Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19560 del 30/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 30/09/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 30/09/2016), n.19560

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27019-2013 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato FRANCO RAIMONDO

BOCCIA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ADRIANA

CALABRESE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 36, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO

AFELTRA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI

ZEZZA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 111/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 29/05/2013 R.G.N. 2570/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2016 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

udito l’Avvocato SOZZI CARLO per delega verbale Avvocato BOCCIA

FRANCO RAIMONDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale con cui era stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa comminato da Poste Italiane a S.M. con ordine di reintegra e risarcimento del danno.

Poste con lettera del 4 maggio 2009 aveva contestato alla lavoratrice che in data 10 aprile 2009, utilizzando la sua password personale, aveva apportato una variazione nei sistemi AP provvedendo ad annullare l’informazione precedente inserita dal Punto Amministrativo regionale risultando in tal modo autorizzata ad usufruire delle detrazioni fiscali; che nella medesima data alle ore 13,51 la lavoratrice era intervenuta nuovamente nel sistema aziendale ed aveva ripristinato l’informazione precedente.

La Corte territoriale ha rilevato che l’operazione posta in essere dalla lavoratrice riguardava il blocco delle agevolazioni fiscali per carichi di famiglia scattato a seguito della mancata presentazione da parte della stessa entro il 31 marzo 2009 della richiesta di detrazioni fiscali; che tuttavia non era contestato che la S. non avrebbe potuto beneficiare della detrazione fiscale in oggetto non avendo carichi familiari dovendosi in tal modo escludere che l’operazione posta in essere dalla lavoratrice potesse avere la finalità di usufruire indebitamente di una detrazione fiscale,come contestato dalla società.

La Corte ha altresì precisato che l’operazione era stata effettuata dalla lavoratrice senza nessuna forzatura del sistema, ma semplicemente usando le proprie credenziali personali ed effettuando un’operazione tracciabile dal sistema informatico.

Secondo la Corte inoltre, non potendo la lavoratrice beneficiare della detrazione fiscale per carichi di famiglia ed essendo la detrazione per lavoro dipendente dovuta per legge, non era provata la finalità illecita dell’operazione posta in essere dalla S. e ciò portava a ritenere fondata la versione offerta dalla lavoratrice di aver effettuato una mera verifica con esclusione di qualsiasi intento fraudolento.

La Corte territoriale ha osservato inoltre che l’art. 55, ai sensi del quale era stato intimato il licenziamento, stabiliva che l’entità dei provvedimenti disciplinari doveva essere determinata in relazione alla intenzionalità del comportamento.

Secondo la Corte, pur essendo la condotta della lavoratrice censurabile, non poteva essere sanzionata con il licenziamento che non appariva proporzionato ai fatti contestati; che infatti l’articolo 56, comma 6, lett. K, invocato da Poste, prevedeva la più grave delle sanzioni per il caso di fatti o atti dolosi anche nei confronti di terzi tali da non consentire la prosecuzione del rapporto e che la sospensione dal servizio per 10 giorni era prevista per il compimento in servizio di atti dai quali sia derivato un vantaggio per sè e danno per la società se non altrimenti sanzionabile in caso di particolare gravità.

Avverso la sentenza ricorre Poste con tre motivi. Resiste la S.. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione circa un punto decisivo.

Osserva che secondo la Corte l’intervento della lavoratrice avrebbe riguardato solo il blocco delle agevolazioni fiscali per carichi di famiglia. In realtà l’intervento incideva anche sulle detrazioni fiscali per lavoro dipendente per il 2009 e dunque la Corte non aveva valutato l’intento fraudolento con riguardo alle altre detrazioni da lavoro dipendente.

Censura l’affermazione della Corte secondo cui il blocco per le detrazioni fiscali non aveva ragione d’essere in quanto comunque dovute per legge senza considerare che tali detrazioni erano dovute a condizione che il lavoratore ne richiedesse l’attribuzione per l’anno 2009 entro il 31 marzo 2009 con la conseguenza che sussisteva l’interesse della lavoratrice a rimuovere il blocco che avrebbe consentito di godere delle detrazioni a prescindere se ne avesse diritto o meno.

