di aria e luce, ammettendo la possibilità di una sua costituzione in virtù di accordo tra le parti. La controversia si era conclusa con la transazione del 1998, nella quale però non era prevista la costituzione di una servitù di aria e luce a favore dell’immobile della G., ma il mantenimento dell’apertura stessa era consentito a condizione che essa fosse adeguata ai requisiti di cui all’art. 901 c.c. e senza rinuncia da parte del proprietario confinante a ulteriori facoltà, quale quella di costruire in aderenza. Inoltre, la Corte di merito riteneva che la veduta al primo piano fosse stata realizzata abusivamente dall’appellata (in assenza di convenzione tra proprietari confinanti) senza il rispetto della distanza minima di un metro e mezzo prevista dall’art. 905 c.c.. Infine, secondo la Corte d’Appello non sussisteva una intercapedine a confine con il fabbricato dell’appellata, ma una parete costruita in aderenza, che costituiva parte strutturale dell’edificio realizzato dall’appellante.

1.2.3. – La motivazione del Giudice di secondo grado risulta chiara, completa e precisa. La sentenza impugnata, dopo aver escluso la costituzione di alcuna servitù di luce a favore della G., evidenziava che la presenza di una “luce irregolare”, in violazione dell’art. 901 c.c., o comunque l’apertura come luce, legittimasse la costruzione in aderenza del muro confinante (venendo dunque meno la valenza del principio di prevenzione).

La Corte d’Appello chiariva, altresì, come anche l’apertura al primo piano fosse da ritenere irregolare, in assenza di titolo autorizzativo comunale o accordo privato. Inoltre, come stabilito dal CTU in primo grado, il muro realizzato dalla società resistente veniva definito come in aderenza.

1.2.4. – Costituisce principio consolidato di questa Corte quello secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 6368 del 2019; Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di appello sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

1.2.5. – Inoltre, va rilevato che, in sostanza, la censura si risolve altresì nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

2. – Con il motivo di ricorso incidentale, la Iniziative Immobiliari Plebisciti s.r.l. lamenta la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 91,92 e 96 c.p.c., per avere la Corte territoriale compensato le spese di lite del primo e del secondo grado pur avendo la sentenza di appello accolto integralmente tutti i motivi di appello”. La ricorrente principale rileva che è nulla la sentenza con cui il Giudice di merito decide di compensare le spese motivando la scelta con generici riferimenti “alla natura della controversia” e “qualità delle parti”; i giusti motivi a fondamento della compensazione delle spese devono essere sostenuti da un adeguato supporto motivazionale, mentre nella fattispecie le motivazioni della sentenza impugnata non contengono alcuna motivazione giuridica o di fatto, ma mere considerazioni generiche.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di chiarire che l’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui (oltre al caso della reciproca soccombenza) permette la compensazione delle spese di lite, costituisce una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da precisare ed integrare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche (Cass., sez. un. 2572 del 2012; conf. Cass. n. 18276 del 2015).

Con riferimento a fattispecie rientrante ratione tempons nell’alveo applicativo dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, let. a), (trattandosi di giudizio instaurato citazione del 17.2.2008) la norma disponeva che il giudice potesse compensare le spese, in tutto o in parte, se vi fosse soccombenza reciproca o concorressero altri giusti motivi e richiedendo che tali motivi fossero indicati nella motivazione (Cass. n. 4234 del 2014). Richiamando il consolidato orientamento espresso sull’art. 92 c.p.c., nel testo posteriore alla riforma del 2005 ed anteriore a quella del 2009, questa Corte ha anche precisato che rientrava nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, in presenza di determinate condizioni, le spese di lite, espressamente indicate in motivazione (cfr., oltre a Cass. sez. un. 2572 del 2012, Cass. n. 3576 del 2014; Cass. n. 15413 del 2011; Cass. n. 21521 del 2010).

Nella specie, la scelta compiuta attraverso la compensazione delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio è stata esplicitamente giustificata dalla Corte di appello attraverso la sottolineatura di quella che è stata la peculiare connotazione della vicenda esaminata. La Corte distrettuale ha osservato che, seppure l’esito della controversia ha visto soccombente l’attrice, ciò nondimeno, valutando il comportamento complessivo delle parti – la causa era stata instaurata anche per ottenere il risarcimento del danno conseguente all’abbattimento, durante i lavori di costruzione dell’edificio confinante, di un muro della sua proprietà immobiliare, domanda in seguito rinunciata per accordo tra le parti (con risarcimento corrisposto alla attrice), e comunque la parete a confine era stata realizzata dalla società convenuta a causa già iniziata, in base ad un progetto edilizio che la controparte ben poteva ignorare – ha ritenuto (e motivato) la sussistenza di sufficienti ragioni per compensare le spese.

Considerato, dunque, che si tratta, pur sempre, dell’esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito, l’unico sindacato ammesso in sede di legittimità – una volta rispettato il precetto normativo dell’indicazione esplicita delle ragioni di compensazione – concerne la sussistenza della motivazione, effettiva e non apparente, che dunque non si è tradotta in una mera formula di stile lesiva del precetto di legge, non potendo questa Corte sostituirsi al giudice di merito nell’apprezzamento relativo alla gravità ed all’eccezionalità delle ragioni addotte, che resta comunque a lui riservato. Nel caso di specie, la motivazione, attraverso il riferimento alla peculiarità della vicenda ed alla qualità delle parti (come desumibili dallo stesso svolgimento del processo), dà sufficientemente conto delle specifiche circostanze e degli aspetti della controversia decisa, non smentiti – in punto di fatto – in modo adeguato dalla ricorrente, i quali da un punto di vista logico ben possono assumere una significativa rilevanza ai fini del regolamento delle spese (cfr. Cass. sez. un. 29598 del 2009).

3. – Il ricorso principale e quello incidentale vanno dunque, rigettati. Stante la reciproca soccombenza le spese vanno integralmente compensate tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per ciascuna delle parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, ciascuno, dell’ulteriore importo titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

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