Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19560 del 04/08/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 04/08/2017, (ud. 03/04/2017, dep.04/08/2017),  n. 19560

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19191/2013 R.G. proposto da:

V.E., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al

ricorso, dagli avv.ti Maria Sonia Vulcano e Claudio Lucisano ed

elettivamente domiciliata presso lo studio legale del secondo

difensore, in Roma, via Crescenzio n. 91;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 02/31/13, depositata in data 22 gennaio 2013.

Udita la relazione svolta alla pubblica udienza del 3 aprile 2017 dal

Cons. Dott. Lucio Luciotti.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. DE AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso chiedendo

dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, in subordine il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 2 del 22 gennaio 2013 la Commissione tributaria regionale del Piemonte respingeva l’appello proposto da V.E. avverso la sentenza di primo grado che aveva a sua volta rigettato il ricorso dalla medesima proposto avverso l’avviso di accertamento di maggiori redditi, di un maggiore valore della produzione ed un maggior volume di affari, rispettivamente ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, relativamente all’anno di imposta 2006, emersi a seguito della verifica delle movimentazioni bancarie effettuate dalla predetta contribuente, titolare di attività agricola e di agriturismo, nel periodo di imposta considerato, da cui erano emersi versamenti e prelevamenti non giustificati.

2. I giudici di appello, rigettate le eccezioni sollevate dall’appellante con riferimento all’insussistenza dei presupposti per procedere ad accertamento induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, all’illegittimo ricorso, da parte dell’Agenzia delle entrate, all’accertamento parziale di cui all’art. 41-bis del citato decreto, all’illegittimità dell’atto impositivo per omessa allegazione dell’autorizzazione alle indagini bancarie, alla irregolarità della notifica dell’atto per assenza di prova della qualifica di messo speciale in capo al soggetto che vi aveva proceduto, al difetto di legittimazione in capo al soggetto che aveva sottoscritto l’avviso di accertamento, sostenevano che la contribuente non aveva vinto la presunzione legale posta in materia di accertamenti bancari dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 32,che la stessa non aveva fornito prova dell’inerenza dei costi sostenuti con i prelevamenti effettuati dai conti correnti bancari, che non era condivisibile la tesi secondo cui i versamenti costituivano ricavi già comprensivi di IVA, che le sanzioni erano state correttamente irrogate, peraltro nel minimo edittale e tenendo conto del cumulo materiale, ed infine che la condanna in primo grado al pagamento delle spese processuali era conforme al principio della soccombenza e che le stesse erano state correttamente liquidate.

3. Avverso tale statuizione ricorre per cassazione la ricorrente sulla base di dieci motivi, variamente articolati, cui replica l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Occorre in premessa rilevare che tutti i motivi di ricorso contengono la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonchè di vizi di motivazione. Com’è noto e recentemente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. n. 17526 del 2016) “il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione. Il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002). In particolare, poi, ancora di recente questa Corte, a Sezioni Unite, al cospetto di un motivo che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., ha avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da (…) irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013)”. Si è però precisato, in un’ottica di contenimento di inutili formalismi processuali e di irragionevoli sanzioni di inammissibilità del ricorso (ex multis, Cass. n. 23315 del 2013) – al fine di consentire la concreta esplicazione di quel “diritto di accesso ad un tribunale” previsto e garantito dall’art. 6, par. 1, della CEDU -, che una simile modalità di formulazione dei mezzi di cassazione può considerarsi rispettosa del canone della specificità del motivo di impugnazione nei casi in cui nella parte argomentativa del mezzo di impugnazione sia possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio (cfr. Cass. n. 9793 del 2013; v. anche Sez. U., n. 9100 del 2016 e, specularmente, Cass. n. 17526 del 2016, cit., n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008).

1.1. Ciò posto in via generale, nella fattispecie le modalità con cui sono stati formulati i mezzi di ricorso, mediante cumulativa deduzione delle censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, espongono gli stessi al vizio di inammissibilità eccezion fatta per quei motivi – di cui si dirà in prosieguo – in cui le argomentazioni vengono sviluppate ora con riferimento all’uno ora all’altro dei profili di censura prospettati e nei quali la commistione è limitata soltanto alla rubrica, evidenziando i motivi “specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto” (Cass. n. 9793 del 2013, cit.).

2. Esaurita tale considerazione introduttiva, deve passarsi all’esame della prima doglianza, osservandosi preliminarmente che la ricorrente, pur indicando nella rubrica del motivo di ricorso il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1, censura la sentenza impugnata solo ed esclusivamente per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che la Commissione di appello aveva omesso di rilevare che l’amministrazione finanziaria aveva determinato la base imponibile ai sensi dell’art. 39 del citato decreto ed invece l’imposta ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 bis, così violando tale ultima disposizione.