Denuncia la sentenza per vizio di motivazione e violazione degli artt. 2104 e 2105 c.c. anche nella parte in cui aveva ritenuto l’insussistenza di forzatura del sistema informatico. Rileva infatti che Poste aveva contestato alla lavoratrice di aver utilizzato la password personale per inserirsi abusivamente nel sistema utilizzando in modo improprio tali mezzi in sua dotazione.

Denuncia vizio di motivazione e violazione degli artt. 2104 e 2105 c.c. rilevando, con riferimento all’affermazione della tempestività con cui la lavoratrice era stata scoperta quale indice della mancanza di un intento fraudolento, che ciò poteva essere conseguenza della circostanza che la S. aveva appreso che la sua operazione era stata tracciata.

Censura la sentenza per vizio di motivazione e violazione degli artt. 2119, 2104 e 2105 c.c. per aver ritenuto attendibile la versione dei fatti offerta dalla lavoratrice secondo la quale era entrata nel sistema per effettuare una verifica. Osserva che anche tale circostanza era disciplinarmente rilevante; che non avendo carichi di famiglia ella non aveva nulla da temere dal blocco delle detrazioni; che la verifica l’avrebbe potuta effettuare sulla base delle buste paga; che il suo diritto alle detrazioni fiscali era subordinato alla domanda.

Denuncia violazione dell’art. 2727 c.c. in quanto gli elementi probatori potevano essere interpretati in più modi.

Censura l’affermata mancanza di proporzionalità richiamando l’art. 56, 6, lett. a) in base al quale era previsto il licenziamento disciplinare per illecito uso di beni di pertinenza della società o ad essa affidati ravvisando tale fattispecie nel fatto contestato per l’illecito uso del sistema informatico.

2) Con il secondo motivo censura la decisione del la Corte per aver omesso di motivare circa la richiesta di trasformazione del licenziamento da giusta causa in giustificato motivo soggettivo; la Corte aveva trascurato il riferimento all’art. 56, 5, lett. C) che prevedeva il licenziamento con preavviso per irregolarità, trascuratezza o negligenza.

3) con il terzo motivo denuncia vizio di motivazione per infondatezza del ricorso ai sensi dell’art. 2697 c.c..

I motivi, congiuntamente esaminati, stante la loro connessione1sono infondati.

Va premesso che i motivi di ricorso recano commistione di censure aventi ad oggetto violazioni di legge e vizio di motivazione recanti unica illustrazione e confondono i profili del vizio logico della motivazione e dell’errore di diritto. Al riguardo, va rilevato che la violazione o falsa applicazione di legge presuppone un’errata interpretazione da parte del giudice della norma che regola la fattispecie astratta corrispondente a quella concreta sottoposta alla sua attenzione, ma nel caso in esame la parte sostanzialmente si lamenta non della violazione della legge da parte della sentenza impugnata, ma della motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria circa aspetti fattuali dai quali -secondo le prospettazioni attoree – emergerebbe una rilevante violazione disciplinare da parte della lavoratrice.

Va, altresì, rilevato,quanto alle censure di cui al vizio di motivazione,che la sentenza impugnata è stata depositata dopo l’11 settembre del 2012 e pertanto al ricorso per cassazione è applicabile, quanto all’anomalia motivazionale, l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012. Anche prima della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, costituiva consolidato insegnamento che fosse sempre vietato invocare in sede di legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè non ha la Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162;Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197).

Pertanto non può essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla Corte territoriale, essendo la valutazione di tali risultanze – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260).

Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. In questo contesto, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; mentre in ogni caso, la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso. Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti. E a dir poco evidente che, nella fattispecie, una ricostruzione del fatto pienamente sussiste e che la decisione non è affetta dai vizi appena indicati come soli ormai rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’attuale formulazione.

Va rilevato, infatti, che la Corte territoriale ha ricostruito in modo logico e coerente i fatti addebitati alla lavoratrice.

