Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19559 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. II, 18/09/2020, (ud. 27/01/2020, dep. 18/09/2020), n.19559

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7011/2018 proposto da:

G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TIZIANO

108, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO ALLOCCA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FIORAVANTE ORLANDO;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, presso la propria sede in VIA

NAZIONALE 91, rappresentata e difesa dagli avvocati MARIA PATRIZIA

DE TROIA, MARCO DI PIETROPAOLO, e DONATO MESSINEO, dell’Avvocatura

della Banca stessa;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5596/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/01/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per la parziale inammissibilità, in

subordine il rigetto, del ricorso;

udito l’Avvocato Sonia Allocca, con delega depositata in udienza

dall’avvocato Giorgio Allocca, difensore della ricorrente, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Donato Messineo, difensore della resistente, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La sig.ra G.A. ha proposto ricorso, sulla scorta di sei motivi, per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma che ha rigettato la sua opposizione avverso il provvedimento con cui la Banca d’Italia le aveva inflitto la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 40.000 per addebiti riferibili alla sua attività di componente del collegio sindacale della Cassa Mutualità Morcone società coop. a r.l. (di seguito CAMMO) nel triennio 2007-2010; più, precisamente, per l’illecito di inesatte segnalazioni all’Organo di vigilanza, in violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 106, comma 6 (di seguito T.U.B.) e della Circolare della Banca d’Italia n. 273 del 5.1.2009, e per l’illecito di omesse segnalazioni alle competenti Autorità, in violazione dell’art. 112 T.U.B. (i richiami al T.U.B. contenuti nella presente sentenza sono riferiti al testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 141 del 2010).

La Corte territoriale ha rigettato tutti i motivi di opposizione dell’odierna ricorrente, ritenendo la medesima responsabile degli illeciti a lei contestati dalla Banca d’Italia.

La Banca d’Italia ha depositato controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 27 gennaio 2020, per la quale non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, rubricato con riferimento dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5 (ma in effetti deducente, ad onta di tali impropri richiami, un vizio di violazione di legge), la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2403,2407,2623,2423,2432,2409 bis23812391 c.c. e della L. n. 366 del 2001, in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa trascurando che i sindaci possono rispondere solo della violazione di obblighi specifici inerenti alla loro carica, con esclusione di qualunque responsabilità di carattere gestorio; per effetto di questo errore di diritto, si argomenta nel mezzo di ricorso, la Corte capitolina avrebbe ritenuto l’odierna ricorrente responsabile degli illeciti alla stessa contestati dalla Banca d’Italia senza specificare analiticamente le violazioni da lei ipoteticamente commesse nell’ambito della sua attività di componente del collegio sindacale, nè i danni ipoteticamente derivati da tali ipotetiche violazioni.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, dopo aver fatto riferimento al disposto dell’art. 2403 c.c., alle Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario emanate il 4 marzo 2008 ed alle Istruzioni di vigilanza per le banche dettate con la circolare del 21 aprile 1999, ha affermato che il compito affidato al collegio sindacale consiste in un controllo non meramente formale, bensì sostanziale, destinato ad estrinsecarsi anche con l’adozione di iniziative idonee a realizzare la funzionalità del complessivo sistema di controlli interni. Da tale principio la Corte capitolina ha tratto la conseguenza che il collegio sindacale “pur non dotato di un potere di surroga nei confronti del consiglio di amministrazione che si mostri impermeabile ai rilievi dell’organo di controllo, non si deve limitare a formulare tali rilievi, ma deve costantemente vigilare, per verificare se le criticità riscontrate siano state rimosse” (pag. 8, terzo capoverso). Tali principi – sulla cui base la Corte d’appello ha escluso valenza esimente alla circostanza che i dati contabili su cui il collegio sindacale effettuava le proprie valutazioni fossero elaborati da altri soggetti – sono conformi a diritto.