2.1. Il motivo in esame, che deve ritenersi ammissibile in quanto le argomentazioni vengono sviluppate con esclusivo riferimento al profilo di censura prospettato con riferimento all’error in iudicando, non si sottrae comunque al vizio di inammissibilità, perchè deduce un vizio che non risulta essere stato dedotto nel giudizio di merito. Invero, la contribuente con il ricorso introduttivo, riprodotto per autosufficienza nel ricorso in esame, aveva dedotto l’insussistenza delle condizioni per procedere ad accertamento parziale e non, invece, che l’Agenzia delle Entrate avesse determinato la base imponibile ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e l’imposta ai sensi della disposizione censurata, che è questione posta con il mezzo di impugnazione qui vagliato, peraltro in modo errato alla stregua di quanto risultante dall’avviso di accertamento, che, questa volta in violazione del ricordato principio di autosufficienza del ricorso, non è stato riprodotto nelle sue parti essenziali, avendo la ricorrente riprodotto soltanto la parte conclusiva dell’accertamento ma omesso quella della liquidazione delle imposte.

2.2. Pare, comunque, opportuno precisare che, come più volte ribadito da questa Corte (recentemente Cass. n. 21984 del 2015, che richiama Cass. nn. 5977/07, 2761/2009, 25335/2010, 27323/2014, 25989/2014; conf. anche Cass. n. 2633 del 2016), con principio dal quale non v’è ragione di discostarsi e che rende palesemente infondata la censura in esame, “l’accertamento parziale non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, ai fini reddituali, e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, ai fini Iva, nè prevede limiti in relazione al metodo di accertamento induttivo, consentito, in linea di principio, anche in presenza di contabilità tenuta in modo regolare, quanto piuttosto una modalità procedurale che segue le stesse regole previste per gli accertamenti”.

3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32,comma 1, n. 2 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 85, comma 1, lett. a), sotto un triplice profilo di omessa pronuncia. Il primo, sul motivo di ricorso con cui aveva lamentato l’utilizzo “automatico” dei dati bancari, in assenza di qualsiasi ulteriore vaglio; il secondo, sull’indebita ripresa a tassazione della somma degli addebiti e degli accrediti in conto corrente; il terzo, sulla ripresa a tassazione della differenza tra addebiti e accrediti che sarebbe stata “accettabile”.

3.1. Il motivo questa volta è inammissibile perchè censura come vizio motivazionale e violazione di legge quello che viene prospettata come “omessa pronuncia” su alcuni motivi di impugnazione dell’atto impositivo, che avrebbe dovuto essere denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con esplicito riferimento nella specie del tutto carente – alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione (cfr. Cass. n. 14130 del 2016, n. 21083 e n. 23117 del 2015). Ma anche ove si volesse ritenere che la ricorrente abbia impropriamente utilizzato l’espressione “omessa pronuncia”, intendendo riferirsi invece ad una “omessa motivazione” sui motivi di impugnazione dell’avviso di accertamento, nondimeno la censura non supererebbe la rilevata inammissibilità per avere la ricorrente trascurato di specificare se e dove aveva riproposto nel giudizio di appello le questioni oggetto di censura, la sentenza gravata non facendone alcun cenno. A ciò aggiungasi che là dove viene lamentato – nel primo che nel terzo profilo di censura – il cattivo uso delle presunzioni e “la violazione della norma della presunzione sulla presunzione”, il motivo si pone in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il divieto di doppia presunzione “non è previsto dall’ordinamento” (Cass. 5402 del 2017, che richiama Cass. n. 1289, n. 9348, n. 17166, n. 18915 del 2015 e n. 19598 del 2014), in quanto “detto principio (…) non è riconducibile nè all’evocato art. 2727 c.c., nè a qualsiasi altra norma dell’ordinamento: come è stato più volte sottolineato da autorevole dottrina, il fatto noto accertato in base ad una o più adeguate presunzioni può legittimamente costituire la premessa per una inferenza presuntiva idonea – in quanto, a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto” (in termini, Cass. n. 18915/15 cit.), l’esistenza di maggiori ricavi può essere accertato, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene al più “alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale” (Cass. n. 1023 del 2008, n. 10517 del 2010, n. 245 del 2014, n. 6534 del 2017).

4. Con il terzo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42,D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, nonchè D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 109 e 163, sotto un triplice profilo. Il primo, per avere la CTR erroneamente ritenuto che la ricorrente avesse inteso provare, attraverso il riferimento fatto ad una sentenza – neanche prodotta in giudizio – emessa dalla medesima CTR nei confronti dei genitori, proprietari dei locali ove la svolge l’attività di agriturismo e destinatari di versamenti effettuati da essa contribuente, l’esistenza dei costi che aveva dichiarato di aver sostenuto. Il secondo, per avere omesso di considerare che “la prova dell’inerenza di quei costi” poteva desumersi dagli stessi avvisi di accertamento emessi nei confronti dei genitori della ricorrente, ai quali erano stati attribuiti come “ricavi dell’attività di ricezione e di ristorazione” i versamenti effettuati in loro favore dalla ricorrente, per la quale, dunque, rappresentavano dei costi. Il terzo profilo, perchè la CTR non si era pronunciata con riferimento alla questione, posta nel ricorso introduttivo, del divieto di doppia imposizione.