La Corte ha, in primo luogo, sottolineato che “non appare contestabile che l’operazione posta in essere dalla sig.ra S. riguardasse il blocco delle agevolazioni fiscali per carichi di famiglia scattata a seguito della mancata presentazione entro il 31/3/2009 della richiesta di detrazioni fiscali così come comunicato dal Coordinatore Punto Amministrativo Lombardia (cfr doc 1 convenuta)”. A riguardo la Corte ha escluso un intento fraudolento nel comportamento della lavoratrice essendo pacifico che la S. non avesse familiari a carico come risultante anche dalle buste paga.

Con riferimento alle detrazioni per lavoro dipendente la Corte ha, invece, rilevato che queste erano dovute per legge anche in conformità a quanto previsto dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate e che, dunque, anche sotto tale profilo non era ravvisabile un intento fraudolento nel comportamento della lavoratrice.

E’ priva, pertanto, di fondamento la censura di omessa motivazione con riguardo alle detrazioni fiscali per lavoro dipendente e, comunque, manca nel ricorso una specifica indicazione dei concreti vantaggi che la lavoratrice avrebbe potuto conseguire con il suo comportamento.

In relazione alle ulteriori censure formulate dalla ricorrente in ordine all’affermata esclusione di un intento fraudolento con conseguente ridimensionamento della gravità della condotta posta in essere,deve rilevarsi che il giudice ha dato completa e congrua motivazione circa l’esclusione di tale intento e le deduzioni poste a fondamento dei motivi in esame costituiscono solo una inammissibile rivisitazione del merito, non possibile nel giudizio di legittimità.

Infine, in riferimento alla mancanza di proporzionalità tra il fatto contestato e la sanzione irrogata la decisione della Corte territoriale si basa su una consolidata ricostruzione giurisprudenziale della nozione di giusta causa nell’ambito del licenziamento disciplinare, in base alla quale, trattandosi dell’applicazione di un concetto indeterminato, l’accertamento deve essere svolto in base agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali tipo di mansioni affidate al lavoratore, il carattere doloso o colposo dell’infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell’illecito, il disvalore ambientale della condotta quale modello diseducativo per gli altri dipendenti.

Esclusi i profili di ricostruzione del fatto proposti dalla parte ricorrente (che appartengono all’area del giudizio di fatto ed esulano dall’ambito di valutazione di questa Corte), la qualificazione giuridica dei fatti e, nella specie, il giudizio di esclusione dei fatti contestati nell’ambito della clausola generale della giusta causa è stato, dunque, effettuato dalla Corte territoriale in sintonia con i principi elaborati da questa Corte. Nè le censure illustrate dalla parte ricorrente sono idonee a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo, applicabile ratione temporis, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), vizio che deve compendiarsi – come chiarito dalle Sezioni Unite nella sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053 – nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Invero, con accertamento di fatto congruamente svolto e con adeguata motivazione immune da rilievi di carattere logico-giuridico, la Corte d’appello è pervenuta, quindi, alla decisione di conferma della illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro – dandone atto, come si è detto, con congrua motivazione – attraverso un’attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati alla lavoratrice, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta.

Il secondo motivo ed il terzo motivo risultano del tutto inammissibili.

Con riferimento al primo deve rilevarsi che il ricorso difetta di autosufficienza in quanto la ricorrente ha affermato di aver chiesto in primo grado e di averla reiterata in appello la domanda di conversione, ma ha omesso di riportare il contenuto dei propri scritti difensivi ove tale richiesta era stata formulata La ricorrente invoca l’applicazione dell’art. 56, 5 ma non riproduce la diversa normativa collettiva che ritiene applicabile.

Anche il terzo motivo è del tutto inammissibile in quanto la ricorrente si limita a denunciare la violazione dell’art. 2697 c.c., richiamando quanto scritto in primo grado ma senza riportarlo e dunque il motivo appare del tutto privo di contenuto.

In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato con condanna della ricorrente a pagare le spese processuali Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese processuali che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2016

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