Le Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno infatti già avuto modo di precisare che, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la complessa articolazione della struttura organizzativa della banca non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la prestazione del servizio di negoziazione, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche del controllo del corretto operato della banca intermediatrice, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob ed a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia e alla Consob, ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 8, delle violazioni delle norme dettate in tema di intermediazione mobiliare (così Cass. 20934/09; in senso conforme si veda anche Cass. Sez. I, 6037/16).

Con il secondo motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 4, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa omettendo l’esame dei verbali del collegio sindacale nn. 1/2009, 3/2009, 4/2009, 5/2009 e1/2010, dei quali riporta taluni stralci idonei a dimostrare, secondo la prospettazione svolta nel corpo del motivo, l’attività di controllo e sorveglianza esercitata dal collegio sindacale, con particolare riferimento ai c.d. “crediti a incaglio”.

Il motivo va disatteso. La denuncia di violazione dell’art. 112 c.p.c., svolta nella rubrica del motivo, non è in alcun modo illustrata nello sviluppo argomentativo della doglianza. In ogni caso va qui ribadito il consolidato principio che il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorchè risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti, come nella specie, il rigetto (in termini, tra le tante, Cass. n. 407/06, Cass. 10636/07).

Quanto alla denuncia di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., la doglianza va giudicata inammissibile alla luce della sentenza di questa Corte n. 23940/17, nella quale è stato affermato che principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012).

Venendo, infine, all’esame della denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (non enunciata nella rubrica del motivo, ma sviluppata nel corpo del medesimo), è sufficiente osservare che, come chiarito da questa Corte con l’ordinanza n. 27415/18, detta disposizione consente di censurare non già l’omesso esame di documenti o altre risultanze istruttorie, bensì l’omesso esame di fatti storici specificamente individuati (che abbiano formato oggetto di discussione tra le parti e risultino dotati del requisito della decisività, ossia appaiano idonei ad invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito); la ricorrente, nel mezzo di impugnazione in esame, si è sottratta al suddetto onere di individuazione di fatti, essendosi limitata a trascrivere taluni stralci di verbali delle riunioni del collegio sindacale senza specificare quali sarebbero i fatti, dagli stessi desumibili e dotati del requisito della decisività, che la Corte di merito avrebbe omesso di esaminare; così investendo la Corte di cassazione dell’inammissibile richiesta di sostituirsi alla Corte di merito e di individuare essa, nel materiale istruttorio acquisito alla causa e trascritto nel ricorso per cassazione, il fatto o i fatti decisivi che avrebbero potuto condurre ad un esito decisorio alternativo a quello cristallizzato nella sentenza impugnata.

Con il terzo motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, si denuncia la violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., in cui la Corte capitolina sarebbe incorsa trascurando l’esame delle argomentazioni svolte in sede di merito dalla sig.ra G. per contestare l’addebito mosso ai sindaci in relazione alla posizione del Gruppo Alat P.R.. In particolare la ricorrente lamenta che la Corte di appello non abbia in alcun modo valutato le considerazioni che ella aveva svolto in ordine alla congruità del fondo svalutazione crediti, nè abbia esaminato il verbale della riunione del collegio sindacale n. 1/2010 in cui l’organo amministrativo era stato invitato a mettere in mora i debitori e procedere per via legale nei confronti del Gruppo Alat P.R..

Il motivo va disatteso. Premesso che, con riferimento alla denunciata violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., il Collegio non può che rinviare alle considerazioni già svolte nel corso dell’esame del precedente mezzo di ricorso in ordine ai limiti ed alla portata del sindacato di legittimità sulla violazione di dette disposizioni da parte del giudice di merito, appare comunque tranciante la considerazione che la doglianza risulta priva di pertinenza alle motivazioni della sentenza impugnata. In tali motivazioni non si fa alcun cenno alla posizione del Gruppo Alat P.R., in quanto il rigetto dell’opposizione della sig.ra G. si fonda sulla condivisione, da parte della Corte d’appello, della valutazione svolta dall’Organo di vigilanza sulla complessiva inadeguatezza dell’attività posta in essere dal collegio sindacale a fronte dell’inaffidabilità del sistema contabile della banca – che “rendeva insicura la determinazione delle ragioni di debito e di credito nei confronti delle controparti” – e a fronte delle perdite emergenti dall’analisi del portafoglio prestiti al 30 giugno 2010 (vedi pagg. 11 e 12 della sentenza). La censura veicolata nel terzo mezzo di impugnazione risulta dunque fuori bersaglio.