4.1. Anche questo motivo è inammissibile per le medesime ragioni dedotte esaminando il secondo mezzo di cassazione, con la doverosa precisazione che nel motivo la ricorrente fa riferimento al testo di una sentenza della medesima CTR mai prodotta nel giudizio di merito, nonchè ad avvisi di accertamento emessi nei confronti dei genitori di cui non è riprodotto il contenuto essenziale, in palese violazione del principio di autosufficienza del mezzo di cassazione.

5. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15,comma 1, n. 5 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 57 e deduce tre profili di doglianza. Con il primo, che la CTR aveva errato nel ritenere, sulla base di quanto emerso nel corso dell’udienza, che l’amministrazione finanziaria aveva “applicato l’IVA in ragione del 20% sui ricavi corrispondenti agli accrediti, scorporando poi nella stessa percentuale l’imposta al fine di determinare l’imponibile ai fini delle II.DD.” in quanto ciò era smentito dall’atto di costituzione in giudizio dell’ufficio. Con il secondo, che dall’avviso di accertamento si evinceva chiaramente che l’IVA non era stata scorporata. Con il terzo, che il ricavo in nero va sempre considerato al netto dell’IVA.

5.1. Il mezzo di impugnazione in esame è palesemente inammissibile, al pari dei due precedenti, in quanto non consente di comprendere la natura delle censure mosse alla statuizione della CTR trascritta nel corpo del motivo, se cioè si è inteso censurare un vizio di motivazione o una violazione di legge, questa peraltro dedotta con riferimento a disposizioni (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 5, che prevede l’esclusione dalla base imponibile delle somme dovute a titolo di rivalsa dell’Iva ed D.P.R. n. 917 del 1986, art. 57, che prevede l’inclusione nei ricavi “del valore normale dei beni” indicati nell’art. 85 stesso decreto, “destinati al consumo personale e familiare”) di cui neanche viene spiegata la rilevanza nella specie ed il rapporto con le doglianze prospettate nel motivo. Del tutto privo di autosufficienza è, poi, il primo profilo di censura, per la mancata riproduzione nel medesimo delle parti essenziali dell’avviso di accertamento, essendo all’uopo del tutto insufficiente la trascrizione dei ricavi desunti dai tre conti correnti intestati alla ricorrente.

6. Con il quinto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata” applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, sostenendo che la CTR ha omesso di pronunciare sul motivo di impugnazione dell’avviso di accertamento fondato sul mancato riconoscimento quali componenti negativi di reddito, dei ricavi conseguiti dai propri genitori, proprietari dell’immobile ove svolge l’attività di agriturismo, destinatari di versamenti di somme.

6.1. Il motivo è palesemente inammissibile perchè con esso la ricorrente prospetta come violazione di legge e vizio motivazionale quello che è all’evidenza un error in procedendo, essendo stata dedotta l’omessa pronuncia su un motivo di impugnazione dell’atto impositivo, che, previa dimostrazione di averlo riproposto in sede di appello (essendo sul punto il ricorso del tutto silente), andava denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c., annotandosi come nella specie non sia applicabile il principio espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 17931 del 2013, non avendo la ricorrente mai fatto riferimento nell’esposizione del motivo “alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione”, limitandosi a sostenere che la pronuncia è mancante. E’ peraltro ius receptum il principio secondo cui costituisce causa di inammissibilità del ricorso per cassazione l’erronea sussunzione del vizio, che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c. (Cass. n. 21165 del 2013 e n. 1615 del 2015).

7. Con il sesto motivo viene dedotta sotto diversi profili, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata” applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, lett. d)e artt. 42 e 60, art. 2697 c.c., art. 24 Cost. nonchè L. n. 241 del 1990, art. 25, comma 4, sostenendo che aveva errato la CTR nell’escludere che la mancata allegazione all’avviso di accertamento dell’autorizzazione alle indagini bancarie non costituisse violazione del citato art. 42 (primo profilo), per averlo erroneamente ritenuto atto interno all’amministrazione (secondo profilo), per avere imposto al contribuente un prova negativa là dove ha affermato che lo stesso “può prenderne visione attraverso l’accesso” (terzo profilo), ed in tal modo anche compresso ingiustificatamente i tempi di tutela dei propri diritti (quarto profilo).