Con il quarto motivo, rubricato con riferimento dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (ma in effetti deducente, ad onta di tale improprio richiamo, un vizio di violazione di legge), si denuncia la violazione degli artt. 2403,2407,2623,2423,2432,2409 bis, 2381 e 2391 c.c., nonchè della L. n. 366/01 in cui la corte territoriale sarebbe incorsa trascurando che la sig.ra G. aveva assunto l’incarico di sindaco solo nel 2007. L’odierna ricorrente – dopo aver sottolineato che nell’atto di opposizione alla sanzione era stata evidenziata la regolarità dei finanziamenti più significativi erogati dalla banca nel triennio 2007/2010, in cui ella aveva ricoperto la carica di sindaco – lamenta che la risposta offerta a tali argomentazioni nella sentenza impugnata si risolva in un generico richiamo all’inadeguatezza del sistema contabile della banca e alla mancata rilevazione di talune perdite, senza alcuna individuazione di specifiche responsabilità personalmente addebitabili alla ricorrente, la quale, a differenza degli altri componenti del collegio sindacale, aveva ricoperto l’incarico di sindaco solo per un breve periodo. Sulla premessa di tali dedotte carenze motivazionali della sentenza, la ricorrente innesta la denuncia di violazione di legge dispiegata nel motivo in esame, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe violato il disposto dell’art. 2407 c.c., comma 2, nell’ascrivere alla sig.ra G. una responsabilità per la cattiva gestione degli amministratori senza, tuttavia, indicare quale sarebbe lo specifico obbligo di sorveglianza, inerente alla carica di sindaco, dalla stessa violato.

Anche questo motivo va disatteso, perchè si fonda su una interpretazione delle regole che disciplinano la responsabilità dei componenti del collegio sindacale di una società bancaria difforme da quella enunciata nelle sentenze di questa Suprema Corte nn. 20934/09 e 6037/16, sopra citate nell’ambito dell’esame del primo motivo di ricorso; sentenze alle quali conviene aggiungere, con specifico riferimento all’argomentazione sviluppata in questo mezzo di ricorso sui limiti della corresponsabilità dei sindaci per i fatti degli amministratori, anche la recente pronuncia Cass. 18770/19, che ha precisato che ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori, ai fini della responsabilità dei primi secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco può assumere esercitando i poteri-doveri propri della carica, quali: la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 c.c. e segg., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446-2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile.

Con il quinto motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, si denuncia l’omesso esame dei fatti, qualificati come decisivi, che la ricorrente svolse l’incarico di sindaco per breve durata e che i principali finanziamenti concessi dalla banca in tale periodo (triennio 2007-2010) ossia quelli erogati alla società Linfe s.r.l., alla società IMS s.r.l. ed al sig. D.M.D.) – non avevano formato oggetto di rilievi nel provvedimento sanzionatorio; nel mezzo di impugnazione si reitera altresì la doglianza relativa all’omesso esame della documentazione prodotta dalla ricorrente in sede di merito e si argomenta che la circostanza che i suddetti finanziamenti non risultino menzionati nel provvedimento sanzionatorio dimostrerebbe che nessuna responsabilità potrebbe scriversi alla signora G..