7.1. Anche a voler glissare sulla difformità del mezzo in esame al principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, per avere omesso la ricorrente di trascrivere la parte dell’avviso di accertamento idonea a consentire a questa Corte di effettuare il necessario vaglio di fondatezza della censura, lo stesso è palesemente infondato perchè in contrasto con il principio più volte affermato da questa Corte (fin da Cass. 16874 del 2009; conf. n. 20420 del 2014) e recentemente ribadito (Cass. n. 3628 del 2017) secondo cui “l’autorizzazione prescritta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 7 (nel testo applicabile “ratione temporis”), ai fini dell’espletamento delle indagini bancarie, esplica una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra uffici, e non richiede alcuna motivazione, sicchè la sua mancata allegazione ed esibizione all’interessato non comporta l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite, che può derivare solo dalla sua materiale assenza e sempre che ne sia derivato un concreto pregiudizio per il contribuente”, nella specie indubbiamente mancante, sia perchè sul punto nulla viene dedotto, sia perchè è la stessa ricorrente ad ammettere (punti 13 e 14 dell’esposizione in fatto del ricorso) di avere richiesto in data 15 dicembre 2009 ed ottenuto il successivo 5 febbraio 2010 copia della richiesta avanzata dall’Agenzia delle entrate alle verifiche bancarie e dell’autorizzazione all’uopo ottenuta.

8. Con il settimo motivo la ricorrente, deducendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata” applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 300 del 1999, artt. 19 e 53 e art. 2697 c.c. nonchè “eccesso di potere per violazione di norma interna DRE Piemonte, 1 giugno 2001, prot. 43065”, lamenta l’omessa pronuncia sull’eccezione di difetto di legittimazione del funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento.

9. Con l’ottavo motivo la ricorrente, deducendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata” applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, lett. c) e D.P.R. n. 1191 del 1971, art. 1, lamenta il difetto di pronuncia sull’eccezione sollevata con riferimento all’omessa indicazione nell’avviso di accertamento dell’autorità amministrativa, anche gerarchicamente superiore, cui ricorrere avverso l’atto impositivo.

10. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto entrambi diretti a censurare la medesima omissione, sono palesemente inammissibili per le medesime ragioni dedotte esaminando il quinto mezzo di impugnazione, precisandosi che l’ottavo motivo è anche privo di autosufficienza là dove non indica il luogo ed il modo di riproposizione nel ricorso in appello del motivo di impugnazione dell’atto impositivo proposto in primo grado.

11. Con il nono motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata” applicazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 67, comma 1, lett. a), art. 68, art. 71, comma 3, R.D. 262 del 1942, art. 1, lett. b) e art. 4, comma 1, della Delib. 30 novembre 2000, art. 4, comma 1, nonchè della Delib. 13 dicembre 200, per avere la CTR erroneamente ritenuto “ingiustificata l’eccezione di legittimazione in capo al Direttore dell’Ufficio di Chivasso alla sottoscrizione dell’atto impositivo”.

11.1. Il motivo è infondato alla stregua della giurisprudenza di questa Corte che, sebbene formatasi sulla problematica relativa alla legittimazione processuale dei direttori degli uffici locali delle agenzie delle entrate (Cass. n. 6338 del 2008, n. 8703 del 2009, n. 20911 del 2014, n. 20628 del 2015, n. 15470 del 2016), è chiaramente estensibile alla legittimazione ad emettere gli atti impositivi perchè attribuzioni che trovano fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando espressamente allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia. Sono quindi intervenuti lo Statuto provvisorio (adottato con Decreto 14 marzo 2000) e, quindi, il Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate (pubblicato sulla G.U. del 13/12/2001), che ha stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso. Dunque, la legittimazione dell’Ufficio locale ad emettere l’atto impositivo trae fondamento dalla norma statutaria delegata (art. 5, comma 1 del Regolamento), esistente per effetto della norma delegante (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1) e, pertanto, allo stesso va riconosciuta il potere di emettere atti impositivi di competenza.

12. Con il decimo ed ultimo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e “mancata” applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, commi 1, 2 e 3, per avere la CTR omesso di spiegare le ragioni in base alle quali aveva ritenuto che le sanzioni erano state determinate nel minimo, anche tenuto conto dell’applicazione del cumulo materiale.

12.1. Il motivo è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso, avendo omesso di riprodurre la parte dell’avviso di accertamento in cui l’amministrazione finanziaria ha determinato le sanzioni inflitte alla contribuente.

13. In estrema sintesi, quindi, il ricorso va rigettato per infondatezza del sesto e nono motivo di impugnazione e per inammissibilità di tutti gli altri, e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo nonchè al rimborso delle spese eventualmente prenotate a debito.

14. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

PQM

 

dichiara infondato il sesto e nono motivo di ricorso, inammissibili tutti gli altri, e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 13.000,00 per compenso, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2017

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