Il motivo – che sostanzialmente reitera, sotto il profilo del vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la medesima doglianza svolta nel quarto mezzo di impugnazione – va giudicato inammissibile, in quanto risulta formulato senza il rispetto del paradigma fissato nell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dalla riforma recata dal D.L. n. 83 del 2012.

In detto motivo infatti, per un verso, si propongono doglianze ellittiche rispetto alle argomentazioni della sentenza impugnata, le quali come già sopra sottolineato nel corso dell’esame del terzo motivo di ricorso – fondano il giudizio di responsabilità della sig.ra G. sulla complessiva inadeguatezza dell’attività posta in essere dal collegio sindacale; per altro verso – invece di indicare fatti decisivi non esaminati dalla Corte d’appello (la quale peraltro ha espressamente dato atto della circostanza evocata nel mezzo di impugnazione, ossia che i finanziamenti erogati ai clienti Linfe, IMS e D.M. non erano stati menzionati nel provvedimento sanzionatorio, vedi pagina 5, terzultimo capoverso, della sentenza) – si propone una tipica doglianza di merito, sostanzialmente chiedendo alla Corte di cassazione di sostituirsi al giudice territoriale nel dedurre dalle risultanze di causa (e, precisamente, dal rilievo che il provvedimento sanzionatorio non faceva cenno ai tre finanziamenti sopra menzionati, indicati in ricorso come quelli più rilevanti effettuati dalla banca nel triennio 2007/2010) l’inferenza dell’assenza di responsabilità in capo all’odierna ricorrente. Donde, si ribadisce, l’inammissibilità del mezzo.

Con il sesto motivo di ricorso, riferito dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, si denuncia la violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza desumibile dalla L. n. 689 del 1981, art. 11 e art. 3 Cost., in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa omettendo di commisurare l’entità della sanzione alla graduazione della responsabilità della ricorrente rispetto a quella degli altri componenti del collegio sindacale (di maggiore anzianità di carica) ed a quella degli stessi amministratori.

Il motivo è infondato. La Corte d’appello ha rigettato il motivo di opposizione con cui l’odierna ricorrente si era doluta della quantificazione della sanzione inflittale sul rilievo della gravità delle contestazioni concernenti l’inesattezza della segnalazione all’Organo di vigilanza e l’omissione della segnalazione alle competenti Autorità; in particolare, nell’impugnata sentenza si argomenta come tali violazioni fossero relative “all’esercizio della funzione fondamentale del componente dell’organo di controllo” (pag. 8 della sentenza). L’assunto della ricorrente secondo cui tale motivazione violerebbe il disposto della L. n. 689 del 1981, art. 11 e art. 3 Cost., non può essere condiviso. Premesso che la Corte territoriale richiama espressamente il disposto della L. n. 689 del 1981, art. 11, là dove esso indica il parametro della “gravità della violazione” (pag. 9, rigo 4, della sentenza), il Collegio rileva che la censura, in sostanza, attinge l’apprezzamento di fatto operato dalla Corte territoriale sulla congruità della sanzione irrogata dall’Organo di vigilanza in relazione alla gravità dell’addebito. A prescindere dalla considerazione che il criterio comparativo tra la posizione della ricorrente e quella degli altri sindaci e degli amministratori risulta evocato nel mezzo di gravame in termini del tutto generici, nulla precisandosi in ricorso in ordine agli illeciti contestati agli altri esponenti aziendali ed alle motivazioni fornite dalla Banca d’Italia in ordine alla quantificazione delle sanzioni loro irrogate, è comunque tranciante la considerazione che, come già chiarito nella sentenza n. 9126/17 di questa Corte – con specifico riferimento alle sanzioni previste dal T.U.F. – nel procedimento di opposizione il giudice ha il potere discrezionale di quantificare l’entità della sanzione, entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11, quali la gravità della violazione, la personalità dell’agente e le sue condizioni economiche.

Il ricorso va quindi, in definitiva, interamente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

Deve darsi atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.000, oltre Euro 200 per esborsi e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

 

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